VIAGGIO INTORNO A SONNY LISTON di Amleto De Silva

«Lo hai letto?» e io risposi no. «Prima leggilo, è un saggio.» Così mi ha lasciato gnac dopo un bell’abbraccio con la copia in mano e il desiderio infranto di una sua dedica.
Nella folla idilliaca di una presentazione, non sai mai se Amlo è veramente lucido e ti sta prendendo per il culo, oppure nemmeno si ricorda chi sei perché perso nel delirio euforico fatto di cocktail alcolici, risate, brindisi e applausi dei tanti ammiratori e amici che lo celebrano come una star, suo malgrado.
La parola “saggio” mi stupetea e mi mette paura perché presuppone una pesantezza letteraria che si fa scuola se non università. Per la cronaca stupetea per me è sinonimo di stordimento più che di stupore, tanto per chiarire, ma del resto ogni immigrato tende a crearsi un dialetto tutto suo, ma chi se ne frega, dovrei far ricorso alle consulenze di un antropologo se non miseramente ad un semplice geriatra che mi sappia spiegare il perché dei ricordi che svaniscono.
La prende larga Amleto, tanto da riuscire con la parola scritta a trasformare un saggio in fascinazione letteraria, tanto da modellare una biografia di formazione dentro il racconto storiografico di un’epoca che ha trasformato per sempre la civiltà occidentale.
Monta e smonta miti, estirpa dai luoghi comuni le radici eretiche più intricate e potenti e con dissacrante ferocia, dall’alto di una superiorità culturale ereditata da una favolosa soffitta familiare, illumina il vasto ring del conflitto sociale come trasformazione e perversione della storia ufficiale, quella scontata dei vincitori, quella acclamata dei belli e potenti, e così la narrazione se non l’esaltazione dei perdenti diventa liberazione e orgoglio.
Diversi e sconfitti, meglio, molto meglio sconfitti che acclamati fari abbaglianti, servi del sistema criminale che usa il potere per mantenere schiavi se non “camerieri” le folle plaudenti. E il peggio sono loro, i radical chic che hanno i “camerieri” al loro servizio, quelli che predicano bene e razzolano male, come polli dal becco menomato in allevamenti intensivi senza sole ma con flebo di antibiotici come fiumi.
Più che un saggio questo Pugilatore, metafora del conflitto disarmato dall’individualismo, è per me un vangelo che professa una nuova religione, quella eretica dell’arte che svela la verità, turbamento dei controllori del dissenso, quella verità che svela l’abbrutimento della caccia alle streghe, la caccia ai rivoluzionari, un vangelo contro il pensiero unico che ammanta di speranza il benessere e la pace attraverso la truffa manipolatoria del consenso, quella depravata del successo. Un vangelo con parabole e miracoli, di quelli che ti proiettano in una narrazione eretica fuori dal consueto, oltre ogni banale normalizzazione dei sentimenti e delle certezze.
Non è religione ovviamente ma potere devastante della bellezza nelle emozioni, dai ricordi più teneri ed antichi segnati nella carne a quelli più effimeri ed irrilevanti degli eventi sportivi.
Il potere non si esercita soltanto con la polizia nelle strade: sa essere subdolo, e soprattutto sa essere ovunque, anche a sua insaputa. Se sai di non poter fermare certe cose, allora sai anche che ti conviene incanalare quello che non puoi bloccare (…) in qualcosa che conosci bene, che abbia, come si dice adesso, una narrazione fascinosa e che sia eversiva giusto quel poco che conviene. E quelli a cui conviene sono sempre loro, quelli coi camerieri.
È il mio primo libro di Amlo che leggo, invece ho letto qualcosa di Diego la cui Venere spero tanto sia presente nella prossima stagione in TV del Malinconico avvocato d’insuccesso. Ma questa è un’altra storia. Comunque anche se non è né educato né corretto mettere in competizione due fratelli su cose diverse come pere e mele, sempre di frutta si tratta, succosa e dolce, necessaria e vitale, letteratura insomma. Beh, questo Pugilatore batte ogni Malinconico a prescindere, l’avvocato al più può fare il manager, fare soldi appunto, più che prendere e dare cazzotti.



