a woman with tattoo with handcuffs

’a stella

micro racconto di capodanno

Colpevole era lei: Frida, che suonava con me quella notte.

Mezza vestita e mezza spogliata. Brillava di sudore urlando Maracaibo, mare forza nove, fatta persa di lambrusco, quel tanto rubino da frizzare di solfiti scadenti. Graffiava la mia chitarra consumata e cantava in un corpo sgraziato dal rancore. Fuori tempo danzava con dentro sogni devastati di rock’n’roll e la gola bruciata dall’erba di Velia. Aveva solato anche me quel contadino maledetto, un truffatore altro che Eden. L’albergo del cenone, grande, bianco e pulito come la tela di un pittore senza fantasia, era un trauma improvviso come un cazzotto sull’occhio in mezzo alla piana del Sele, ai piedi dell’antica Paestum. Cento euro per una serata di canzoni era ossigeno in quella nostra vita disperata. L’avrei seguita in capo al mondo Frida. Andò dove non potevo andare, e peggio come non poteva andare. Quella fu la nostra ultima esibizione insieme. Quando il principale del locale le chiese l’autografo, lei gli spaccò la testa con una bottiglia di spumante: una morte scadente come tutta quella festa di capodanno. In cella oggi Frida scrive canzoni ubriacandosi di parole recluse come la sua anima in fiamme, mentre l’avvocato scrive ricorsi. C’è un medico che è sicuro come la cassazione: Frida in quel momento non era capace d’intendere e di volere. Voleva bere non uccidere. In mano a Laura in arte Frida, la bottiglia era vuota. Si è difesa da quel bavoso fetente che meritava di morire. A vent’anni la vergogna brucia come l’inferno ma nessuno l’ha mai creduta. Questa volta però è la volta buona me lo sento: il giovane CTU del tribunale ama il rock’n’roll e mi ha giurato che non si vende a quella potente famiglia camorrista. E poi vorrei dire: come si fa a condannare una stella?

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