Odepòrico amalfitano

2023, uno dei RACCONTI DELLA DIVINA – AA.VV.

Contro la mia volontà mi trovo in questo luogo magico, sospeso sulla roccia possente scavata dagli avi, a strapiombo sul mare mosso come la mia anima spaventata, e alle nostre spalle roccia minacciosa che sembra voler abbandonare la scalata al cielo per rovinare sulle nostre teste, da un momento all’altro.

Tutt’intorno solo silenzio e indifferenza alla mia condizione.

Ovattato da nubi pesanti sul punto di esplodere, il silenzio lega insieme gente indaffarata e brulicante come formiche, come quelle che per tanto tempo mi hanno fatto compagnia tra le foglie del mio giardino natale. C’è tutto quello che non conosco e che mai avrei desiderato di vedere. Ci hanno scaricato all’ingresso di un hotel a cinque stelle che si prepara per una grande festa: un matrimonio.

Come un presagio oscuro manca il sole.

Guardo le facce della gente che mi ha preso in consegna, che mi ha trascinato in questo posto insieme ai miei fratelli, contro la nostra volontà. Sono facce rassegnate, senza ombre, facce tirate dalla fatica e solo preoccupate di eseguire bene gli ordini che sanno a memoria. Vedo sincronia di gesti e ripetizione di movimenti. Come formiche brulicano gli spazi senza mai fermarsi. È un via vai frenetico che scandisce i minuti di un’attesa interminabile.

Ogni giorno è una celebrazione in questo luogo magico, e il lavoro si ripete come alla catena di montaggio di una fabbrica diffusa, motore di benessere, dalla spiaggia alla montagna, da Vietri a Positano, una fabbrica umana che non chiude mai.

Mi sento estraneo. Straniero deportato con la forza. Vorrei essere altrove, tornare al mio giardino natale dove la roccia maestosa che adesso mi fa paura, mi riparava dai venti freddi del nord, dove il pensiero rovinoso di una frana non è possibile, dove la precarietà è una condizione sconosciuta. Sapere di vivere un giorno senza domani è un delirio.

La mia storia in quest’ultimo tempo prima di morire sarà una sorpresa alla fine di questa festa.

Ci siamo lasciati trasportare senza opporre resistenza, anzi qualcuno anche lusingato dalla scelta. La selezione è stata minuziosa. I discriminati non all’altezza, non raccolti, caduti, buttati come concime nella terra coltivata.

Nel frastuono del silenzio indifferente che ci distrae i sensi, siamo condannati senza possibilità alcuna di sopravvivenza. Io e miei compagni non abbiamo scampo. Feriti a morte saremo il sacrificio dovuto ad una celebrazione che presto diventerà rumorosa. Siamo protagonisti lacerati, offerti in dono a deliziare chi ci divorerà. Intorno a noi momenti di festa, nell’ultima ora che ci spazzerà via da questa esistenza fugace, come un sogno troppo bello per essere vero. Non siamo i primi né gli ultimi. Siamo i migliori e ne siamo fieri.

Racconto perché non posso che lasciare ricordi, a memoria futura delle gioventù che vivranno ancora, gloria eterna di bellezza e sapore, di terra fertile ma ruvida, bagnata di sudore e bestemmie, figli di questa costa Amalfitana dove siamo nati e vissuti con onore e fortuna, abbracciati dall’occidente dove senza sforzo tramonta il sole.

Bianca e Giuseppe oggi sposi, ho letto sul menù adagiato tra i fiori d’arancio su uno dei tavoli già pronti con tovaglie damascate d’antico candore, con posate d’argento, ordinate e scintillanti. All’ingresso ho visto le cinque stelle, dipinte di giallo, scolpite in rilievo nella pietra secolare di questa struttura avvolta nell’edera che l’inghiotte tutta dal selciato al tetto, in armonia. È la forza della natura a mantenere vive le fredde architetture umane.

Sposi, amici e parenti si muoveranno da una chiesa e mi chiedo quale possa essere: magari una di quelle che hanno visto i miei compagni durante la benedizione. Con o senza fede il rito religioso resta impresso come un tatuaggio di sangue. Dalle loro confidenze ho appreso dei sessantadue gradoni in pietra che portano alla Cattedrale di Sant’Andrea ad Amalfi. Troppo minuta e nascosta sarebbe la Chiesa di Santa Maria Immacolata di Atrani, l’atranese sceglierebbe di sicuro la Collegiata della patrona Santa Maria Maddalena Penitente e così salendo la magnifica scalinata affacciata sul mare, si tirerebbe dietro con lo strascico bianco l’ammirazione estasiata dei presenti. Però, forse, in questo momento Bianca sta recitando la sua eterna promessa sotto la cupola rivestita di ambrogette in ceramica della Chiesa di San Pietro Apostolo, patrono di Cetara.

E se la sposa fosse una furorese? Allora sposi, amici e parenti arriveranno dalla chiesa di San Giacomo o da quella di San Michele Arcangelo. Chissà se invece la marcia nuziale sta suonando a Maiori nella chiesa Santa Maria delle Grazie o di quella di Santa Maria a Mare. Immagino il bacio degli sposi nella Chiesa Santa Maria Assunta a Positano o perché no? Nella Basilica a Minori che custodisce le reliquie della Santa Trofimena patrona del paese, martire fanciulla che si rifiutò di sposare un pagano. Forse verranno da Praiano una volta lasciata la Chiesa di San Luca Evangelista. Sarà oppio, sarà speranza, bisogno o desiderio, è comunque fede potentissima, genitrice di conflitti, altari e opere eterne di sacrificio e d’onnipotenza. Ognuno dei miei compagni ha ricevuto una prima comunione, ognuno la benedizione della vita, ognuno una volta sola. Chi nel Duomo di Ravello dove c’è il sangue del Santo medico Pantaleone, chi nel Duomo di San Lorenzo a Scala.

Immagino gli applausi, il riso e i confetti che volano sulle teste di questi freschi sposi. E se fosse solo un rito civile? La recita formale degli articoli di legge è fredda, vuoi mettere omelia, canti e letture dalla Bibbia? Vuoi mettere l’esercizio sacramentale di un rappresentante di Dio con l’asprezza contrattuale di un rappresentante del popolo?

Il cammino insieme ci ha reso unici cari compagni, in questo posto magico siamo nati e cresciuti nella bellezza senza tempo. Non dimentichiamo il dolore del distacco dalla pianta che ci ha generato, la sofferenza dell’abbandono di chi ci ha allevato, la pietà per chi ci ha posseduto e poi venduto. Mulattiere e polvere scendendo, sono diventate vie d’asfalto.

La strada attraverso la Vallata del Dragone, o il Sentiero degli Dei da Salerno a Bomerano, scendendo da Santa Maria di Castello o da Capo Muro, da Colle Serra, Li Cannati e Montepertuso, oltre mille scale fino a Positano. Il viaggio dalla Valle dei Mulini alla Valle delle Ferriere, un canyon tra Amalfi e Scala, attraversato dal torrente Canneto che si riempie e si svuota con le piogge e la siccità, cicliche come l’inverno e l’estate, come il desiderio del turista che ritorna a comprarci lungo la strada trafficata.

Non dimentichiamo l’abbraccio, incontro, incrocio, rettitudine e maledizione. Il sentiero delle Vedette, Vettica Maggiore, Santa Maria di Castello, la grotta con la Madonna, quella di Santa Barbara, e ancora da Monte Sant’Angelo a Tre Pizzi, al bivio di Conocchia per Marina di Praia. Dai Monti Lattari, il Demanio e ancora l’Avvocata. Il Sentiero della volpe pescatrice. Fasti e rovine di una civiltà che abbandona ricchezze e ritorna per sperperare illusioni.

Non dimentichiamo.

E poi la sorgente chiamata acqua del castagno, l’eterna speranza. I Sentieri di Capo d’Orso dal massiccio di Monte Piano all’abbazia di Santa Maria de Olearia. Verso Cetara, il Vallone di San Nicola sopra le cascate di Erchie. I viaggi da e per l’oriente, la furia saracena e quella nazista. Le torri d’avvistamento e poi le chiese. Borghi, fortezze e poi le ville. La gloria dei greci e quella di Roma. Signori o schiavi, la storia si ripete come le rivolte di vincitori e sconfitti, come le fughe, migrazioni e il continuo ritorno alle radici che ci fanno sentire vivi. L’esaltazione di ciò che sopravvive alle mode e ai cambiamenti climatici.

Macére possenti, invincibili ad ogni alluvione, muricciòli di sassi sistemati a secco per sostenere terrapieni e separare i campi. Ecco la coscienza dell’eterno, l’energia dei torresi a dare luce al nostro sentiero smarrito, con l’energia degli antichi, emozione e relazione, e così risuscitare borghi e villaggi dimenticati.

Mi hanno raccontato i miei compagni nelle ore passate insieme, imprigionati e deportati insieme, come intorno a noi tutto è aggrappato e strappato alla roccia: case, stalle e ovili, terrazze coltivate, e giardini rigogliosi di atmosfera inebriante, di colori e profumi, tra stradine anguste e scale infinite, tra disegni di archi e angiporti, di torri antiche a guardia dei paesi comunque depredati, di fatica, di lacrime e desideri divini.

Tanto ho appreso dalla cultura del mio padrone quando ancora mi accudiva. Lo ascoltavo leggere a voce alta parole di poesia e letteratura, con un bicchiere di vino bianco tra le mani callose, nettare che lui sorseggiava tra una pagina e l’altra, le gambe a riposo e lo sguardo rugoso rivolto all’orizzonte nel blu cobalto immenso avanti a sé: mirabile visione dal mio giardino natale in cui sono stato venerato e accarezzato come un principe. Come quella volta che gli sentii dire: «Amico mio hai proprio ragione: quando andremo in paradiso sarà un giorno come tutti gli altri.»

A volte lo chiamava maestro Fucini, altre solo Renato mentre stringeva a sé quel libro sfruttato e malandato del secolo scorso. Il padrone ha venduto me e gli altri. Siamo sopravvissuti all’epidemia che non smette di bruciare vita, di giardino in giardino. Destinati, eredi di passione e bellezza, questo siamo, prescelti, sopravvissuti al mal secco, un male che uccide prima di nascere il quaranta percento di noi, il male che brucia le piante prima di fiorire. Un fungo da estirpare con cesoie sterilizzate e fuoco.

È una guerra all’agente invisibile, che rende schiavi e depressi i proprietari, a loro volta di mano in mano umiliati e sconfitti.

Padroni di appezzamenti di terra, terrazze come gradini per giganti che sfidano la gravità, di pietre scolpite a mano per i muri a secco, e pali di castagno come architravi di tetti e pareti inerpicate nell’aria, mille e duecento piante per ettaro.

Padroni come capitani di barche nel mare in tempesta, naufraghi in quest’era moderna peggiore di ogni altra aridità e pestilenza della storia umana. E pure restano in piedi orgogliosi, a difendere l’eredità preziosa, acquisita dal passato furioso, a difendere e vantarsi del frutto dei successi che attraverso noi sopravvissuti si ripete, nel miracolo della vita. A saziare ogni desiderio. A seminare di vittoria la speranza di eliminare per sempre il mal secco dalla loro terra, dalle loro creature sognanti.

Sento ancora la gioia del mio padrone nell’accarezzarmi il corpo, soddisfatto e malinconico nell’ultimo saluto: «Come sei bello. Perfetto! Vai a meravigliare il mondo.»

Con l’arrivo degli sposi è sbucato un sole che ora squarcia questo cielo pieno di nubi in movimento, ora trascinate via dal maestrale che sa di sale. Spazzando via la minaccia uggiosa questo vento millenario rende fresca l’aria, mitigando ansia e disagio. Brindisi e canti muovono l’appetito di sposi, amici e parenti. «Bacio, bacio, bacio…» nella sala il coro si amplifica di bocca in bocca e il rito dell’eterno amore si rinnova.

Nella cucina il mio destino si compie.

Lavato e tagliato a fette nelle mani dello chef che modella il mio corpo, divento una corona solare ad una grossa spigola con gli occhi ancora vivi, e come me gli altri prescelti, di bocca in bocca, diventiamo la delizia di questo popolo in festa.

Prescelto tra i prescelti sono innanzi agli sposi e se il succo dà sapore, la mia polpa è un corpo che si mangia: è il destino del limone sfusato, di colore giallo citrino, principe tra gli agrumi, nobile tra i frutti di questa terra divina.

brown concrete building near green trees
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view of atrani on the amalfi coast in campania italy
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grayscale photo of positano
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buildings on cliff
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concrete buildings on the mountain slope near the coast
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picturesque landscape of rocky seashore with houses
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