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Il terzo livello di Pietro Di Gennaro

Ho appena finito di leggere “Il terzo livello”, romanzo di Pietro Di Gennaro e devo dire che l’ho trovato coinvolgente, scorrevole e veramente ben scritto.

La trama è originale, al punto che la si potrebbe riassumere in una semplice parola: “passeggiata”. Ed in effetti di una passeggiata si tratta, anche se, nel breve tratto di strada che separa l’abitazione di Antonio Esposito dalla caserma dei carabinieri, si aprono scenari che ci conducono dentro e fuori dal tempo e ripercorrono quei decenni che sono stati la palestra ideologica ed etica di una generazione nata e vissuta a cavallo tra due secoli e due millenni.

La prosa è scorrevole, essenziale, introspettiva senza mai cadere nel melenso, profonda ma senza infingimenti, orpelli o sovrastrutture che ne falsino la spontaneità e la freschezza, Antonio diventa il simbolo di quegli anni, mirabili e tremendi che, partendo dalla contestazione della fine degli anni 60, passando per le grandi lotte operaie, per gli anni di piombo e per il decadimento morale di una classe politica colpevole del disfacimento del paese, hanno segnato nel profondo l’esistenza di chi li ha vissuti.

Antonio è lo specchio nel quale, in qualche maniera, ci riflettiamo tutti, con i nostri dubbi, gli interrogativi rimasti inevasi, le aspirazioni e l’impegno naufragati sugli scogli di una consapevolezza e di una realtà che feriscono e che diventano l’anfora spezzata dalla quale non berremo più.

In buona sostanza il libro è storia della sua stessa storia ed il lettore si ritrova ad essere oggetto e soggetto, autore e spettatore, carnefice e vittima di una narrazione esuberante che tracima dalla pagina stampata per diventare parte del nostro sentire, della nostra esperienzialità.

Il taglio quasi filmico della vicenda, il linguaggio per immagini che la caratterizza, diventa, sotto gli occhi del lettore, una sequenza sincopata di ricordi e di stati d’animo che sono il comune denominatore di una generazione intera, una serie di diapositive color seppia in cui ognuno di noi non può non riconoscere una parte del proprio sentire, della propria essenza.

Lo scenario di una Salerno di provincia, quasi indifferente ai grandi eventi, non inganni il lettore: la deflagrazione dei contenuti non è attenuata da questo, Antonio potrebbe raccontare questa storia ovunque ed ovunque impatterebbe in modo incendiario e maleducato sulle coscienze assopite di un presente che è figlio degenere dei grandi ideali traditi del passato, dell’eccidio culturale del secolo breve, dell’apparenza che è diventata sostanza.

Il dubbio è il vero carnefice del protagonista, che si rivede figlio, ribelle, genitore e che non finisce mai di interrogarsi, di porsi domande, di chiedersi cosa sarebbe stato “se soltanto”…

Ed in tutti i “se soltanto” si nasconde la fatica di scontare il peccato di esistere, ci perseguitano le mille realtà possibili ed irrealizzate, ciò che sarebbe potuto essere e, soprattutto ciò che noi saremmo potuti diventare.

Un libro pieno, robusto, Pietro Di Gennaro ci restituisce la consapevolezza dell’inutilità delle risposte, ma anche l’importanza del continuare a porsi domande, nella sua prosa spietata non cerca alibi e, da scrittore di talento quale è, comprende che alle sue parole deve rendere conto sempre e comunque, senza rimpianti, con la consapevolezza che gli estremi sbagliati, le scelte dettate dall’emozione del momento sono comunque un patrimonio da difendere, perché costituiscono i mattoni sui quali abbiamo costruito il nostro essere e poco conta che sia molto o poco perché ciò che davvero è importante è che quello che siamo sia vero.

Un libro che ha il sapore di una riverginazione, in cui una semplice passeggiata assume un’accezione quasi spirituale, una ricerca dentro se stessi di ricordi e sensazioni che si intrecciano e che ci riportano al grumo primevo del nostro essere, al marchio che il destino tatua sulla nostra pelle.

Lo consiglio davvero, ma raccomando di avvicinarsi in punta di piedi alla vicenda di Antonio perché a volte l’abitudine desueta di pensare può causare cicatrici difficili da sanare. Ivano Ciminari

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