MarTe

24 dicembre 2025

Martuccia mia ma quando torni?

L’attesa è uno strazio. Nel breve termine un malessere superabile ma a lungo andare è atroce agonia. Basta! Smetto di resistere. La lama nella mia mano non aspettava altro, entra e taglia. Una per ogni ora, mi dico, è una vendetta necessaria.

Lei ancora non torna, capirà.

Tentatrice, brilla nel soffice groviglio. Qui e là come punti di luce l’uvetta passa mi fissa e m’attrae, luminosa dal calore che profuma l’aria di canditi colorati, qui e là incastrati come gemme grezze nella pasta cavernosa di pane dolce.

Non resisto: al tepore del camino nero marquinia, una seconda e poi una terza fetta di pura delizia, un reato di lesa maestà, reiterato, un peccato senza vergogna.

panettone
panettone

Gusto ormai senza più fame, con lo sfregio lussurioso di una promessa ormai delusa. S’incazzerà ma poi faremo pace. Non conosco vendetta più dolce per questa assurda attesa. Ingordo e avvinto, mi abbandono alla libidine del palato mentre la crema al limoncello osanna l’astuzia artigianale di quel diavolo di pasticciere amalfitano.

Oggi è il 24 dicembre 2025, aspetto la mia donna e l’attesa m’affligge ancora di più, pieno come sono di sensi di colpa. Non mangio per fame ma per riempire il vuoto dentro che grida quando lei non è qui con me. Certo che capirà.

Io sono a Milano, tormentato, forse solo impaziente. Nervoso, molto nervoso: l’attesa mi snerva. Mi serve ordine e disciplina. Vivrei di scrittura se potessi, ma questo che te lo dico a fare? È un luogo tanto comune da sembrare uno schiaffo alla banalità. Niente musica né TV. Solo nel silenzio sento distinta la mia voce. Ricerco. Rivedo e catalogo vecchi racconti nel PC mentre aspetto Maria Teresa. È da una amica a pezzi che nella videochiamata piangeva come una disperata, la mia marziana è corsa da lei.

“E non osare mangiare il panettone senza di me” ha urlato col suo minaccioso accento tedesco e gli anfibi lucenti calzati di corsa, stonati sotto il lungo Carley Parka, un po’ retrò ma candido come la neve.

Queste amiche che cadono a pezzi la Vigilia di Natale mi hanno rotto i coglioni ma che posso farci? MarTe è così, ti ripara l’anima, scova lacerazioni, sensi di colpa, incrostazioni che fanno male, cura concrezioni di tormenti, avvince il meglio che hai dentro, incolla i pezzi sospesi e ti rimette in moto. Da e toglie a suo piacimento, sa essere crudele come nessuno, io l’adoro: la sua assenza mi ferma il respiro.

Devi sapere che Maria Teresa parla cinque lingue e lavora per una multinazionale che pubblica a milioni pagine patinate con gente stupenda stampata sopra, insomma moda, trucchi e profumi, essenze d’effimero, meraviglie superflue, droghe di bellezza. Quando le dico queste cose si incazza di brutto. È una manager della cosmesi, crea bisogni con il richiamo ancestrale alla perfezione di corpi e volti magnifici: manipola immagini e parole, raffina illusioni, estrae luce da nebbie di lacca. Lavora su foto e parole, la sua è magia editoriale. La pagano bene.

Cosmetica la strega, sei da bruciare viva sul rogo in piazza Duomo, questo le dico quando litighiamo, e lei mi avvampa e mi spegne chiamandomi misero pezzente. Iniziano grugniti e silenzi, sberleffi e ripicche infantili. Poi dalla discussione violenta morta nella cenere del silenzio, al primo contatto della pelle ripartono coccole e carezze. E così la morsa della passione ci avvolge fino a sfinirci, fino all’ultima goccia di adrenalina assaporata come un nettare divino di sfrenato piacere, il cuore a mille, la carne avvinghiata che vibra, il punto di non ritorno desiderato e messo in attesa di lei, di me, di noi, fino al grande salto nel mare calmo della pace dei sensi, della carne, della mente, dell’anima che torna a dividersi estasiata.

Magari porta a casa l’amica, quella devastata dalla solitudine, la russa abbandonata in albergo da un riccone sposato e traditore. L’aiutiamo a superare la crisi sparandoci l’un l’altra una notte di carezze a tre, coccole e carezze come adolescenti affamati di conoscenza. Una santa e benedetta notte di Natale, sarebbe.

Ho visto le bozze della campagna pubblicitaria che sarà lanciata su uno dei prossimi numeri di Vogue, la modella devastata dal tormento è una patanona stratosferica.   

Vedi peccato nell’immaginarsi? Io qualche volta sento vergognose eccitazioni. È un viaggio mentale sucido, l’erezione. Potrei scrivere senza fantasia ma sarebbe solo sudiciume. Comunque Maria Teresa non lo farebbe mai, un triangolo intendo. La mia tirolese trapiantata in questa metropoli senza confini, mi evira il gioiello, altro che.

MarTe è gelosa. Ma che dico, gelosissima.

“Se mi gira ti faccio eunuco di compagnia” e quando me lo dice non so mai se scherza o fa sul serio. È per questo che il romanzo su cui lavoro da tre anni non le piace, è gelosa dei miei personaggi donna, e non ti dico del rapporto con il mio editor, donna anche lei per volontà imposta dall’editore. Dice, l’editore, che sono troppo uomo per scrivere di donne e ancora non ho capito se in tutta questa strana storia il vero geloso sia lui.

Ma come fai a desiderare chi non ti desidera? Gli direi, ma resto vago come mi ha consigliato MarTe.

Questo romanzo finirà nella spazzatura, l’intreccio non funziona. Ne ridiamo insieme io e Maria Teresa, lei i pezzi me li fa brillare, quelli dell’anima dico, e dai concentrati ti prego: provo a desiderare negli occhi di te che leggi, tracce di libidine, bagliori d’interesse tra le ciglia che si chiudono in segno di noia.

Come faccio a fermare le tue mani dal buttare via queste pagine?

Superstizione? Una macumba, un saggio sulla cura inguinale dei linfonodi?

Un manuale per la felicità. Sai che palle.

Chiedi come ho conosciuta la mia donna? Beh, nella confusione digitale del mio passato ho trovato un raccontino che fa al caso nostro.

Era una notte buia e tempestosa… No dai, scherzo. Dammi una chance.

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Agosto 2022. Il ventilatore.

D’estate quando al buio le stelle brillano, cuori solitari attendono storie, sospese in pensieri repressi, storie trattenute, stracciate da parole non dette.

Un cuore a riposo batte tranquillo, non sa che all’improvviso può impazzire.

«Pino ma che fai? Te ne vai? Ci lasci proprio sul più bello?»

Chiamato in causa mi guardo intorno con la paura di lasciare in giro qualche traccia di me, prima di sparire come ha fatto qualche ora fa, quella palla di sole arancione all’orizzonte.

Nell’aria i profumi del Cilento, intorno a noi la spiaggia tra il mare che sussurra e la pineta muta, e al centro un magico falò con nuove amiche arrivate nel pomeriggio alla ricerca di affinità elettive. Illuminare la notte d’allegria, inebriarci di ricordi e storie esagerate fino all’alba, questo è il programma.

«Lo so, è un peccato ma devo andare…» dico mentre la rossa mi guarda perplessa.

 «Un fulmine ha colpito una fabbrica a Cuba e una nube tossica arriva all’Avana. Devo scrivere un pezzo per la TV, andiamo in onda domani mattina…» dico per dire amen alla sequela di scuse lamentose per stoppare il fatevi i cazzi vostri che mi passa per la mente. Non voglio andarmene ma devo. Domani è lunedì, uno di quei giorni che vorresti cancellare dal calendario. Lascio gli amici a divertirsi: una grande stronzata.

Ogni agosto tornano a nutrire le nostre antiche radici abbarbicate nella roccia selvaggia che ci abbraccia tutt’intorno da Sapri a Paestum. Amici d’infanzia, compagni inseparabili nell’adolescenza più cruda, a correre appresso a sogni di cuoio di un pallone amaro, ad ammazzarci su campi polverosi, privati dell’erba dei campioni, nel fango d’inverno e su ciottoli di pietre taglienti in primavera. Migrati al nord li canzono ogni volta: lavoro grigio, contributi, malattia e ferie pagate. A volte li offendo con rabbia per aver svenduto la libertà ad un cartellino da timbrare, piegati al controllo, ad una vita regolare da subordinati al nord. Ogni agosto ritornano e si vendicano. È finita che loro fanno i signori in vacanza e io lo schiavo a ore in una TV locale di Napoli.

Dodici mesi all’anno senza tredicesima, ad ore senza ferie pagate, e nemmeno un cartellino da timbrare, perché quello è la prova di un lavoro dipendente mica il gadget di un professionista a partita iva. Il tempo indeterminato è diventato il mio: indeterminato il reddito, indeterminato l’orario dell’impegno e del riposo, indeterminato il ritmo, stonate le voci che mi accompagnano, nessuna melodia, questa è la verità.

Il perdente sono io, però sono libero, sì libero ma di che?

Fluido e flessibile, riproduco precarietà, cannibale di me stesso, mi consumo.

In questa favolosa sera d’estate, se i miei amici sapessero del mio tormento mi legherebbero ad un albero. Mi vogliono bene, questo lo so. Bendato mi farebbero strusciare le parti intime e baciare sulla bocca dalle ragazze, è un gioco atroce: il malcapitato resta legato finché non riconosce chi lo tocca. È una variante sexy dello schiaffo del soldato. Estate dopo estate, ha sempre funzionato nel determinare una comitiva vincente: la serata si infiamma quando è una delle ragazze ad offrirsi volontaria a farsi legare all’albero. È dalla sudata maturità al “Leonardo da Vinci” che perfezioniamo la nostra strategia di conquista con uno scenario di battaglia ormai definitivo: la foce del Mingardo. So cosa mi perdo, e se i miei amici sapessero del mio tormento, salterebbero ogni tattica programmata e mi legherebbero subito mani e piedi per trattenermi tutta la notte. Mi vogliono bene e io a loro ne voglio più che a me.

Fuggendo dall’allegra comitiva un barlume di dignità mi nasconde: mostro orgoglioso il dovere che mi chiama. Devo andare. Guardo la rossa con gli occhiali da intellettuale come un cane bastonato. L’ho delusa, si chiama Maria Teresa, so poco o niente di lei. Mi osserva intristita mentre raccolgo lo zaino di corda posato nella sabbia dove finiscono i sassi.

Genny ridacchia: «Dai Pino, non fare questa figura di merda, le belle nordiche penseranno che…» un ghigno d’invidia mi sfregia la bocca e lo prendo a calci. A lui piace scegliere per primo la ragazza più carina per dormirci insieme il giorno dopo. È fatto così, è un leader, in fabbrica fa il sindacalista, si prende sempre il meglio per sé e per la sua squadra, è rappresentante e rappresentativo della deindustralizzazione che vince in questo paese.

Gennaro ride e strilla mentre subisce senza reagire:

«Sfigato, freelance e meridionale. Vai Giusè, vattenne e puortete a’pucundria cu te

Adesso ridono tutti, tranne lei che mi fa un occhiolino e mi manda un bacetto nell’aria. Per la verità nemmeno mi attraeva, chiusa, appartata, estranea alla baldoria della comitiva che giocava come adolescenti negli schizzi cristallini dell’Arco Naturale. Questo prima, poi intorno al fuoco, con la pizza, le birre e la chitarra, proprio quando i racconti delle nostre vite si aprivano alle curiosità più sfrenate, lei con una frase tagliente come una sciabola, mi aveva aperto in due e nel petto piantato un seme sconosciuto…

Molte ore dopo sono a casa e sento il desiderio di lei che mi cresce dentro, germoglia. Ripenso a lei e a come mi ha incantato, selvatica e selvaggia, con una battuta geniale e feroce, una mazzata tra capo e collo di un buffone smascherato nel fragore di una risata generale. L’ho delusa? Forse le sarebbe piaciuto venire via con me. Invece sono sparito come un pirla.

Dopo il tramonto, ormai al buio, raccontavo i miei sogni letterari, avventure di un’esistenza da romanzare, e avevo finito per dire che: “solo un robusto principio morale può impedirmi di uscire deciso per strada e mettermi metodicamente a gettare in terra il cappello alla gente, allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto”. Quando succede mi imbarco su una nave e riparto per terre straniere, avevo aggiunto. Nel mentre, compiaciuto della mia recita, con l’indice proteso alle luci di grosse barche a vela ancorate nella baia, in lontananza indicavo la vastità del Mediterraneo.

L’unica a non guardare era lei. Adagiata su pietre marine levigate dai millenni, mi fissava mentre dalla fronte alla bocca carnosa, una ciocca rossa ribelle le spaccava il viso di porcellana bianca.

“Attento a non finire come un pinocchio a cercare di uscire dal culo di una balena!”

La perfida luna piena, i riflessi ramati sul volto e quelle parole assassine mi avevano stregato: nessuno dei presenti aveva capito niente, solo lei che conosceva Ismaele, Moby Dick e la vergogna da bugiardo che mi bruciava dentro. Così stordito sono scappato.

Adesso questo dannato ventilatore in faccia che gira a stento me ne guasta il ricordo. Tre ore di auto proletaria per tornare in questo schifo di monolocale striminzito senza aria condizionata e seicento euro al mese di affitto più spese.

Devo consegnare tre cartelle ed è la notte più calda del secolo. È un’occasione unica anche se per la verità non è la prima volta che mi chiedono con urgenza un pezzo, è un extra che mi fa comodo, mi usano come tappabuchi, lo so bene. Tra poco devo essere presente in studio, mi pagano come attrezzista a ore mica come giornalista a cartella. Poi aiuto tutti, sono un jolly, un lavoratore quando serve, aiuto elettricista, aiuto cameraman, aiuto regia, aiuto tecnico delle luci o del suono, aiuto archivista e una volta mi hanno messo anche una pezza e una scopa in mano che piangevo miseria: quelli della produzione mossi a pietà per la mia condizione mi offrivano un ruolo scoperto, a ore ovvio mica a tempo indeterminato. Nemmeno pubblicista sono diventato. Tendo ad evadere ogni formalità, sono io il colpevole, un criminale, nessuno mi costringe, e se mi faccio male, anche quella colpa è mia. È un mondo competitivo quello dello show business lo comprendo, tuttavia, onestamente, a dirla tutta la verità, essere un bravo jolly mi conviene. Con quello che costano come potrei mai permettermi concerti allo stadio o al San Carlo, e le commedie? Trianon, Mercadante, Ridotto, Augusteo, Bellini, Sannazzaro, tappo buchi finanche nel teatro di Eduardo, il San Ferdinando. È una nave che naviga e io mi sento utile, tappo buchi.

Sto delirando, il caldo. È la notte più afosa del secolo per chi respira aria incondizionata in città, immobile, inquinata di squallore, in un ritaglio di mansarda dei quartieri spagnoli a due passi dal palazzo reale di piazza Plebiscito.

Sfarzo e povertà abbracciati come gemelli siamesi arresi all’indecenza del progresso.

Il ventilatore gira, ma è usurato, fa uno strano rumore, gira piano. La potenza solo un ricordo. Fragola. Penso al mio ghiacciolo preferito, confezione da sei per un euro e novantanove. Sulla strada del ritorno da Palinuro ne ho preso due scatole in un discount.

Il ventilatore grippa e si ferma. Io no. Scavo nel cassetto dei miracoli, ne trovo uno mini, cinese, sembra una margherita. Lo collego alla USB del PC, e torno a picchiare sui tasti. Tra un pensiero e l’altro la posta elettronica, rispondo, apro i social, urca mi affogano di messaggi e che palle…

All’improvviso il delirio. Allarmi impazziti scattano ovunque. Il suono delle sirene degli antifurti è allucinante, come un trapano mi devasta il cervello.

Il popolo non rispetta il sacrificio chiesto dal governo, quello di risparmiare energia perché siamo in guerra. Blackout totale. Alla finestra mostro il dito medio agli italiani che hanno scelto il condizionatore. Spreco, cripto valute, bagordi e luminarie?

Ben vi sta!

I ponti radio dei gestori telefonici reggono, hanno i generatori diesel, quelli sono furbi, il traffico dei dati nell’etere non si ferma, ogni giga è moneta contante.

Ho un altro computer, il portatile per le emergenze che lascio sempre a casa, e quindi non mi fermo. La corrente elettrica non torna, la batteria svuotata dal ventilatore USB si esaurisce troppo presto. Stanco mi stendo un po’ e un po’ riposo.

Vampire nere sono entrate dalla finestra. Prendo la racchetta ammazza zanzare e mi preparo al massacro elettrico, premo il pulsante, niente, scarica anche quella.

Non so come ma dormo tre ore. La corrente non è tornata. La crisi sembra più seria del solito. Niente TV, niente PC e cellulare morto. Stanco di tutto dormo ancora.

Mi sveglio tutto bagnato di sudore peggio di prima, potevo vedere sorgere il sole con Maria Teresa abbracciata a me, pirla che sono. Metto i piedi per terra e sul letto saltano schizzi d’acqua, sono allagato. La porta del frigo è aperta, ogni luce spenta, sciolti i congelati ormai mollicci. È la notte più bollente da secoli. Avrò mangiato un ghiacciolo nel sonno. Ora ricordo: strusciavo fragole su seni generosi mordicchiando freschi capezzoli turgidi. Cazzo i frigoriferi sono il problema! Quante tonnellate di cibo si perdono senza energia? È una buona idea per un articolo, venti euro fanno sempre comodo, entropia. Vado in bagno e non c’è acqua, senza corrente le pompe si fermano. Mi stendo ancora con sulla faccia l’asciugamano impregnato dell’acqua che ho raccolto dal pavimento, era ghiaccio e sa di pesce che inizia a puzzare. Questa vita è una merda. Ricordo lei che nemmeno conosco e che forse potrebbe desiderarmi così come sono. Dal buio l’alba tra i palazzi m’illumina di lei.

Il serbatoio della vecchia Panda è vuoto. Dove vado?

Penso al ventilatore come l’amore, frenato e senza energia non gira…

— ∞∞ EPILOGO ∞∞ —

Sono passati tre anni da quella notte, nel tempo libero lavoro ancora al mio primo romanzo che a Maria Teresa non piace. Però mi aiuta lo stesso, sapessi quante discussioni e quante risate. Sarà una bomba. È stata lei a trovarmi un editore che, devo dire la verità, sta investendo molto su di me anche se rompe in continuazione le palle, mi ha anche cambiato tre editor per farmi contento, il debito che ha con Maria Teresa deve essere enorme.

La pace in Europa è tornata, così come i russi a sperperare rubli per il mondo.

Vuoi sapere cosa è successo dopo quella favolosa notte d’estate?

Per mesi tra noi ci siamo scambiati chat sempre più intriganti. A Pasqua mi ha invitato a casa sua. Abbiamo verificato che il colpo di fulmine bidirezionale avesse basi solide nella fisica dei nostri corpi. Ti risparmio dettagli e scintille. Torno a Napoli. A giugno mi chiama divertita. Ti ho trovato un lavoro pagato bene a tempo indeterminato, puoi svoltare mi dice. Il settore comunicazione di una multinazionale del farmaco ha bisogno di uno come te. Dai molla tutto e vieni a vivere con me nell’attico di via Alessandro Manzoni. La camera per gli ospiti è tua, non farti problemi, se ti stufi di me o io di te, risolviamo.

“Sei sbruffone e brigante, una perla verace che voglio tutta per me.”

Proprio così mi ha detto, e lo diceva ridendo, sicura che io l’avrei mandata affanculo. Invece l’ho freddata, Maria non sapeva, da gennaio non pagavo più l’affitto, debiti con tutti risparmiavo anche il caffè. La vecchia Panda l’ho data al primo che si è pagato il passaggio di proprietà. Stringevo la cinghia, vendevo il vendibile, regalavo il regalabile, scappavo dai creditori, moroso e latitante. Il piano era perfetto. Lei non sapeva, ero già pazzo di lei.

Adesso sono tre anni che stiamo insieme e del pacchetto adoro anche la suocera che vive in Austria, ci siamo conosciuti in un incontro spacciato per casuale al Caffè Sacher di Innsbruck. Litigano sempre le due ma sono complici, io lo so. Anna lavora nel palazzo imperiale, la residenza estiva di Maria Teresa d’Asburgo, una donna terribile che tra l’altro nel Settecento fece sbocciare il Teatro alla Scala, oggi a due passi da dove viviamo io e MarTe quì a Milano. Anna, mia suocera, pare sia erede di sangue blu. Bastarda ma nobile. Lei ci tiene molto e dice che ha le prove, pare sia discendente di una dama al servizio di uno dei figli dell’imperatrice. L’adoro anche per il fatto che vuole convincere la figlia a sposarmi, dice che non l’ha mai vista così felice. MarTe temporeggia. Aspetta il mio primo romanzo, ma è una scusa, libertà e possessione ci legano, è un matrimonio tutto nostro, un patto non scritto sempre verde.

Cosa dire, con Maria Teresa ogni momento è un’avventura, attimi di spine e petali di rosa, barocca e gotica, a punte e curve, con sterzate contro mano e ripartenze furiose, a tratti regale, è una vita viva, teatrale e noi insieme un copione d’autore.

Il campanello suona frenetico. Rumore di chiavi e la porta che si apre.

È finalmente tornata da me.

Una folata gelida entra con lei. Dall’ingresso la sua voce in festa mi sballa:

«Pinuccio sei presentabile? Anastasia ha portato i biscotti prjaniki, passa il Natale con noi, tira fuori il limoncello e gli struffoli di mammà…»

Oh Gesù, Giusepp, Sant’Anna e Maria, pregate stanotte per l’anima mia!»

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a photo of la scala opera house
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