di Ivano Ciminari, 2021 Edizioni Montag, collana Le Fenici
“Forse capisco perché non ho mai avuto risposta: perché mai la mia vita dovrebbe essere più lunga o più importante di quella di un semplice filo d’erba?”
Stordito, ecco come mi sento alla fine di queste cento pagine di Ivano Ciminari. La sua è una scrittura potente, irriverente e brutale.
Ho conosciuto questo “assassino” come vincitore del primo concorso “I racconti della Divina”, l’ho sentito parlare e ho scavato nel profondo la sua superiore umanità che straborda da un progetto superlativo come #diversamenteliberi .
Il richiamo magnetico alla conoscenza delle sue opere è stata una molla che con questa lettura inizia a comprimersi ancora di più. Ne voglio ancora mi ripeto, cercando di uscire fuori dallo stordimento che mi tiene per aria, alla ricerca di parole che possano rendere dignità e onore ad una penna che si fa Diogene, e che riesce a raccontarsi e raccontare la miseria di cui siamo fatti.
Assassino! Egli è un assassino di luoghi comuni, feroce assassino delle ipocrisie più immanenti che ci rendono schiavi di manipolazioni “globali”, quelle più subdole, imbrogli di cui mi sento vittima “consapevole” e troppo spesso anche “compiacente”.
Questa è la verità, compiaciuto di vivere un tempo moderno, questo testo mi spoglia e mi frusta l’orgoglio di riscoprire l’antico, l’ovvio sentiero di scorticare il passato, rimosso per superficialità immatura di un essere vivente inutile a se stesso e agli altri fuori da un corpo vetrificato di paure.
Questa lettura mi ha liberato dalla vergogna di essere ignorante in quanto è l’ignoranza la base essenziale come il bianco l’insieme dei colori di una tela vuota che brama riempimento. Non so bene ancora se maledire o benedire questa scoperta di fame e sete che gli devo, non so bene ancora se il ghiaccio rende immortale fermando la vita o diversamente la scatena, questa vita tenuta viva dall’immondo istinto di sopravvivenza. Proprio così scopro un senso per Giuda, un senso per il diavolo che ci urla dentro, il significato profondo della donna.
Assassino e adulatore, saltimbanco e profeta, incantatore che dal niente inventa il tutto, blasfemo e devoto:
“… credo che Giuda e Cristo siano stati la stessa carne, accumunata dall’estremo sacrificio perché tutto si compisse.”
Dall’inizio all’ultimo giro di giostra le spine diventano fiori e i fiori diventano spine, e l’orrore, proprio in queste ore dell’ennesima sciagura come quella di Crotone, diventano narrazione e presagio, sentenza irrisolta, condanna perpetua:
“Quanti sogni di libertà sono stati sepolti in quell’immenso sepolcro che è diventato il nostro mare.”
“Uomini orrendi si pasturano del razzismo che hanno alimentato, incassando la connivenza di rane travestite da donna, di puttanieri in doppio petto, di troie siliconate che profetizzano oasi di felicità e di benessere, mentre la tragedia della guerra, del radicalismo e della fame gonfia le nostre acque di vittime sacrificali”
Sono solo cento pagine che da un mese non riesco ancora a digerire perché in fondo parlano di me e non potrei che liberarmene se non vomitando un me stesso che rifiuto e condanno in eterno nell’acido rovente di succhi gastrici senza pietà, di uno stomaco ingordo di altro ancora. Potrei con le classiche due dita in gola vomitare e gettare via la fatica, invece mi rifiuto perché di altro ancora dovrò nutrirmi, di altri vetri taglienti dovrò soffrire, di altre opere tue e di altri assassini, dovrò ingozzarmi fino allo stordimento più totale, e così forse, veramente imparare a vivere.
Lo so bene che non rendo giustizia alla varietà degli umori e degli argomenti trattati nelle quindici storie raccontate da Ivano Ciminari, so bene che faccio torto all’eterogenesi dei fini del suo Diogene vetrificato, però pur nell’indecisione della scelta, se proprio devo scegliere, come vile giudice supremo, mando al rogo l’eretico e lo destino al sacro fuoco della gloria per aver scritto “L’eccidio dell’io maschio”.
È un capitolo che ho fatto leggere alla mia “coinquilina”, sta ancora ridendo di gusto e per questo non avrei incertezze sulla condanna: ardebit in conspectu populi.
Bruci sotto gli occhi del popolo per aver attentato alla superiorità del dio maschio. Però poi leggi “La puttana che sposò l’imperatore” e allora non posso che sospendere ogni irriverenza, inchinarmi e chiedere perdono.