FURORE


Furore? È il giorno della rivolta.

Viviamo senza cielo, il nostro sole è il magma bollente, il centro della Terra.

            «Ho una domanda Fidel: ribelli si nasce o si diventa?»

            «Oggi il mare è rosso Ernesto, l’ossigeno non è più una molecola naturale prodotta dai verdi, è chiaro che lo siamo diventati… Ma che ti prende? Ti sembra questo il momento? Concentrati e stai zitto!»

Le ultime dosi di eccitol gli provocano effetti indesiderati. Dubbi incertezze e distrazioni prendono il controllo, tremori, anche adesso. Nelle retrovie, lontano dal fiordo, nella roccia profonda, millenaria, il dottore aveva minimizzato ancora una volta: “Non è niente, stai bene, puoi combattere” aveva detto dopo gli ultimi test d’ammissione.

Riflesse nel visore vede gocce gonfie di sudore rompersi e dalla fronte scendono nel generatore d’aria del casco da combattimento.

Chi non suda non vive, gli insufficienti sono esseri estinti, come tutti i vegetali sulla crosta ormai deserta. Non è una regola o una legge, sono secoli che la vita discrimina: sopravvive solo l’evidenza della riproduzione.

Dai segnali fluorescenti quasi interni alla sua pupilla destra, l’occhio libero di Ernesto, si sposta verso il compagno al suo fianco, immobile come lui, dietro al cannone quantico pronto a fare fuoco.

            «No Fidel, io non credo, la vita si ribella alla morte, ma ne parleremo dopo. Nel gran consiglio della caverna regnante, ti hanno messo in discussione, ti vogliono fuori dal governo. Dovrò difenderti fratello mio ma adesso pensiamo alla missione, ora i nemici sono gli acquatici.»

            «Attento Ernesto, guarda! Le vedi le bolle? Stanno arrivando.»

Mille anni fa l’atmosfera fu violata, cambiò colore, la scienza dei nostri avi smise di funzionare. Ogni previsione fallì. La variante aliena costrinse i sopravvissuti a scappare dall’aria tossica: gli abissi negli oceani o la terra sotto le montagne, non vi fu altra scelta. I ricchi tecnologici s’impadronirono dei mari, ai poveri non restò che scavare. La mutazione anfibia arrivata dopo, oggi li condanna: umani come pesci a respirare l’acqua salata. La genetica li ha resi schiavi di una risorsa evaporata, consumata, il mare è sempre più rosso, stanno soffocando.

            «I bastardi vogliono le nostre gemme di clorofilla, oggi troveranno la morte!»

            «No Fidel, non ci sono masse fredde in movimento, il mio radar è vuoto, non c’è attività sotto la superfice, tu dove le vedi queste bolle?»

I due si guardano perplessi oltre la visione dei livelli vitali fuori scala che nel casco segnalano tensioni fisiche fuori controllo. L’ignoto è una frusta che taglia ogni scudo emozionale, sono allenati e preparati ma la paura rende umano ogni soldato. Non si fidano, altre battaglie sono finite male e questa non sarà l’ultima. La vita si ribella alla morte, questo è sicuro, si nasce ribelli, aveva pensato Ernesto la notte prima di partire, o forse era già giorno, non ricordava bene la sequenza degli eventi ma adesso ha altro per la testa; la sudorazione aumenta come la tensione per la sorte di suo fratello in armi. Il respiro affannoso diventa opprimente scansione del tempo sospeso nel dubbio. Le domande servono ma nel dubbio puoi mai fermare l’azione?

Fuori le bolle adesso sono evidenti, aumentano, si vedono, ma i sensori visivi dell’apparato neuro connesso alla tuta non rilevano movimenti sotto la superfice rossa di questo mare mutante: mai come ora, è la lingua rovente di un diavolo furente che li minaccia fin dentro casa.

“Hanno scelto il fiordo leggendario come è previsto nelle scritture” aveva detto Fidel prendendo il controllo dell’apparato di guerra.

L’invasione è imminente. L’agitazione cresce, rende catatonica l’attesa. Sulle spiagge antiche, la polvere di roccia altissima, a strapiombo da millenni, si è ceramizzata, non esiste più sabbia ma un pavimento rugoso, duro più del vecchio cemento usato nell’antichità. Questo nuovo mondo ci ha tolto l’aria, l’abbraccio, l’incontro delle emozioni umane, intanto bolle sconosciute emergono senza suoni, mute.

Ernesto si rigira imprigionato nella tuta tecnologica che gli stringe ogni muscolo dolorante, è una camicia di forza; anche questo aveva detto al suo dottore.  Si sente affogare di sudore, alza le braccia davanti a sé per pararsi dalla tremenda emersione che li aspetta: «Arrivano!»

E allora? Teso come una corda di una vela piena di vento forte, con uno spasmo faticoso riprende il controllo delle mani, afferra i comandi e spara all’impazzata verso quella minaccia invisibile.

Entra decisa senza bussare. Capelli sciolti, lisci e rossi, tacco nove, tailleur incollato e trucco pesante, striscia i piedi per non farsi sentire nel buio della stanza tanto rovente da fermarle il respiro, conosce la strada e va diritta all’interruttore per aprire la persiana motorizzata.

            “Aria, aria e luce, luce” pensa nel silenzio appena disturbato dal potente motore elettrico che tira su la tapparella d’alluminio verniciato di verde.

Lei, architetto dei vip, sospira languida al primo fascio di sole che illumina il suo cristo umido e velato, atletico campioncino di tuffi e nuoto; accanita nello sguardo sul letto che brilla, indugia sui muscoli e ne ammira una possente erezione, poi grida:

            «Libero alzati. Sei in ritardo!»

Il piccolo si sveglia incazzato nel suo sudore rovente.

            «Cazzo mamma ma perché? Chiudi e vai affanculo!»

Il lenzuolo inzuppato gli attorciglia anche la testa, in un attimo si libera mentre pettorali e bicipiti guizzano luminosi come lampi strobo, scatta come una molla d’acciaio e tira le gambe verso la faccia, si chiude girandosi sul lato verso la porta opposta alla luce, diventa un feto in automatico senza pensare, serrando un cuscino blu mare tra le gambe. La voce cruda del figlio non la ferma. Invadendo lo spazio tra i due, un potente fascio di luce dalla finestra rimbalza da un poster patinato diventato da tempo insopportabile alla donna. L’abbaglio fastidioso le chiude gli occhi e la scuote dal momento di estasi in cui il corpo perfetto del figlio l’aveva rapita.

            «Ancora pensi a quella trecciolina svedese? Alla tua età, tuo padre sul muro teneva appese foto che …»

            «Sì, che incendiavano desideri e urlavano passione, e che palle mamma, sempre la stessa storia, stavo sognando e tu…»

            «Sì amore, immagino cosa stavi sognando, ma non voglio sapere niente, è tardi e devo andare, muoviti, la colazione è pronta!»

            «Sì, appunto, devi andare a fare in culo e rimanerci, chiudi! Ti ho detto chiudiiii!»

Incurante e determinata a portare a termine il solito rituale mattutino, con delicatezza accompagna la super poltrona nera da gaming con la meglio ergonomia di livello professionale disponibile sul mercato, e si sposta dalla finestra girando intorno all’immensa scrivania tecnologica devastata dal disordine. Adesso i tacchi stridono frenetici sul pennellato di Vietri: quel pavimento le era costato un occhio della testa ma ne andava fiera come di quell’essere possente che aveva generato, bello come il sole della sua Costiera. Mentre pensa a quell’assurda fissazione del figlio di tenere spento il condizionatore nelle notti più torride dell’estate, raccoglie un libro volato per terra nello scatto pudico del suo erede solo qualche secondo fa. Tra le mani ne guarda accigliata la copertina colore avana con la foto di due palme sottili, altissime, e una ciminiera sbuffante di una fabbrica sullo sfondo. “Affatto caraibico” pensa leggendone il titolo: “Che” Guevara economista.

            «La devi smettere di prendere i libri di tuo padre dallo scantinato, sono inutili. Come te lo devo dire? Medicina o Architettura, è deciso! Alla meno peggio Ingegneria, ce ne sono tante, che dici? L’aerospaziale per esempio, la Martucci dice che sei sempre con la testa tra le nuvole. Comunque, a questo proposito il nonno ti aspetta. Ha detto che ti deve dare una cosa, si è raccomandato molto. Se non vuoi andare in farmacia vai a casa sua così saluti anche la nonna» e lo dice mentre lo guarda con tenerezza aspettandosi una risposta in sintonia alla sua supplica.

            «La prof non capisce un cazzo, peggio di te!» la voce schiarita del ragazzo accompagna un dito che si alza dal pugno chiuso adagiato sul ginocchio scoperto, è un indice medio, nerboruto e teso verso la faccia di lei.

            «Signorino Orsini lei è un grande cafone, non le consento di maltrattare sua madre in questo modo. Villano e cafone…» stizzita rialza la voce mentre il libro vola nella stanza planando tra l’iMac argento ventiquattro pollici e due pile di DVD che dal tavolo crollano sul pennellato di Vietri con un rumore assordante di plastiche spaccate. 

            «Sei pessima! Smettila, fai solo casini, lasciami dormire in pace, vai via…» e lo dice serafico mentre il dito ribelle rientra nel pugno chiuso afferrando il prezioso lenzuolo bianco ricamato con fiori di seta. Tira un lembo fino a coprirsi la folta criniera rasta, quando decide di stare zitto perché sa che finisce male se dice quello che sta pensando: “Tintura, silicone e tacchi a spillo ti stanno rovinando. Mammina cara, sei ridicola!”

            «Libero alzati. Sei in ritardo. Dai non farti pregare, Gianni ti aspetta all’entrata del Policlinico, è un amico fidato, ti accompagna all’aula dei test d’ammissione. Avevi promesso che ci saresti andato…» dice lei provando una timida carezza ferma in aria a pochi centimetri dal contatto fisico che desidera con tutta sé stessa da troppo tempo.

            «Lo hai sentito, lui che dice?»

            «Tuo padre? Dice che sarà in piazza Plebiscito sotto Palazzo reale per una manifestazione contro la guerra, dice che gli farebbe piacere passare una giornata con te. Puoi raggiungerlo dopo i test all’università, tanto faranno sera, pare organizzino anche un concerto. Però non fare tardi e stai alla larga da quelle sue sciatte compagne di strada!» mitraglia parole senza pause con acuti lancinanti di disprezzo.

            «E il nonno che vuole?»

            «Vuole regalarti un viaggio per la maturità e aiutarti a scegliere, lo conosci è un vecchio saggio evergreen, muore dalla voglia di coccolarti un po’…» dice lei con un tono tornato sinuoso, materno.

L’aria pulita del mattino addolcisce l’animo dei due, i loro pensieri prendono a svolazzare leggeri. La camera passa dal conflitto ad una tregua condizionata.

            «Vai mamma, tranquilla, sto bene.»

Lei si arrende, ammutolita, e strisciando i piedi si avvia verso la porta.

            «Mamma aspetta, ti ricordi quella bella settimana a Positano?»

            «E chi se la scorda, andasti in fissa per i tuffi dalle grandi altezze. Furore, un incubo! Perché me lo chiedi?»

            «Mi prenoti una settimana in quella villa a cinque stelle del tuo amico? Dai, tu fammi questo regalo.»

            «Va bene Libero, ti accontento però tu oggi vai a fare i test d’ammissione a Medicina!» sorride compiaciuta. Uscendo chiude la porta senza fare più rumore.

L’attimo di pace diventa frenesia, il giovane di belle speranze allunga la mano verso il comodino dove afferra l’iPhone antracite e inizia a scrivere:

@GretaThumberg ciao, ti scrivo perché adesso so cosa dobbiamo fare, ti vengo a prendere e ti spiego 🤗 PS 😱 tic tac tic tac… su youtube ho visto Sara la tua agente italiana 🤣 mi è piaciuta molto: “un altro mondo è possibile perché la guerra è fossile, la pace è riciclabile” 👏 non ti muovere, arrivo! 😘

Soddisfatto rimette lo smartphone sul comodino dove nella notte aveva buttato la maglietta e il pantaloncino griffati che indossava la sera prima. Mette a fuoco i colori del suo rifugio e con una capriola fulminea cambia posizione mettendo i piedi al posto della testa. Steso sul letto, finalmente libero e rilassato con il finestrone dell’attico di mamma alle sue spalle, ammira la ragazza illuminata a giorno nel poster gigante che riempie il muro. Chiude gli occhi e si sente abbracciato a Greta, a respirarsi con lei bocca nella bocca. Fusi in un corpo solo si tuffano nel fiordo con tutto il mondo collegato in diretta che li sta osannando. L’attimo di estasi diventa frenesia, una scossa violenta gli attraversa il corpo incurvandolo verso l’alto, poi ricade in un secondo avvinto senza forze con il cuore che martella pesante nel petto. La frenesia diventata amplesso si placa nella pace dei sensi, gira il collo dietro la spalla aprendo gli occhi verso il blu che lo guarda dall’alto mentre un jet taglia il cielo con una scia bianca densa di speranza:

“Amore, voglio solo più amore, voglio di te il furore dell’amore. È deciso, andrò a Lettere per studiare come rendere passione il desiderio della vita. Per vincere la guerra bisogna volare alto, allora dottore sì, ma di parole.”


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