In queste ore la tempesta Ciaran allaga l’Italia ingrossando i fiumi che straripano e il mare che ruggisce sulla costa consumando arenili e i lidi appena chiusi dell’estate 2023. Nelle ultime ore ho appena finito di leggere questo straordinario romanzo pubblicato la prima volta nel secolo scorso, nell’anno 1999, l’anno che a me ricorda le mollette di legno, Aquila uno e Aquila due di SPAZIO 1999. Mentre nelle strade la rivolta giovanile del ’77 urlava, io giocavo con le mollette di mammà. Sono sempre in colpevole ritardo nel mettere toppe alla mia sbrindellata conoscenza, e probabilmente gli strappi del tempo che inesorabile passa, non sono cucibili, e forse nemmeno i ricordi hanno rilevanza, e se non era per Simone della Feltrinelli di Salerno che mi diceva «Devi leggere Mimmo Notari!» nemmeno il materialismo storico degli eventi m’avrebbe emozionato così tanto da impormi la ripresa di queste pagine di diario. Sarà la disperazione che sento nelle urla della tempesta Ciaran, la disperazione che grida dai conflitti d’Oriente, sanguinarie distruzioni di corpi innocenti, saranno le grida mute delle anime affogate nel mare dei migranti che scappando dalla follia diventano vittime di un sogno d’Occidente che sta morendo. Indicibile, insaziabile, pazzia senza umanità, la guerra. Sarà quest’angustiante senso di impotenza allo sgomento che mi avvolge in queste ore, a rimettere in moto il bisogno di fissare su una pagina le sensazioni d’immensità che una grande e bella storia riesce a donare. C’è tutto il mondo nelle vicende di Michele Procida, il protagonista di Notari, le passioni e i dolori, le scoperte, la formazione e la trascendenza della vita che diventa immortale nell’opera d’arte e nella riproduzione dei sentimenti che ci fanno umani ad li là di ogni esistenza la cui singolarità è destinata a perdersi nella folla dei pensieri senza progenie. Dopo questa lettura ogni oggetto di argilla cotta, ogni riggiola calpestata, ogni piatto o boccale sul tavolo di tutte le tavole, diventa musica e canto, ogni ceramica riluce d’anima umana, perché dalla fabbrica dei desideri non possiamo fuggire, la fabbrica è dentro e di noi, tormento e delizia, piccola ma infinita, la fabbrica dell’arte che diventa materia d’ogni emozione che non riusciremo mai a controllare. L’architetto scrittore disegna con le parole la costituzione di una cultura che si tramanda e sopravvive, nutrendosi dei conflitti e della capacità distruttiva del tempo che passa. L’architetto scrittore schizza e rifinisce il divino progetto che rende re il morto di fame, miseri i padroni e desolanti i cammini dell’avidità del potere. La storia da proteggere e riprodurre è una catena millenaria di cui Vietri sul Mare, l’intera Divina costiera, le sirene di Positano e perfino le maioliche del Monastero di Santa Chiara a Napoli, sono anelli materiali di possente forza che brillano con i colori devastanti dell’immaginazione, e così accecanti riflessi prendono vita nell’intreccio delle storie vere come solo l’emozione e il sentimento sanno sentire vive. Non posso sapere quanto lo scrittore sia al servizio dell’architetto o quanto invece sia l’architetto al servizio dello scrittore, quello che so è che L‘ISOLA DI TERRACOTTA appartiene alla nostra terra, è parte essenziale della nostra identità mediterranea, dominante e dominata; è frutto costituente di una memoria senza tempo che unisce la materialità dell’oggetto comune all’essenza stessa dell’emozione rendendola dura e fragile come ceramica. Siamo isole di terracotta in mezzo al mare di servi e padroni, isole di bellezza che s’abbracciano e si respingono in un continuo affanno di desideri irrisolti, in cerca di risposte a domande ancora da inventare come la prossima pennellata che di colore sbiadito su un piatto bianco s’accende di splendore dopo l’ultima cottura nel forno rovente dell’esistenza.
La felicità sta nelle piccole cose… Diceva qualcuno…
È fatta di attimi che restano nel cuore per sempre…
È fatta di carta che profuma, di carta che racconta, di carta che ti fa sorridere, sognare, pensare, ricordare…
Un libro piccolo, potresti leggerlo tutto d’ un fiato e invece no… È un libro di racconti brevi, due pagine, due pagine e mezza al massimo… Eppure due pagine lunghissime che ti restano dentro, che le leggi e poi chiudi… Per oggi mi basta questo… Sorrido…
A domani! Ti prendo come una dose di felicità giornaliera… a piccole dosi.
Dell’acqua e dell’amore di Brunella Caputo…
“Chi nasce al mare non dovrebbe vivere dove il mare non c’è. L’assenza dell’influenza del mare rende le persone diverse”
E anche, “C’è qualcuno?”
Un bimbo durante il lock down del 2020… e le mazze da golf… e la spiaggia Das Toninhas… e il giardino di Armida… e il fiore di cappero… e la città che amiamo perché una volta a Salerno le luci a Natale erano fioche… e tanti altri ancora… Racconti, uno più bello dell’altro.
Estate 2023, sì c’è qualcuno a cui il cuore batte ancora.
6 settembre, ore 12.
Oggi questa è la mia dose di felicità… Mi colpisce… Arriva come il vento…
E io l’adoro il vento… Il vento che gioca con i capelli, li sposta, li scompiglia, li ripiglia in una danza che conduce da solo… Come l’amore… A cui non puoi sottrarti… A cui non vuoi sottrarti.
Caro diario sono al capolinea. Hai presente quando di un percorso hai saltato tutte le fermate, belle ma impegnative, e non sei sceso, e ti trovi a non sapere più dove andare? L’autobus è quello della fascinazione, i luoghi i romanzi e affascinanti le scritture. Ma sì è una bugia, ad alcune fermate sono sceso e ritornato e ritornerò per fare giri in tondo allargando il raggio della vista e dell’emozione. Dopo Le città invisibili di Italo Calvino ho capito che il sé stessi è un centro, un punto di forza elastico, che richiama e respinge, dove si torna per ripartire, dove ci si perde per ricominciare. Più leggi e più ne vuoi leggere, perché la visita è un passaggio ma la lettura è un’immersione totale nella storia che racconta, nei personaggi che la fanno vivere e scrittore o scrittrice, diventa la divinità che crea.
Esagero perché voglio profanare il senso comune, sverginare l’inconfessabile senso di fascinazione che mi toglie il respiro, quando all’ultima pagina chiudo con il suo romanzo e apro il pensiero all’autore che lo ha creato. Divina la creazione, e l’autore? Empatia emotiva e razionale, presuntuosa la mia comprensione, social da fare schifo o dispersa nella sua elitaria grandezza di solitudine, immortale perché morto o contemporaneo il lui, la lei, perché vivente.
Il preferito, la preferita o solo tra i preferiti, autore appena conosciuto o talmente studiato da conoscerne il gossip più intimo, odiato o amato perché irraggiungibile, sopravvalutato, sottostimato, ammirato o denigrato da chi non lo capisce. Il maschio è scontato ma la femmina lo è di più. Guerriera. Quindi il fascino e la venerazione, e la preferenza diventa disturbo, una patologia da curare, stili da spogliare, significati da afferrare, emozioni a cui abbandonarsi, senza remore perché la ragione è solo morte. Se l’inferno è lastricato di buone intenzioni, e l’inferno non esiste, come faccio a sopravvivere nella produzione industriale dei desideri indotti?
Da quando ho visto le creazioni della cucina destrutturata, ho il terrore del “de”, puoi capire l’orrore della parola de-fascinazione in me che adoro sottomettermi senza condizioni al fascino…
Questo è il punto, capire, comprendere, farne conoscenza. Poi mi arriva lui, Cioran, o meglio come lo presenta e lo spiega questo ragazzo del ’93 nato a Solofra (AV), Vincenzo Fiore, attraverso un saggio prezioso che, come dicevo è il mio capolinea, ma non di quelli desolati in una periferia emarginata, no, un capolinea al centro di una stella di stelle.
Mio caro diario, prova a immaginare innanzi a te tremante, un dio nudo come un re che balbetta e non sa rispondere ad una semplice domanda: «Perché ci hai creato?»
Se è vero che al centro della terra c’è il fuoco, la stella che era in origine, se i vulcani sono solo foruncoli giovanili che scoppiano in superficie, di quale fascino vuoi parlare senza conoscere Cioran?
La bibliografia che inizia a pagina 161 è l’universo, adesso capisco perché dio ha creato i buchi neri.
Prova a immaginare di spazzare via ogni struttura e sovrastruttura, ogni chiesa o multinazionale, ogni stato democratico o totalitario, ogni partito, ogni associazione di persone e interessi, cancellare ogni filosofo e pensatore, e finalmente dare senso solo alla morte. Anche oltre Jim Morrison che diceva: «Non aver paura della morte, fa meno male della vita» e ancora «Non ho scelto io di nascere quindi lasciatemi vivere come mi pare. Non siamo fatti per durare» e via dicendo.
“Via dicendo” è una citazione, forse lo stile ossessivo che più mi è piaciuto de Il giovane Olden di Salinger, finito in queste ore e per la verità, oltre l’ipocrisia è l’unica cosa che ricordo bene, che mi manca e via dicendo.
E dopo la spumeggiante questione delle anatre, la gioventù e i suoi deliri, ecco che ho attaccato con L’ANIMALE MORENTE di Philip Roth, la storia di un vecchio, un professore universitario di critica letteraria che affascina, dice lui, belle studentesse di vent’anni.
L’universo è fatto di stelle che ferme si allineano secondo uno schema preciso per poi cadere inutili la notte di San Lorenzo.
Capisci cosa fa Cioran?
Ferma il tempo non come grandezza fisica, anzi, ne annulla il conteggio come opera umana e in quanto tale, magnifica, singolare meraviglia. Meglio non esser nati.
«Tanto per cominciare, non tutti hanno la fortuna di morire giovani.»
E tu cario Diario, pur non essendo umano ma comunque intriso di ogni umanità, non avrai di questi problemi, non sarai mai abbastanza giovane né abbastanza vecchio da morire, perché in fondo come Diario di un fantasma non esisti e per tanto l’oblio ha su di te un destino segnato, fascino che mai potresti esercitare. Ecco cosa sei una terapia, lo sospettavo e Cioran me lo conferma, non con i suoi scritti che qualcuno mi riprometto comunque di leggere, ma con la sua anima che suo malgrado continuerà ad essere l’incubo di ogni filosofo, passato, presente e futuro.
Ecco cosa accade, con Cioran da oggi mi sento meno piccolo a osare sfidare i giganti ma, cara e grandissima Michela Murgia, in queste ore volata così in alto da scappare come una cometa libera di andare dove vuole, meno piccolo ma sempre in ginocchio, perché per ogni sommo che vola, miliardi restiamo in ginocchio, in catene schiavi alla terra dei bisogni.
Forse s’avess’io l’ale sa volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo , più felice sarei, dolce mia greggia, più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: Forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale.
Sì perché la filosofia come ogni dio è solo una manipolazione, un tappabuchi, ecco perché amo la cameriera del suo aneddoto più di ogni sapienza che nel dubbio, senza una matematica certezza che privata d’assiomi non esiste, per tutte quelle condizioni al contorno che rendono soggettivo ogni pensiero, amo quella contadina analfabeta diventata cameriera.
E allora amo ancora quella poesia che la mia professoressa volle imparassimo a memoria, amo quel finale che da un senso profondo alla lotta di classe più di ogni sforzo umano. Funesta è la nascita senza eredità, dico io, come magnifica una vita di conquista.
Poi scopro che Cioran, rumeno, magari un po’ vampiro e un po’ zingaro, cercava le traduzioni di Leopardi, scopri che d’italiano in francese, tanto ancora nemmeno esiste, ancora oggi che interi popoli sognano la fine del giogo colonialista.
Cameriera? Una parola, dissezionabile? “Una parola dissezionata, dice Cioran, non significa nulla, proprio come un corpo che dopo l’autopsia è meno di un cadavere.”
Capisco bene i ricchi che hanno tutto da perdere e come inevitabilmente, dotato di tutt’altro tesoro, il “ricco” pensatore non ha che un capitale in dissoluzione con il passare del tempo, e capisco perché voglia scappare dalla nascita, la sua, funesta e futile filosofia. Capisco l’odio e la paura degli altri suoi simili che non pensano altro che aggrapparsi alla “roba” da portarsi dietro come le sfarzose tombe testimoniano da millenni.
Capisco poco o niente ma gli aforismi di questo scrittore, più che filosofo come sento dire e via dicendo, è una ventata di beatitudine che annulla ogni gerarchia di struttura e sovrastruttura sociale e culturale, ma come ho detto all’inizio non ho trovato la verità, ma un capolinea da dove partono infinite strade di conoscenza. Intanto, de – fascinazione e terapia, sono segnate a riempirmi di futuro.
Grazie Vincenzo Fiore ti devo un pezzo di luce, e grazie Luciano Bassan che me lo hai consigliato un bel po’ di tempo fa.
C’è un prima e un dopo Calvino. Leggere questo testo è come nascere in un altro mondo. Forse quello vero e non la bolla in cui mi sento come un pesciolino rosso che si esprime muto in un fantasmagorico acquario esistenziale. Parlare senza suono come scrivere senza significati interessanti, credo sia in fondo l’ossessione di morte dell’individuo social di oggi. Ecco l’effetto su di me di questo mio primo Calvino, la vergogna, l’oscenità di parole gratuite prive d’emozione.
C’è un prima e un dopo come quando nuove lenti da vista rimettono a fuoco le parole sulla carta, come quando nel centro del fuoco di legna che arde, vedo la materia trasformarsi in luce, calore e cenere inutile.
Il prima è l’intera storia umana che si trasforma in nuovi significati, il dopo diventa la mia città che nemmeno sognavo di vivere. L’incubo che diventa sogno e la paura, desiderio. Calvino mi ha trasformato, forse plasmato, mi ha reso viaggiatore nel tempo e insieme dall’altro lato della scacchiera, sovrano dominatore del tempo che smette d’andare, a consumare partite di tensione duale tra abitante e abitato, tra spettatore e attore, viaggiatore che arriva e che parte, in perenne fuga dall’ovvio, dall’insostenibile pesantezza della noia.
Una dopo l’altra, Calvino svela tutte le città non del mondo ma dell’intero universo, umano mai divino, materiale mai etereo, reale come meta di un miraggio e polvere magica come lavorazione di pietre preziose:
Adesso capisco bene perché “Le città invisibili” di Italo Calvino sia considerato un capolavoro letterario e una delle opere più significative del Novecento.
Leggendo sono stato oggetto di uno spettacolare gioco onirico ad occhi aperti, parte in causa in temi complessi legati alla natura delle città, alla percezione e all’immaginazione.
Calvino crea un mondo letterario in cui l’immaginazione si fonde con la realtà, portando il lettore ad affogare nella complessità e nell’effimero delle città, così come nella vastità dell’esperienza umana. Affogare per poi meravigliarsi di respirare ancora per ogni piccola luce d’umanità che nessuno può spegnere.
Attraverso le descrizioni di città fantastiche, ognuna con le proprie peculiarità e simbolismi, Calvino esplora concetti filosofici, sociologici e umani, eccitando la mente con viaggi tra mondi immaginari per scoprire nuove prospettive sulla vita e sul significato delle città.
La prosa di Calvino è poetica (lo dice anche Pasolini), e il racconto in cui intreccia le diverse storie delle città invisibili è per me ubriacante. Questo libro può essere letto in molti modi: come una meditazione sulla natura mutevole delle città, come un’esplorazione della condizione umana o semplicemente come un’avventura letteraria straordinaria.
“Le città invisibili” è un viaggio intellettuale senza confini, un percorso sensuale denso di realtà e desideri che sfuggono al ragionamento tanto da diventare emozione diretta della propria residenza, forse casa, quartiere o metropoli ma allo stesso tempo, è l’odepòrico dello straniero in cerca di conoscenza, in un eterno viaggiare a cercare risposte dall’invisibilità dei pensieri.
Purtroppo il progresso tecnologico porta anche tanta distruzione e oggi nel 2023 ci sono città orribili come Arlit e chissà se Italo aggiungerebbe queste alle sue invisibili.
“Arlit è la mia città, è lì che estraiamo la ricchezza del paese. Si chiama ‘Piccola Parigi’. Vorrei davvero che fosse così! Si ha l’impressione che sia circondata da montagne, come quelle vicino alle quali i Tuareg si stabiliscono per proteggersi dal vento del deserto. Ma queste montagne sono state create da zero. Infatti, sono formate dall’accumulo delle scorie radioattive derivanti dall’estrazione dell’uranio”…
Prima e dopo Calvino? Adesso ho finito e ho voglia di ricominciare, ma il viaggio deve continuare.
Questo scrivevo a metà lettura il primo luglio 2023…
C’è meraviglia e meraviglia, scappare dalla città, correre in città, un’altra e un’altra ancora, ingabbiati e soffocati, liberi e al sicuro, coccolati… perché deve essere così? Così sarà sempre, vertigini e affanno, la scoperta, la conoscenza. Manca l’aria mai respirata, manca l’acqua mai assaporata.
Ad occhi aperti leggendo mi vibra dentro Anastasia, come un’orchestra di musica e cori possenti, come nel vicolo del silenzio, centro storico che dorme, un calcio alla lattina abbandonata, accartocciata, fa vibrare le mura antiche che cadono in frantumi, nel silenzio del mio centro storico, parole e polvere, e rovine mai viste.
Sono nemmeno a metà… braccato in questo buco di culo di un corpo meraviglioso che con le ali tocca a nord, Positano e a sud Sapri, provinciale, magari non fessura ma cuore, motore d’emozione.
“Tale potere, che ora dicono maligno ora benigno, ha Anastasia, città ingannatrice: se per otto ore al giorno tu lavori come tagliatore d’agate onici crisopazi, la tua fatica che dà forma al desiderio prende dal desiderio la sua forma, e tu credi di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo.”
«Lo hai letto?» e io risposi no. «Prima leggilo, è un saggio.» Così mi ha lasciato gnac dopo un bell’abbraccio con la copia in mano e il desiderio infranto di una sua dedica.
Nella folla idilliaca di una presentazione, non sai mai se Amlo è veramente lucido e ti sta prendendo per il culo, oppure nemmeno si ricorda chi sei perché perso nel delirio euforico fatto di cocktail alcolici, risate, brindisi e applausi dei tanti ammiratori e amici che lo celebrano come una star, suo malgrado.
La parola “saggio” mi stupetea e mi mette paura perché presuppone una pesantezza letteraria che si fa scuola se non università. Per la cronaca stupetea per me è sinonimo di stordimento più che di stupore, tanto per chiarire, ma del resto ogni immigrato tende a crearsi un dialetto tutto suo, ma chi se ne frega, dovrei far ricorso alle consulenze di un antropologo se non miseramente ad un semplice geriatra che mi sappia spiegare il perché dei ricordi che svaniscono.
La prende larga Amleto, tanto da riuscire con la parola scritta a trasformare un saggio in fascinazione letteraria, tanto da modellare una biografia di formazione dentro il racconto storiografico di un’epoca che ha trasformato per sempre la civiltà occidentale.
Monta e smonta miti, estirpa dai luoghi comuni le radici eretiche più intricate e potenti e con dissacrante ferocia, dall’alto di una superiorità culturale ereditata da una favolosa soffitta familiare, illumina il vasto ring del conflitto sociale come trasformazione e perversione della storia ufficiale, quella scontata dei vincitori, quella acclamata dei belli e potenti, e così la narrazione se non l’esaltazione dei perdenti diventa liberazione e orgoglio.
Diversi e sconfitti, meglio, molto meglio sconfitti che acclamati fari abbaglianti, servi del sistema criminale che usa il potere per mantenere schiavi se non “camerieri” le folle plaudenti. E il peggio sono loro, i radical chic che hanno i “camerieri” al loro servizio, quelli che predicano bene e razzolano male, come polli dal becco menomato in allevamenti intensivi senza sole ma con flebo di antibiotici come fiumi.
Più che un saggio questo Pugilatore, metafora del conflitto disarmato dall’individualismo, è per me un vangelo che professa una nuova religione, quella eretica dell’arte che svela la verità, turbamento dei controllori del dissenso, quella verità che svela l’abbrutimento della caccia alle streghe, la caccia ai rivoluzionari, un vangelo contro il pensiero unico che ammanta di speranza il benessere e la pace attraverso la truffa manipolatoria del consenso, quella depravata del successo. Un vangelo con parabole e miracoli, di quelli che ti proiettano in una narrazione eretica fuori dal consueto, oltre ogni banale normalizzazione dei sentimenti e delle certezze.
Non è religione ovviamente ma potere devastante della bellezza nelle emozioni, dai ricordi più teneri ed antichi segnati nella carne a quelli più effimeri ed irrilevanti degli eventi sportivi.
Il potere non si esercita soltanto con la polizia nelle strade: sa essere subdolo, e soprattutto sa essere ovunque, anche a sua insaputa. Se sai di non poter fermare certe cose, allora sai anche che ti conviene incanalare quello che non puoi bloccare (…) in qualcosa che conosci bene, che abbia, come si dice adesso, una narrazione fascinosa e che sia eversiva giusto quel poco che conviene. E quelli a cui conviene sono sempre loro, quelli coi camerieri.
È il mio primo libro di Amlo che leggo, invece ho letto qualcosa di Diego la cui Venerespero tanto sia presente nella prossima stagione in TV del Malinconico avvocato d’insuccesso. Ma questa è un’altra storia. Comunque anche se non è né educato né corretto mettere in competizione due fratelli su cose diverse come pere e mele, sempre di frutta si tratta, succosa e dolce, necessaria e vitale, letteratura insomma. Beh, questo Pugilatore batte ogni Malinconico a prescindere, l’avvocato al più può fare il manager, fare soldi appunto, più che prendere e dare cazzotti.
Curioso curiosando seguo la traccia degli stimoli quotidiani, provando a distinguere semi vivi nella nebbia di parole che tutto opprime. Anelo cèrnere tra lampi, le connessioni elettriche più intense, come quelle tra neuroni agitati, e quindi accecato da fremiti luminosi, reagisco come posso, come so, come meglio sarà domani. Così immagino con l’acquolina in mente di afferrare l’inconoscibile diventare elevato pensiero tra mortali, una lepre che scappa dopo aver rosicato i fili della sua catena, terrena, precaria ma effervescente.
«Un volto nella folla… il colpo di grazia alla “società della finzione” nella quale sopravviviamo perché anche noi, come gli attori, recitiamo spesso un ruolo che non ci appartiene.»
Fili, fili e fili ancora, intrecciati, annodati, lacerati dall’usura vergine, affilati e strappati con mani callose che scavano terra.
Quest’uomo che fino a pochi mesi fa non sapevo esistesse, con QUANDO CADONO LE STELLEprima e con UN VOLTO NELLA FOLLA dopo, mi ha pulito come un tergicristallo che stride, quello che tira via la sabbia del deserto quando piove fango sulle nostre vecchie auto parcheggiate al sole del sud, d’estate. Pulisce e graffia, lascia il segno e la nebbia sparisce dalla vista, e gli occhi si riempiono di nuovi mondi. Dalla Storia, dal passato, emergono i classici a confermare che non siamo né possiamo essere moderni ma solo copie replicate con vite già vissute, universi conosciuti e plasmabili come creta vergine che ci appare irripetibile perché nostro è il corpo che vibra.
Il racconto di Budd Schulberg spiega bene l’ipnosi collettiva in cui siamo caduti con il fenomeno Beppe Grillo che ho seguito dalle origini, da prima dei cinque stelle, molto prima, da quando partecipammo attivamente alla colletta per l’acquisto del microscopio elettronico a quel mellifluo dottore delle nano particelle, tal Montanari, che preso poi da manie di grandezze politiche, si candidò premier in questo meraviglioso paradiso chiamato Italia.
Mentre qualche “compagno” adorante leccava le palle del cono gelato menomato dal vate Grillo ormai sazio, quel pomeriggio al palazzo della provincia di Salerno, le risate di quei due ancora mi grattano nel cervello. Grillo e Montanari si guardavano e ridevano dopo un’affermazione scientemente preoccupante: “le nano particelle di metallo pesante provocano lancinanti pruriti nelle vagine”. Ridevano e giocavano con gli indigeni del luogo, come i conquistadores facevano agli anelli al naso nel ‘500. Era la campagna “ferramenta ambulante”… l’estinto Fico, primo leader del meetup di Napoli dovrebbe ricordare. Era un’altra vita quella di tante vite fa.
Ripeto, dalla prefazione di Gian paolo Serino:
“società della finzione” nella quale sopravviviamo perché anche noi, come gli attori, recitiamo spesso un ruolo che non ci appartiene.
Quindi caro diario, come ti sarà ormai chiaro, questa è solo una cronologia di inciampi, di cadute, d’illuminazioni, attimi immensi come la visione di un volto che nella folla non potrai mai più dimenticare. Oggi solo sapienza e conoscenza che costa poco. Di quella dura, immortale, a tempo indeterminato, scolpite nella pietra anche se solo inchiostro su carta, di quella che non si spegne con un interruttore, di quella che puoi ripetere a voce alta e meravigliare chi ti ascolta. Forse un giorno i brevetti e i diritti d’autore saranno solo archeologia, il profitto condannato a morte nei resti di civiltà estinte e questi byte persi come lacrime nella pioggia, acida come l’oblio.
In Russia sembra iniziato un colpo di stato militare guidato dal suo ex cuoco, il padrone della società mercenaria Wagner. Forse siamo alla vigilia di cadere dalla padella alla brace. Fino a ieri Prigozhin era l’eroe che ha sterminato gli ucraini a Bakmut, oggi sembra diventato l’eroe dell’occidente che sogna di rovesciare il governo Russo. Un po’ di tempo fa anche in Turchia c’è stato un tentativo militare di ribaltare Erdogan ed è finita con un bagno di sangue. Se denaro crea denaro, sangue chiama sangue… e magari è tutta una commedia, forse un dramma, magari una tragedia. Pare che Aljaksandr Lukašėnka, il Presidente della Bielorussia ha messo una pezza alla questione.
Ho chiesto aiuto a ChatGPT per capire il senso di questa parola, sembra vero sempre tutto il contrario di tutto, nel tempo e nella storia cambiare idea come cambiare padrone è una libertà, sembra proprio libertà costituente… è questione di ore, forse domani mattina inizierà una guerra civile (i ceceni sono partiti all’inseguimento), la guardia nazionale e la polizia si prepara a difendere Mosca … forse come ho già detto la sceneggiata è finita prima di cominciare.
ecco l’articolo —–>
Il Concetto di apostasia: analisi politica, filosofica e religiosa.
L’apostasia, termine che deriva dal greco “apostasis” e che significa “abbandono” o “rivolta”, non è solo una questione religiosa, ma assume anche una rilevanza politica significativa. Nell’ambito politico, l’apostasia si riferisce all’atto di abbandonare o dissentire da un’ideologia o un regime politico. Tuttavia, oltre alla sua connotazione politica, la parola “apostasia” solleva anche critiche filosofiche sulla libertà di pensiero e sulla natura dell’identità individuale.
L’apostasia, termine che deriva dal greco “apostasis” e che significa “abbandono” o “rivolta”, è un concetto complesso che assume rilevanza non solo dal punto di vista politico e filosofico, ma anche religioso. Esploriamo dunque le diverse prospettive su questo argomento.
Prospettiva Politica
Nel contesto politico, l’apostasia si riferisce all’atto di abbandonare o dissentire da un’ideologia o un regime politico. Alcuni sostenitori dei diritti umani e dei principi democratici vedono l’apostasia come un’espressione della libertà di pensiero e del diritto individuale di cambiare convinzioni politiche.
Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, ha sostenuto il concetto di libertà religiosa e di coscienza come diritti fondamentali. Egli ha scritto che “il governo non ha alcun potere di prescrivere credenze religiose o coercire l’adesione ad alcuna professione di fede”.
Nelson Mandela, il famoso leader sudafricano nella lotta contro l’apartheid, ha difeso il diritto delle persone di cambiare le proprie convinzioni politiche. Ha affermato che “essere libero non è solo sbarazzarsi delle proprie catene, ma vivere in un modo che rispetti e riconosca la libertà degli altri”.
Critiche Filosofiche
Le critiche filosofiche alla parola “apostasia” mettono in luce il conflitto tra la libertà individuale e le aspettative sociali. Alcuni filosofi sostengono che l’identità di un individuo sia legata alle proprie convinzioni politiche e che un atto di apostasia possa essere visto come una forma di alto tradimento.
Jean-Paul Sartre, filosofo esistenzialista francese, afferma che l’identità è costantemente in evoluzione e che l’apostasia può essere vista come un passo verso una maggiore autenticità individuale. Secondo Sartre, ogni individuo ha il diritto di esplorare e ridefinire le proprie convinzioni politiche senza essere vincolato a un’ideologia dominante.
Friedrich Nietzsche, filosofo tedesco, sostiene che la vera grandezza di un individuo risiede nella sua capacità di superare le vecchie convinzioni e di abbracciare nuove prospettive. Secondo Nietzsche, l’apostasia può essere un segno di forza e di vitalità individuale, in quanto implica una rottura con le convenzioni e una ricerca di nuove verità.
Prospettiva Religiosa
Nel contesto religioso, l’apostasia si riferisce all’abbandono o al rifiuto di una fede o di una religione. Le prospettive religiose sull’apostasia possono variare ampiamente a seconda delle tradizioni, delle interpretazioni e dei contesti culturali.
Nella Bibbia cristiana, l’apostasia viene spesso considerata negativamente e vista come un allontanamento dalla verità divina. Ad esempio, l’apostolo Paolo afferma: “Alcuni si sono allontanati dalla fede, dando ascolto a spiriti seduttori e dottrine di demoni” (1 Timoteo 4:1). Tuttavia, alcune correnti teologiche cristiane sostengono il concetto di libertà religiosa e la possibilità di cambiare o abbandonare una fede.
Nel Corano, il testo sacro dell’Islam, l’apostasia è considerata un atto grave. Secondo alcuni passaggi, l’apostasia è vista come una negazione della verità rivelata e può essere soggetta a pene severe. Tuttavia, ci sono interpretazioni diverse all’interno dell’Islam riguardo alla punizione per l’apostasia, con alcuni sostenitori dell’idea che la libertà di religione dovrebbe essere rispettata e che l’apostasia non dovrebbe essere perseguita come un reato.
In conclusione, l’apostasia è un concetto complesso che coinvolge prospettive politiche, critiche filosofiche e prospettive religiose. Dal punto di vista politico, l’apostasia può essere considerata un’espressione della libertà di pensiero e dei diritti individuali. Le critiche filosofiche sollevano interrogativi sulla natura dell’identità e sulla possibilità di cambiamento. Le prospettive religiose possono variare ampiamente, con alcune religioni che considerano l’apostasia come un atto negativo e altre che abbracciano la libertà di scelta e di ricerca spirituale. Alla base di tutto, è fondamentale trovare un equilibrio che garantisca il rispetto dei diritti umani, la promozione di società aperte e inclusive, e la tutela delle diverse libertà individuali e collettive.
25 giugno 2023
È bastata una giornata di rivolta per accendere l’attenzione dei media sulla guerra, già perché i centinaia di soldati morti ogni giorno non facevano e non fanno notizia… Che follia, eppure i media sembrano pilotati da autori privi di fantasia e provano con pillole ipnotiche di desideri imposti, come la fine di Putin, la Russia in crisi, la vittoria militare…
Nel giorno della festa del papà del 2022, a pochi giorni dell’invasione, dell’aggressione, della guerra in Ucraina, avevo in testa un solo augurio per ogni bimbo, avere un papà con cui giocare e non al fronte a fare la guerra.
Le immagini di ieri dell’operatore ecologico che spazza tra i carri armati della Wagner a Rostov-sul-Don, è stata emblematica di come si deve rispondere alle armi: non si combatte, si tratta e al soldato si chiede: «Cosa vuoi? Chi ti comanda? Per chi sei disposto a morire?».
Io credo che la sceneggiata di ieri abbia un regista che intende parlare ai soldati ucraini, dimostra loro che rivoltarsi al proprio comandante è possibile, se lo fanno i mercenari contro Putin, loro lo possono fare contro quei generali che li stanno mandando a morire giorno dopo giorno per un’idea di vittoria impossibile.
È girata una notizia secondo me vera perché banale: in poche ore la madre Russia ha bloccato le carte di credito e i conti correnti delle milizie mercenarie di Prigožin. Ecco come si fermano i mercenari, bloccando i soldi, ecco come si alimentano i mercenari, con il vile denaro… La rivolta di Prigožin è la difesa di una “società privata di servizi” che mamma Russia voleva e vuole nazionalizzare. Prigožin ha fame di conquista e come Zelensky vuole più armi per combattere e attaccare. Forse sarà arrestato proprio in Biolorussia, forse diventerà governatore dell’Ucraina liberata, di sicuro ha dimostrato che la guerra più utile è quella con le armi che non sparano…
I militari eseguono ordini e saranno loro a fermare la guerra a Kiev.
Era il 19 marzo 2022 e il mio augurio è sempre lo stesso: avere un papà che gioca e non fa la guerra…
Sono stupefatto dal coraggio e dalla presunzione di questo assassino di parole come lui stesso si definisce, membro di una setta artistica che magnificherei con questo slogan: “verso l’infinito e oltre…“
La presunzione di Ivano è meritata, per quello che può valere un mio giudizio. Se lui si definisce ignorante, figuriamoci come possa sentirmi io nel leggere la sua opera scritta. Io nemmeno apprendista, né garzone di bottega e neanche vagabondo.
Immaginarsi condotto da Dante in un sogno, come Virgilio conduce il “sommo” nella Divina Commedia è anche oltre ogni idea di presunzione retorica, oltre ogni ricerca semantica capace di eviscerare l’intrigato transfert che attanaglia il me lettore al suo dominio di scrittura, dove poesia e narrativa si fondono come cielo e mare in una limpida giornata d’estate.
Spinto e spronato da un gigante come l’Alighiero, il cammino delle domande poste a Socrate, Omero, Celestino V, addirittura a Cleopatra e all’infinito Pulcinella, sono le briciole di Pollicino che preda degli uccelli, una volta svanite, mi lasciano l’amaro in bocca dello smarrimento. Tanta, troppa luce. Di tale grandezza, di domande e risposte, vorrei scolpita la dura pietra della mia povera mente. C’è solo una cura, ovvia e scontata, leggere, rileggere e studiare, godendo della conquista, assaporando le sfumature celate nell’ombra che gigante cresce ad ogni nuova conoscenza.
Nel sogno, il coraggio e la padronanza delle sue armi più affilate, rendono Ciminari capace di dare voce a Dante con frasi nuove nell’antico dolce stil novo. È uno stile rivoluzionario oggi come lo era allora. Senza dubbio ci vuole coraggio a rinnovarne la proposta. Purtroppo la massa malata di rozzezza che ci circonda, quella del tik tok contemporaneo, credo sia troppo impermeabile ed ottusa, troppo indifferente a tanta magnifica complessità. Quindi onore e merito allo scrittore che oltre al tributo mette in scena la vitalità dell’immortale sapere.
Poi lui si sveglia dall’incredibile sogno.
L’uomo materiale di oggi si sveglia e trova intatto l’Inferno sul comodino della sua esistenza moderna, con lacrime secche negli occhi ad incollare palpebre e pupille ingorde che leggono fatti di cronaca sempre verdi, storie drammatiche ed eterne. Perché galeotto fu quel libro per Paolo e Francesca in cui si narrava l’amore di Lancillotto per Ginevra, perché resta ineluttabile che l’amore di pochi continua a muovere l’invidia e la violenza dei tanti accecati dalla possessione e dalla gelosia dell’oggetto perduto. Peccatori gli amanti, peccatori gli assassini.
Ecco cosa sono queste 148 pagine: uno schiaffo di cultura in faccia all’ottusità di rimuovere i classici nella formazione fluida di oggi che di antico ha solo l’esaltazione barbara della vanità. Ecco il coraggio ciminareo di dimostrarsi presuntuoso quel tanto da lottare con veemenza, con le parole, sulle spalle di un gigante come Dante, contro il vuoto spinto che ci succhia via ogni umanità.
L’epilogo del primo sogno è solo la preparazione al secondo che corre via come una brezza di fresco ristoro. Una bella storia d’amore, pura come l’essenza della conoscenza più pulita e somma.
Il primo sogno ha l’ardore della complessità, lo sforzo sovrumano della sfida a vette distinguibili solo da studiosi dotati di attrezzatura accademica. Il secondo sogno è la piacevole ricompensa, la carezza che ci meritiamo dopo ogni sofferenza.
Ecco quindi l’amore di Valeria e Nicola, due personaggi che lo scrittore crea e attualizza, diversi e attrattivi come Yin e Yang, un tutt’uno indissolubile come Eva e Adamo come appunto Paolo e Francesca. Il secondo sogno è una discesa, piacevole come ogni ritorno nella propria dimora familiare, ancora più amata quanto più duro e tremendo è stato il distacco. Ogni viaggio è come un sogno, un continuo sforzo di equilibrio tra l’incubo della privazione di certezze e il desiderio trascendente di conoscenza.
I protagonisti di Ciminari sono materialmente ancora innocenti ed inconsapevoli d’essere oggetto del potere alchemico del destino. Ancora troppo giovani e già troppo maturi per la loro età nascono e si uniscono in un concerto di musica e poesia come solo la sensibilità di ognuno sa veramente apprezzare. In Valeria e Nicola sfido chiunque a non vederci l’eterno passato, l’eterno presente e l’eterno futuro della storia dell’umanità.
Ivano lascia al lettore il finale, affascinante finale, dando sostanza a quell’operazione di transfert che ho citato prima, a quella relazione intima che vorrebbe ogni lettore legarsi allo scrittore che diventa motore di altri mondi fantastici prima sconosciuti.
Verso l’infinito e oltre, già come gridano i giocattoli per darsi completamente al bambino che ci sopravviverà per sempre, immutabile nei nostri cuori fino all’ultimo battito.
romanzo di Gian Paolo Serino, 2016 Baldini&Castodi
“… il successo è solo il participio passato del verbo succedere…” ma che ne sai tu di un campo di grano? Sono ore, poi giorni, nei ritagli del tempo libero dai doveri, che leggo nella rete cosa scrivono di lui e del suo primo romanzo. Cribbio e che romanzo!
Storie vere dice Serino, e lo dice con una bibliografia finale per accademici ingrippati, perché è così: questo romanzo ti grippa il cervello, e se mai vuoi studiarti bene origini e significati, e sei un’operatore accademico della letteratura o di ogni altra scienza sociale, Serino ti fornisce indirizzi e recapiti dove andare a sbattere la testa. Così, tanto per scolpire nella roccia della conoscenza lo scheletro della realtà dell’altrove storico, credo sia un testamento osseo che si fa capolavoro, perché la verità è la polvere di cui sono fatte le stelle.
È proprio dalla fine che voglio partire, da quando il romanzo finisce e i neuroni vanno in tilt, dopo che per duecento pagine le sue frasi nella mia mente hanno vibrato, furiose, elettriche e magnetiche come le onde della luce. E se alla fine la luce ti prende e non ti abbaglia, cioè ti cattura e non ti respinge, è perché diventa materia ogni singolo fotone che raggiunge i tuoi occhi diventando polvere, lacrima senza pianto, emozione. Alla fine, queste magnifiche storie si intrecciano e si fondono in un’unica visione, semplice ma complessa come la parola cielo che ha dentro sé tutte le stelle del firmamento.
Io l’ho visto Serino sulla collina delle anime libere e sotto di lui tutto il reame.
Il reame vacuo cui appartiene Morgan, sì quello,un “brillante fallito di successo”, uno tra i tanti istrioni “che si vantano di lottare contro un regime quando non si accorgono di vivere in un reame…”
Io l’ho visto Gian Paolo con il medio teso in faccia ai sudditi in festa, zombi alla ricerca di accondiscendenze critiche e fremiti artistici, in faccia al reame di prostituzione gerarchica popolata da ingordi mediocri del niente, e ho immaginato un dito come quello gigante di Cattelan in piazza degli affari di Milano.
L’opera che l’artista ha chiamato LOVE: “libertà, odio, vendetta, eternità”.
Nel mondo che vedo io, allucinogeno agglomerato d’umanità lacerata, quei quintali di marmo di Carrara, quei due metri di fallico vaffanculo agli schiavi adoranti, sono libertà, odio, vendetta, eternità di classe, vomitate in faccia al popolo nel cortile del gioco a somma zero dell’alta finanza, che brucia e crea miliardi di capitalizzazioni con la velocità del vento. Mi penso padrone del Palazzo, capitalista dei capitalisti, e vedo il mio dito medio che mostro al popolo. La grandezza è solo una misura di un punto di vista, e la classe non è acqua ma dominio.
Forse l’artista pensava altro ma su quella collina di anime libere io l’ho visto, il dito medio al cielo di Serino mostrare la luna a gente con lo sguardo per terra che, boriosa e senza vergogna, affoga nel fango della propria irrilevanza. Io l’ho visto, questo gigante di uomo, incazzato e triste, affranto da tanto reame sprecato.
Se ti sfugge la connessione Serino/Cattelan, la polvere e le stelle, non l’hai letto questo romanzo, non puoi sapere della madre che si fa puttana per il bene della figlia e sentire l’umanità come fiamma bruciarti d’emozione. È quello che ha fatto a me, e così adesso mi sento, arso a mirare quanto sono vere le stelle che brillano eterne.
“Camminando a passi sempre più veloci K. fu sopraffatto da quel solito stato d’animo che non era né gioia né tristezza, né felicità né dolore, semplicemente non era niente, come una specie di gelida atarassia, di noia insuperabile. Tutte le volte che questo stato d’animo si insinuava dentro di lui, K. reagiva, perché ormai conosceva benissimo la ricerca per affrontarlo: doveva incontrare altre persone. Ma questo si scontrava con il desiderio di non essere visto, di non parlare, di non esserci. E allora doveva sforzarsi, spingersi fra la gente e non provare disgusto nel farlo.”
Non so perché, non so per come ma la copertina è tutta una profezia. Una visione di futuro sconnesso dal presente, diviso e frammentato, in fuga abbracciato al passato, per qualche motivo magari divino, ma incredibilmente vivo è il desiderio eterno di un bacio ancora, e ancora, in attesa di gettare via la maschera che ci fa sentire protetti, forse da noi stessi, forse dalla paura che ci fa coraggiosi.
L’incipit è un brivido, l’ho già detto per un altro grande romanzo però questa volta non è ipnosi ma emozione viscerale. Alla scrittura di Antonio Lanzetta non ci si abitua anzi, ogni volta si resta folgorati. Sono un lettore modesto, per nulla esigente, eppure ci sono letture che mi passano addosso come ottimo intrattenimento, altre come le opere di Lanzetta che lasciano un segno feroce come ferite che stentano a rimarginare. Questa storia di Michele e di Teschio non mi ha fatto sconti, è adesso l’ennesima e sublime cicatrice che mi porto dentro. Per farmi capire meglio, è come quella cicatrice che mi porto nel cuore da quando, adolescente, lessi SE QUESTO È UN UOMO di Primo Levi. La grandezza della letteratura non si misura un tot al chilo ma, credo, in quante generazioni di lettori lascia il segno, cicatrici che si riproducono grazie alla sua eternità, infinita magia tra le arti umane.
Ecco, cosa significa uccidere con il cuore: è colpire e lasciare un segno indelebile nell’anima del lettore. Non a caso, prima dell’inizio del romanzo, il tributo a King è l’epilogo di tutta la storia di Michele e di Teschio, è la missione compiuta con successo da Lanzetta: riprodurre la potenza immanente del bene che fa giustizia.
Oltre la storia avvincente che scorre fluida e accelera con ripetute scosse crescenti di pura adrenalina, è la bellezza e la crudezza delle scene che rendono reale la fantasia più drammatica, materiale le visioni più inquietanti. Riporto solo due passaggi come esempio, ma tutto il romanzo è così, orribilmente e meravigliosamente bello.
“Seguii gli schizzi di sangue con lo sguardo fino a quel baratro. Le tracce si perdevano nel nulla, nel silenzio della morte e in occhi vuoti puntati verso il cielo. La ragazza giaceva scomposta sulle pietre come una bambola spezzata, il cranio sfondato e i capelli che galleggiavano simili ad alghe in una pozzanghera di sangue accumulatasi dietro la nuca. Rimasi a fissarla mentre il tempo mi scivolava addosso, simile a gocce di sudore. Una parte di me mi diceva di andare via da quel posto, ma quando distolsi lo sguardo mi parve di vedere mio padre fermo sull’altro lato del dirupo.”
“Sollevai il capo e all’improvviso mi resi conto di non essere in casa, ma in un campo. Il vento spirava tra i cespugli, sollevando una strana polvere viola. Spore che mi vorticavano intorno mentre il cielo era animato da deflagrazioni di luce indaco, simili a fratture nella notte. Le stelle si stavano disintegrando, scontrandosi tra di loro e disegnando nel vuoto creature informi e facce urlanti.”
Non la faccio lunga anche perché, se sono un lettore modesto figuriamoci la difficoltà che ho nel tramutare in parole i miei pensieri. L’ultimo commento è come una volta ancora Antonio Lanzetta fa insegnamento della sua passione con le sue opere, istruzione a chi come me sente urgenza affamata di grande letteratura, e adesso devo leggere anche qualcosa di Jim Thompson per lenire “il crepitio di vetri nello stomaco”.
“Ancora oggi, seduto nella poltrona sformata del salotto di casa, cullo mia figlia nel silenzio della notte, con un libro di Jim Thompson sulle ginocchia e una tazza di tè tiepido sul tavolino. Guardo la pioggia graffiare i vetri della finestra e provo a convincermi che le cose che ho visto quella notte nei boschi intorno alla casa della vedova siano accadute realmente. Avevo subito un forte trauma, mi sono ripetuto. In fondo, ero solo un ragazzo a cui avevano impiccato la madre. Un ragazzo che voleva riabbracciare il padre.”
L’incipit è un brivido. Uomo o donna? Mi sono chiesto. Il prologo è una lettera, un vortice di sentimenti che trascina senza scampo verso una spumeggiante cascata di domande. Giù verso le rapide turbolente di un fiume agitato da scene avvolgenti: avvinghiata la mente, questa scrittura ipnotica mi ha sbalzato fuori dai gorghi frenetici della vita quotidiana, per avvincermi dentro un flusso impetuoso di fatti e personaggi che alla fine mostrano come all’origine di ogni decadenza umana ci sia il male e la menzogna. Ciò che più mi ha colpito è come, con sferzante eleganza, le vicende narrate dei singoli personaggi, diventino un insieme rappresentativo di un’intera società. Se per i fanciulli la purezza briosa della gioventù muore con la fine dell’innocenza, la purezza dell’impeto costitutivo della repubblica, muore con la fine dell’onestà. Segreti, ricatti e compromessi intrecciano singole esistenze e la pluralità di un’intera organizzazione sociale: la decadenza è un processo che divora da dentro, e il conto si paga solo alla fine con la morte che svela colpe e tormenti nascosti per una vita intera.
“Piangi. Io sono il tuo castigo.”
Dopo aver scoperto con UNA FAVOLOSA ESTATE DI MORTE e NERO LUCANO, un intricato e appassionante personaggio come Viola, l’affascinante anatomopatologa di Piera Carlomagno, l’attesa di un’altra sua avvincente storia mi era così insopportabile da rivoltare sotto sopra tutte le priorità di quella giornata. Ricordo come fosse ieri: trenta settembre 2022, nel primo giorno dell’uscita nelle librerie italiane, la prima presentazione alla Feltrinelli di Salerno, e il fondamentale Angelo Cennamo dire: «Il taglio freddo della luna è il romanzo borghese del XXI secolo.»
Secondo una mia sensazione strettamente personale, questa avvincente cronaca romanzata dei giorni che vanno da giovedì 26 agosto con la luna calante visibile all’87%, a martedì 7 settembre del 2021 con luna nuova che inizia a crescere, è la dimostrazione di come una produzione letteraria di fantasia possa diventare un potente strumento di denuncia e critica storica di un’intera società, quella italiana, o meglio di una sua “classe”, la borghesia, che meriterebbe la condanna della memoria.
«… noi siamo rifiuti tossici da seppellire per sempre, siamo buoni per la Fossa Irreversibile, siamo la terra del non ritorno. Noi… meritiamo la damnatio memoriae»
Sicuramente esagero, come è esagerata ogni generalizzazione di categorie che più le analizzi e più si frantumano in eccezioni. Ma d’altronde alla fine della lettura e rilettura di questo romanzo, il libro tra le mani scotta come una bomba inesplosa e per troppi anni sotterrata. Questa la mia sensazione dopo la lettura dei due articoli che seguono e che mostrano come laFossa Irreversibile sia vera e non fantasia; è spaventosamente reale a Rotondella di Matera, in terra lucana, in Italia.
Nel 2019 avviene una sorta di riesumazione di un cadavere vivente, pericoloso sì ma che il genio umano intende riciclare. Poi uno si meraviglia che la realtà possa superare ogni assurda fantasia. Urca che tema di estrema attualità, il nucleare, in queste ore che gli idioti sapiens fanno la guerra lungo il fiume Dnepr, intorno ai sei reattori atomici della centrale di Zaporižžja.
“Negli anni Sessanta i rifiuti nucleari si cementavano e si mettevano sotto terra, in quelle che all’epoca venivano chiamate “fosse irreversibili”, proprio perché sarebbero rimaste lì per sempre.”
Quei rifiuti erano americani e noi abbiamo fatto di pezzi incontaminati della nostra meravigliosa terra una loro pattumiera…
«… noi siamo rifiuti tossici da seppellire per sempre, siamo buoni per la Fossa Irreversibile, siamo la terra del non ritorno. Noi… meritiamo la damnatio memoriae»
Cos’altro potrebbero meritare quelle generazioni che hanno permesso al nostro paese di diventare una discarica geopolitica? Più di una metafora, una condanna eterna. Ecco la potenza dell’intelletto cui la Carlomagno ci ha abituato, il viaggio su binari inseparabili, la bellezza della terra e il suo saccheggio, ma questa volta, il salto è trascendente, dal sudiciume materiale del petrolio e dei poteri massonici essenzialmente locali, passa a trattare il mostro invisibile, la contaminazione nucleare e poteri di dominio geopolitici.
«Quelle urla non le dimenticherò mai, anche se le ho ricacciate in fondo a ogni pensiero e sentimento, giù, nel punto più profondo di quell’abisso che è la mia anima.»
Uso alcuni dialoghi a ritroso partendo dalla fine del giallo per dare consistenza a questi miei commenti da lettore ipnotizzato. Sono commenti che cercano di provare quanto profondo e affascinante in questo romanzo sia l’intreccio sociale della storia di un paese con quella dei loro protagonisti, anima e identità, passato e presente, singolare e plurale.
«… Fu in quell’attimo che acquistò l’antitodo contro il veleno dei veleni: la disuguaglianza. Fu in quell’attimo che pensò di riscattarsi anche per il futuro, lui, la sua famiglia e la mamma infelice… »
La storia di uno diventa la storia di una classe smarrita che diventa soggetto sconfitto, singolare e plurale, elevato e decadente, per sé e di sé, prigioniero dell’evoluzione dei veleni materiali, sedotto e corrotto nel labirinto senza uscite di teorie e pratiche di speranza che quelli bravi hanno chiamato la fine della storia. Ma come la fossa dei rifiuti nucleari, la Storia dimostra che di irreversibile c’è solo la morte, e forse nemmeno più quella, almeno per chi sopravvive. In fondo il progresso, la modernità, le colpe che non possono ricadere sui figli, dimostrano che di giorno in giorno, diventa possibile quello che ieri era impossibile. Ecco la dualità umana in eterna contraddizione: bellezza e mostruosità.
«Siamo capaci di convivere con qualsiasi colpa» disse Viola. «Del resto siamo tutti mostri capaci di convivere con l’idea della nostra stessa morte… »
Dall’ultima alla prima pagina è Viola la guida, come il Virgilio di Dante ci accompagna oltre le righe dei fatti, oltre l’inferno e il purgatorio delle anime dei personaggi che lei riesce a sventrare da vivi, risuscitando anche quelle dei morti. Viola Guarino è la luce che scopre le ombre tra le piaghe dolorose delle verità nascoste e di quelle che sfuggono anche se in bella vista nel presente. La magia della letteratura gialla è anche questa, l’abilità della scrittrice di porre in bella mostra quelle evidenze che sono indizi che con lo scorrere delle pagine diventano certezze. Ma con la scrittura della Carlomagno si va oltre, si vola veloci come pipistrelli nelle grotte oscure dell’eterna lotta di classe. All’improvviso un sorriso e un pensiero: accecante e assoluta ineluttabilità della linfa vitale della grande letteratura, degli ultimi che resteranno per sempre ultimi, e che, nonostante i compromessi sociali della convivenza, restano fieri di esserlo, ultimi continuando a lottare per una comune identità di classe e di estraneità, forse nemmeno ultimi, diversi, esclusi ma colti.
Sorrise pensando a quelli che portavano stampata su magliette o borse di pezza appese dietro la schiena, la protesta a quel ciclone passato sulle loro teste senza coinvolgerli: «Pure io sono un povero cristo». E il cordone ombelicale con Levi non si taglia, non si tagli.
Poi ci sono i sentimenti e i desideri di Viola, i sogni erotici e gli incubi della maledizione arcaica dei tormenti che si fanno umanità inquieta, ci sono le voglie di scorticarsi addosso l’essenza emozionale del corpo e del pensiero, sentimenti e desideri che non trovano pace, che si intrecciano senza legarsi mai, e anzi ne fanno una danzatrice alla ricerca di quell’equilibrio impossibile di chi è sempre in fuga.
«La luna non muore mai» osservò Loris. «Si rigenera.»
«Certo, come tutti dopo le delusioni.»
Non c’è niente di semplice e scontato in questo grande romanzo, proprio come è la complessità della vita che nelle sfumature e negli attimi si fa preziosa, proprio come un diamante, inutile e spento senza una luce che lo attraversi. Così ci sono un paio di pagine in cui Viola e Loris si parlano, si sfiorano e si allontanano, un paio di pagine che da sole riscaldano il cuore e lo stordiscono, mettendo a nudo le differenze della donna dall’uomo, della femmina dal maschio, differenze della ragione dal sentimento.
«… Non ci si abitua a tutto, se si presenta l’occasione si saldano conti vecchi che si credevano dimenticati. E invece no, non si dimentica niente, tutto resta ferocemente piantato nelle nostre coscienze.»
Le scene e i dialoghi sono talmente vividi che saltano dalla pagina e arrivano, a volte come pugni in faccia improvvisi, a volte come carezze di una ragnatela di parole in cui i personaggi restano impigliati in attesa di essere svelati.
Ma non ricordare non è possibile, finché si è in vita, rimuginava Bepi e forse questa è la chiave di tutto. Sono i ricordi che rendono le persone pericolose e consapevoli che ciò che è stato potrà essere ancora; chiunque sia vivo continua a rimestare nei simulacri che occulta, che lo voglia o no, ed è tutta qua la complessità e la contraddizione dell’umano.
Eccola la scrittura ipnotica che salta tra passato e presente, con storie intrecciate come i rami di un bosco fitto e misterioso che mi ha ricordato il groviglio dell’adolescenza, le paure e le follie, ignoto e oscenità, vertigini e cadute, le colpe, l’ebrezza della potenza e lo sconforto della sconfitta, i rimpianti e gli occultamenti della vergogna. Ci sono conti che non si chiuderanno mai e tra questi, la conoscenza di questo personaggio grandioso che è la Viola di Piera, dopo tre romanzi è solo all’inizio. È una conoscenza parziale e ancora sfuggente, fatta di numerose curiosità irrisolte mentre nell’attesa di una prossima inchiesta, immagino lei correre come un fulmine bianco che non tocca mai terra.
… entrava nella morgue con l’aiuto di un rapporto ancestrale con la morte e si avvicinava ai corpi con la speranza di incontrarne l’anima.
la socia di Viola è bianca: Ducati multistrada 950
La bellezza è un tema che ha affascinato filosofi, artisti e pensatori di ogni epoca.
Essa è capace di evocare emozioni profonde, sollevare lo spirito e trasformare la realtà che ci circonda. In questo articolo, esploreremo il potere trasformativo dell’estetica attraverso cinque titoli, ognuno dei quali accompagnati da una citazione forse famosa, forse falsa.
a) La bellezza come rifugio dalla vita quotidiana
La bellezza ci offre un rifugio dalla quotidianità, dallo stress e dai problemi della vita di tutti i giorni. Come scriveva Ralph Waldo Emerson: “La bellezza riempie gli occhi e il cuore, e ci affascina con il suo fascino dolce e inspiegabile”.
b) L’arte come espressione della bellezza
L’arte è una forma di espressione della bellezza, capace di trasmettere emozioni e sensazioni attraverso forme, colori, parole e suoni. Come scriveva Johann Wolfgang von Goethe: “L’arte è l’organizzazione di elementi in una struttura che suscita emozioni ed esperienze estetiche”.
c) La bellezza come simbolo di armonia e equilibrio
La bellezza è spesso associata all’armonia e all’equilibrio, come dimostra la bellezza delle forme matematiche o della natura. Come scriveva Platone: “La bellezza è il splendore della verità e l’armonia della proporzione”.
d) La bellezza come fonte di ispirazione per la creatività
La bellezza può essere una fonte di ispirazione per molte persone, soprattutto per gli artisti che trovano nella bellezza l’energia creativa per le loro opere. Come scriveva Leonardo da Vinci: “La bellezza è la migliore lettera di presentazione”.
e) La bellezza come strumento di trasformazione sociale
La bellezza può essere un’arma potente per trasformare la società e portare il cambiamento. Come scriveva Nelson Mandela: “La bellezza di un mondo migliore si trova nella diversità delle sue persone, culture e idee”.
In conclusione, la bellezza è una forza capace di trascendere la realtà, trasformare il nostro modo di vedere il mondo e ispirare la creatività. Grazie al suo potere trasformativo, essa ci invita ad esplorare nuovi orizzonti e a guardare oltre le apparenze per cogliere il vero significato delle cose.
Ieri discutevo della “necessità” dell’intelligenza artificiale, mentre ascoltavo e dibattevo un desiderio in testa m’assillava, devo chiedere a ChatGPT di scrivermi qualcosa per elogiare la bellezza: ecco un possibile risultato, la bellezza trasforma i pensieri, eccita l’azione, muove la vita, procede per traumi, nascosti, ferite mai chiuse.
“Forse capisco perché non ho mai avuto risposta: perché mai la mia vita dovrebbe essere più lunga o più importante di quella di un semplice filo d’erba?”
Stordito, ecco come mi sento alla fine di queste cento pagine di Ivano Ciminari. La sua è una scrittura potente, irriverente e brutale.
Ho conosciuto questo “assassino” come vincitore del primo concorso“I racconti della Divina”, l’ho sentito parlare e ho scavato nel profondo la sua superiore umanità che straborda da un progetto superlativo come #diversamenteliberi .
Il richiamo magnetico alla conoscenza delle sue opere è stata una molla che con questa lettura inizia a comprimersi ancora di più. Ne voglio ancora mi ripeto, cercando di uscire fuori dallo stordimento che mi tiene per aria, alla ricerca di parole che possano rendere dignità e onore ad una penna che si fa Diogene, e che riesce a raccontarsi e raccontare la miseria di cui siamo fatti.
Assassino! Egli è un assassino di luoghi comuni, feroce assassino delle ipocrisie più immanenti che ci rendono schiavi di manipolazioni “globali”, quelle più subdole, imbrogli di cui mi sento vittima “consapevole” e troppo spesso anche “compiacente”.
Questa è la verità, compiaciuto di vivere un tempo moderno, questo testo mi spoglia e mi frusta l’orgoglio di riscoprire l’antico, l’ovvio sentiero di scorticare il passato, rimosso per superficialità immatura di un essere vivente inutile a se stesso e agli altri fuori da un corpo vetrificato di paure.
Questa lettura mi ha liberato dalla vergogna di essere ignorante in quanto è l’ignoranza la base essenziale come il bianco l’insieme dei colori di una tela vuota che brama riempimento. Non so bene ancora se maledire o benedire questa scoperta di fame e sete che gli devo, non so bene ancora se il ghiaccio rende immortale fermando la vita o diversamente la scatena, questa vita tenuta viva dall’immondo istinto di sopravvivenza. Proprio così scopro un senso per Giuda, un senso per il diavolo che ci urla dentro, il significato profondo della donna.
Assassino e adulatore, saltimbanco e profeta, incantatore che dal niente inventa il tutto, blasfemo e devoto:
“… credo che Giuda e Cristo siano stati la stessa carne, accumunata dall’estremo sacrificio perché tutto si compisse.”
Dall’inizio all’ultimo giro di giostra le spine diventano fiori e i fiori diventano spine, e l’orrore, proprio in queste ore dell’ennesima sciagura come quella di Crotone, diventano narrazione e presagio, sentenza irrisolta, condanna perpetua:
“Quanti sogni di libertà sono stati sepolti in quell’immenso sepolcro che è diventato il nostro mare.”
“Uomini orrendi si pasturano del razzismo che hanno alimentato, incassando la connivenza di rane travestite da donna, di puttanieri in doppio petto, di troie siliconate che profetizzano oasi di felicità e di benessere, mentre la tragedia della guerra, del radicalismo e della fame gonfia le nostre acque di vittime sacrificali”
Sono solo cento pagine che da un mese non riesco ancora a digerire perché in fondo parlano di me e non potrei che liberarmene se non vomitando un me stesso che rifiuto e condanno in eterno nell’acido rovente di succhi gastrici senza pietà, di uno stomaco ingordo di altro ancora. Potrei con le classiche due dita in gola vomitare e gettare via la fatica, invece mi rifiuto perché di altro ancora dovrò nutrirmi, di altri vetri taglienti dovrò soffrire, di altre opere tue e di altri assassini, dovrò ingozzarmi fino allo stordimento più totale, e così forse, veramente imparare a vivere.
Lo so bene che non rendo giustizia alla varietà degli umori e degli argomenti trattati nelle quindici storie raccontate da Ivano Ciminari, so bene che faccio torto all’eterogenesi dei fini del suo Diogene vetrificato, però pur nell’indecisione della scelta, se proprio devo scegliere, come vile giudice supremo, mando al rogo l’eretico e lo destino al sacro fuoco della gloria per aver scritto “L’eccidio dell’io maschio”.
È un capitolo che ho fatto leggere alla mia “coinquilina”, sta ancora ridendo di gusto e per questo non avrei incertezze sulla condanna: ardebit in conspectu populi.
Bruci sotto gli occhi del popolo per aver attentato alla superiorità del dio maschio. Però poi leggi “La puttana che sposò l’imperatore” e allora non posso che sospendere ogni irriverenza, inchinarmi e chiedere perdono.
La scrittura è un’attività fondamentale per l’umanità fin dalla notte dei tempi, e nel XXI secolo la sua importanza è diventata ancora più evidente. Oggi, la scrittura è al centro della nostra cultura in modi che i nostri antenati non avrebbero mai potuto immaginare. Attraverso i libri, gli articoli, i blog, i post sui social media e le email, la scrittura ci consente di comunicare, esplorare, imparare e connetterci con il mondo intorno a noi.
“La Scrittura è un atto solitario che richiede coraggio, visione e dedizione.” – Paulo Coelho
“Scrivere è facile. Tutto quello che devi fare è sederti a una macchina da scrivere e sanguinare.” – Ernest Hemingway
“Scrivere è come scavare un pozzo profondo nell’anima e recuperare la vita che vi si trova.” – Isabel Allende
“Scrivere è un modo di parlare senza essere interrotti.” – Jules Renard
“La scrittura è un’immersione in un mondo di possibilità.” – Joan Didion
“La scrittura è la pittura della voce.” – Voltaire
“La scrittura è la chiave per scoprire la verità nascosta dentro di noi.” – Ray Bradbury
“La scrittura è un modo di tenere viva la vita, di congelare esperienze che altrimenti svanirebbero con il tempo.” – Anaïs Nin
“Scrivere è una questione di disciplina. Ci vuole molta più disciplina per scrivere un libro di quanto ne richieda qualsiasi altro lavoro.” – Toni Morrison
“La scrittura è un atto di coraggio.” – James Baldwin
“Scrivere è una forma di terapia.” – Graham Greene
“La scrittura è un lavoro che richiede coraggio e pazienza.” – Gabriel Garcia Marquez
“Scrivere è un modo per dare forma alle proprie emozioni e idee.” – Haruki Murakami
“Scrivere è il modo più intenso di vivere la vita che conosco.” – Nadine Gordimer
“Scrivere è il modo in cui mantengo un registro dell’umanità.” – Margaret Atwood
“Scrivere è un modo di imparare a conoscere se stessi.” – William Zinsser
“La scrittura è un atto di coraggio perché richiede di mettere in gioco se stessi.” – Anne Frank
“Scrivere è un’arte che richiede impegno e dedizione costante.” – Stephen King
“Scrivere è un atto di resistenza contro l’oblio.” – Milan Kundera
Come sostiene Paulo Coelho, la scrittura è un atto solitario che richiede coraggio, visione e dedizione. Scrivere può essere un processo difficile e impegnativo, ma attraverso di essa siamo in grado di esprimere ciò che altrimenti potrebbe rimanere inespresso. Come afferma Isabel Allende, la scrittura ci consente di scavare un pozzo profondo nell’anima e recuperare la vita che vi si trova. È attraverso la scrittura che possiamo esplorare i nostri pensieri più profondi e le nostre emozioni più intense.
Scrivere può anche essere un’esperienza terapeutica, come afferma Graham Greene. Attraverso la scrittura, possiamo dare forma alle nostre emozioni e idee, e trovare un senso di pace e consapevolezza. Scrivere può anche essere un modo per imparare a conoscere noi stessi, come afferma William Zinsser. Attraverso la scrittura, possiamo esplorare la nostra identità e le nostre esperienze, e trovare un senso di chi siamo.
Ma la scrittura non è solo un’attività individuale. Come afferma James Baldwin, la scrittura è un atto di coraggio. Attraverso la scrittura, possiamo dare voce alle nostre idee e alle nostre opinioni, e sfidare le convenzioni sociali e culturali. La scrittura ci consente di condividere le nostre storie e le nostre esperienze, di connetterci con gli altri e di creare comunità.
La scrittura è anche un atto di resistenza contro l’oblio, come afferma Milan Kundera. Attraverso la scrittura, possiamo preservare le nostre storie e le nostre tradizioni, e creare un patrimonio culturale per le generazioni future. Scrivere ci consente di esplorare le nostre storie collettive e di dare voce alle nostre identità culturali.
La scrittura è anche un’arte che richiede impegno e dedizione costante, come sostiene Stephen King. Scrivere non è facile, ma attraverso la pratica e la perseveranza, possiamo sviluppare la nostra abilità e la nostra voce unica. La scrittura ci consente di esprimere la nostra creatività e di esplorare nuovi mondi di immaginazione.
Come afferma Margaret Atwood, la scrittura è anche un modo per mantenere un registro dell’umanità. Attraverso la scrittura, possiamo registrare i momenti importanti della nostra storia, le esperienze umane e le sfide che abbiamo affrontato. La scrittura ci consente di documentare il nostro mondo e la nostra esperienza di esso.
Nel XXI secolo, la scrittura ha acquisito una nuova importanza grazie alle tecnologie digitali e ai social media. Oggi, la scrittura è al centro delle nostre interazioni sociali e professionali. Come afferma J.K. Rowling, la scrittura ci consente di creare mondi immaginari e di connetterci con gli altri attraverso la narrazione di storie. Attraverso i social media, la scrittura ci consente di condividere le nostre esperienze e di connetterci con gli altri in modi che sarebbero stati impossibili solo pochi anni fa.
Tuttavia, la scrittura digitale ha anche sollevato nuove sfide e questioni. Come afferma Margaret Atwood, la scrittura digitale può essere vulnerabile ai cambiamenti tecnologici, e le opere digitali possono essere facilmente cancellate o perdute. Inoltre, la scrittura digitale può essere manipolata e diffusa in modi che possono essere dannosi per gli individui e la società.
La scrittura ha anche un profondo significato filosofico e sociologico. Come afferma Hannah Arendt, la scrittura è una forma di azione, in quanto ci permette di creare qualcosa di nuovo e di influire sul mondo intorno a noi. In questo senso, la scrittura non è solo un atto di espressione personale, ma anche un modo per partecipare alla sfera pubblica e contribuire alla formazione della società.
Inoltre, la scrittura è stata sempre considerata una forma di potere, in quanto ci permette di influenzare le opinioni degli altri e di creare una certa immagine di noi stessi. Come afferma Michel Foucault, la scrittura è un modo per creare e mantenere le relazioni di potere nella società. La scrittura ci permette di controllare il discorso e di creare un certo ordine sociale, e quindi è stata spesso utilizzata dalle élite per mantenere il loro potere.
Tuttavia, la scrittura può anche essere un modo per sfidare l’autorità e la società esistente. Come afferma Bell Hooks, la scrittura può essere un modo per le persone emarginate di riaffermare la propria identità e di creare un senso di comunità. Attraverso la scrittura, le persone possono condividere le loro storie e le loro esperienze, e creare un dialogo che sfida le norme e i pregiudizi esistenti.
In conclusione, la scrittura non è solo un atto personale di espressione, ma anche una forma di azione e di potere nella società.
Nel XXI secolo, la scrittura è diventata ancora più importante grazie alle tecnologie digitali e ai social media, che ci permettono di connetterci con gli altri in modi nuovi e innovativi. Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli delle sfide e delle questioni sollevate dalla scrittura digitale, e impegnarci a utilizzare la scrittura in modo responsabile e consapevole. Come afferma Voltaire, la scrittura è la pittura della voce, e nel XXI secolo, la nostra voce può avere un impatto più grande e globale che mai.
ChatGPT è un trip troppo tripposo 🙂 … io e lui, o lei, per S. Valentino abbiamo deciso di organizzare un evento sull’inconciliabilità tra capitalismo e amore, ecco i protagonisti con i titoli degli interventi:
1 – Simone de Beauvoir: “La schiavitù dell’amore nella società capitalista”
2 – Friedrich Nietzsche: “L’amore e la sua distorsione nel capitalismo”
3 – Karl Marx: “L’amore nell’era del capitalismo”
4 – Martin Buber: “Percezione e relazioni amorose”
5 – Jacques Derrida: “Linguaggio e relazioni amorose”
6 – Gloria Anzaldúa: “Relazioni amorose e dinamiche di genere, razza e classe”
7 – Søren Kierkegaard: “L’amore e il capitalismo come forze opposte”
8 – Max Weber: “Il capitalismo e la trasformazione dei valori amorosi”
9 – Jean-Paul Sartre: “Le relazioni amorose e la libertà”
10 – Erich Fromm: “L’amore come attitudine sviluppabile”
…. ed ecco i paragrafi di riflessione:
1 – Simone de Beauvoir ha visto la società capitalista come una fonte di oppressione per le donne e le relazioni amorose. Nella sua opera “Il Secondo Sesso”, ha sostenuto che il capitalismo ha creato un’immagine idealizzata dell’amore romantico che viene usata per controllare le donne e impedir loro di raggiungere la libertà.
2 – Friedrich Nietzsche ha criticato il capitalismo per la sua tendenza a distorcere i valori morali e le relazioni umane, comprese quelle amorose. Ha sostenuto che il capitalismo ha ridotto l’amore a un mero scambio di beni materiali, privando la gente della sua profondità e significato.
3 – Karl Marx ha visto il capitalismo come un sistema che distrugge i legami sociali e le relazioni umane, comprese quelle amorose. Ha sostenuto che il capitalismo ha ridotto la vita umana a una mera questione di produzione e scambio di beni, distruggendo il significato e la dignità dell’amore e delle relazioni umane.
4 – Martin Buber ha sostenuto che le relazioni amorose sono influenzate dalla percezione che la gente ha del mondo e degli altri. Nella sua opera “Io e Tu”, Buber ha affermato che il capitalismo promuove una percezione individualista del mondo che ostacola lo sviluppo di relazioni amorose autentiche e significative.
5 – Jacques Derrida ha affermato che il linguaggio gioca un ruolo importante nelle relazioni amorose. Ha sostenuto che il capitalismo promuove un linguaggio ridotto e riduttivo che impedisce la formazione di relazioni amorose autentiche e significative.
6 – Gloria Anzaldúa ha sostenuto che le relazioni amorose sono influenzate dalle dinamiche di genere, razza e classe. Ha affermato che il capitalismo crea barriere per le relazioni amorose tra persone di diverse classi sociali, razze e generi.
7 – Søren Kierkegaard ha sostenuto che l’amore e il capitalismo sono forze opposte e incompatibili. Ha sostenuto che il capitalismo riduce l’amore a una mera transazione economica, privando la gente del suo significato e profondità.
8 – Max Weber: Max Weber ha sostenuto che il capitalismo ha trasformato i valori amorosi, riducendo l’amore a un mero scambio di beni materiali e trasformando le relazioni umane in relazioni puramente economiche. Ha sostenuto che il capitalismo ha creato una società in cui le relazioni sono governate da calcoli egoistici, privando l’amore della sua umanità e spiritualità.
9 – Hannah Arendt: Hannah Arendt ha sostenuto che il capitalismo ha creato una società in cui gli individui sono visti come merci e le relazioni umane sono ridotte a semplici transazioni economiche. Ha sostenuto che il capitalismo ostacola lo sviluppo di relazioni amorose autentiche e significative, distruggendo la natura umana dell’amore.
10 – Jean-Paul Sartre: Jean-Paul Sartre ha sostenuto che il capitalismo crea una società in cui gli individui sono visti come merci e le relazioni umane sono ridotte a semplici transazioni economiche. Ha sostenuto che il capitalismo ostacola lo sviluppo di relazioni amorose autentiche e significative, privando l’amore della sua umanità e spiritualità.
… a questo punto gli ho detto: «Ora per ogni titolo e per ogni informazione che hai elencato consigliami un’opera dell’autore che hai scelto.»
e lui o lei …
«Certo, con piacere! Ecco un elenco di opere consigliate per ogni autore:»
1 – Friedrich Nietzsche: “Al di là del Bene e del Male”, “Così parlò Zarathustra”, “La gaia scienza”.
2 – Martin Heidegger: “Essere e Tempo”, “Lettera sull’umanismo”.
3 – Simone de Beauvoir: “Il Secondo Sesso”, “L’età della discernibilità”.
4 – Michel Foucault: “Sorvegliare e Punire”, “Storia della follia nell’era classica”.
5 – Jacques Lacan: “La Semantica del Sé”, “Le Formazioni dell’Inconscio”.
6 – Theodor Adorno: “Minima Moralia”, “Dialettica dell’Illuminismo”.
7 – Erich Fromm: “L’arte di amare”, “Il cuore dell’uomo”.
8 – Karl Marx: “Il Capitale”, “Manifesto del Partito Comunista”.
9 – Hannah Arendt: “La Vita delle Nazioni”, “Eichmann a Gerusalemme”.
10 – Jean-Paul Sartre: “L’Essere e il Nulla”, “La Nausea”.
Queste opere rappresentano alcuni dei lavori più significativi e influenti di ogni autore e possono offrire una panoramica approfondita della loro filosofia e pensiero. Ti consiglio di approfondire la tua conoscenza di ognuno di loro, anche leggendo altre opere e fonti.
L’attesa è uno strazio. Nel breve termine un malessere superabile ma a lungo andare è atroce agonia. Basta! Smetto di resistere. La lama nella mia mano non aspettava altro, entra e taglia. Una per ogni ora, mi dico, è una vendetta necessaria.
Lei ancora non torna, capirà.
Tentatrice, brilla nel soffice groviglio. Qui e là come punti di luce l’uvetta passa mi fissa e m’attrae, luminosa dal calore che profuma l’aria di canditi colorati, qui e là incastrati come gemme grezze nella pasta cavernosa di pane dolce.
Non resisto: al tepore del camino nero marquinia, una seconda e poi una terza fetta di pura delizia, un reato di lesa maestà, reiterato, un peccato senza vergogna.
panettone
Gusto ormai senza più fame, con lo sfregio lussurioso di una promessa ormai delusa. S’incazzerà ma poi faremo pace. Non conosco vendetta più dolce per questa assurda attesa. Ingordo e avvinto, mi abbandono alla libidine del palato mentre la crema al limoncello osanna l’astuzia artigianale di quel diavolo di pasticciere amalfitano.
Oggi è il 24 dicembre 2025, aspetto la mia donna e l’attesa m’affligge ancora di più, pieno come sono di sensi di colpa. Non mangio per fame ma per riempire il vuoto dentro che grida quando lei non è qui con me. Certo che capirà.
Io sono a Milano, tormentato, forse solo impaziente. Nervoso, molto nervoso: l’attesa mi snerva. Mi serve ordine e disciplina. Vivrei di scrittura se potessi, ma questo che te lo dico a fare? È un luogo tanto comune da sembrare uno schiaffo alla banalità. Niente musica né TV. Solo nel silenzio sento distinta la mia voce. Ricerco. Rivedo e catalogo vecchi racconti nel PC mentre aspetto Maria Teresa. È da una amica a pezzi che nella videochiamata piangeva come una disperata, la mia marziana è corsa da lei.
“E non osare mangiare il panettone senza di me”ha urlato col suo minaccioso accento tedesco e gli anfibi lucenti calzati di corsa, stonati sotto il lungo Carley Parka, un po’ retrò ma candido come la neve.
Queste amiche che cadono a pezzi la Vigilia di Natale mi hanno rotto i coglioni ma che posso farci? MarTe è così, ti ripara l’anima, scova lacerazioni, sensi di colpa, incrostazioni che fanno male, cura concrezioni di tormenti, avvince il meglio che hai dentro, incolla i pezzi sospesi e ti rimette in moto. Da e toglie a suo piacimento, sa essere crudele come nessuno, io l’adoro: la sua assenza mi ferma il respiro.
Devi sapere che Maria Teresa parla cinque lingue e lavora per una multinazionale che pubblica a milioni pagine patinate con gente stupenda stampata sopra, insomma moda, trucchi e profumi, essenze d’effimero, meraviglie superflue, droghe di bellezza. Quando le dico queste cose si incazza di brutto. È una manager della cosmesi, crea bisogni con il richiamo ancestrale alla perfezione di corpi e volti magnifici: manipola immagini e parole, raffina illusioni, estrae luce da nebbie di lacca. Lavora su foto e parole, la sua è magia editoriale. La pagano bene.
Cosmetica la strega, sei da bruciare viva sul rogo in piazza Duomo, questo le dico quando litighiamo, e lei mi avvampa e mi spegne chiamandomi misero pezzente. Iniziano grugniti e silenzi, sberleffi e ripicche infantili. Poi dalla discussione violenta morta nella cenere del silenzio, al primo contatto della pelle ripartono coccole e carezze. E così la morsa della passione ci avvolge fino a sfinirci, fino all’ultima goccia di adrenalina assaporata come un nettare divino di sfrenato piacere, il cuore a mille, la carne avvinghiata che vibra, il punto di non ritorno desiderato e messo in attesa di lei, di me, di noi, fino al grande salto nel mare calmo della pace dei sensi, della carne, della mente, dell’anima che torna a dividersi estasiata.
Magari porta a casa l’amica, quella devastata dalla solitudine, la russa abbandonata in albergo da un riccone sposato e traditore. L’aiutiamo a superare la crisi sparandoci l’un l’altra una notte di carezze a tre, coccole e carezze come adolescenti affamati di conoscenza. Una santa e benedetta notte di Natale, sarebbe.
Ho visto le bozze della campagna pubblicitaria che sarà lanciata su uno dei prossimi numeri di Vogue, la modella devastata dal tormento è una patanona stratosferica.
Vedi peccato nell’immaginarsi? Io qualche volta sento vergognose eccitazioni. È un viaggio mentale sucido, l’erezione. Potrei scrivere senza fantasia ma sarebbe solo sudiciume. Comunque Maria Teresa non lo farebbe mai, un triangolo intendo. La mia tirolese trapiantata in questa metropoli senza confini, mi evira il gioiello, altro che.
MarTe è gelosa. Ma che dico, gelosissima.
“Se mi gira ti faccio eunuco di compagnia” e quando me lo dice non so mai se scherza o fa sul serio. È per questo che il romanzo su cui lavoro da tre anni non le piace, è gelosa dei miei personaggi donna, e non ti dico del rapporto con il mio editor, donna anche lei per volontà imposta dall’editore. Dice, l’editore, che sono troppo uomo per scrivere di donne e ancora non ho capito se in tutta questa strana storia il vero geloso sia lui.
Ma come fai a desiderare chi non ti desidera? Gli direi, ma resto vago come mi ha consigliato MarTe.
Questo romanzo finirà nella spazzatura, l’intreccio non funziona. Ne ridiamo insieme io e Maria Teresa, lei i pezzi me li fa brillare, quelli dell’anima dico, e dai concentrati ti prego: provo a desiderare negli occhi di te che leggi, tracce di libidine, bagliori d’interesse tra le ciglia che si chiudono in segno di noia.
Come faccio a fermare le tue mani dal buttare via queste pagine?
Superstizione? Una macumba, un saggio sulla cura inguinale dei linfonodi?
Un manuale per la felicità. Sai che palle.
Chiedi come ho conosciuta la mia donna? Beh, nella confusione digitale del mio passato ho trovato un raccontino che fa al caso nostro.
Era una notte buia e tempestosa… No dai, scherzo. Dammi una chance.
— ∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞ —
Agosto 2022. Il ventilatore.
D’estate quando al buio le stelle brillano, cuori solitari attendono storie, sospese in pensieri repressi, storie trattenute, stracciate da parole non dette.
Un cuore a riposo batte tranquillo, non sa che all’improvviso può impazzire.
«Pino ma che fai? Te ne vai? Ci lasci proprio sul più bello?»
Chiamato in causa mi guardo intorno con la paura di lasciare in giro qualche traccia di me, prima di sparire come ha fatto qualche ora fa, quella palla di sole arancione all’orizzonte.
Nell’aria i profumi del Cilento, intorno a noi la spiaggia tra il mare che sussurra e la pineta muta, e al centro un magico falò con nuove amiche arrivate nel pomeriggio alla ricerca di affinità elettive. Illuminare la notte d’allegria, inebriarci di ricordi e storie esagerate fino all’alba, questo è il programma.
«Lo so, è un peccato ma devo andare…» dico mentre la rossa mi guarda perplessa.
«Un fulmine ha colpito una fabbrica a Cuba e una nube tossica arriva all’Avana. Devo scrivere un pezzo per la TV, andiamo in onda domani mattina…» dico per dire amen alla sequela di scuse lamentose per stoppare il fatevi i cazzi vostri che mi passa per la mente. Non voglio andarmene ma devo. Domani è lunedì, uno di quei giorni che vorresti cancellare dal calendario. Lascio gli amici a divertirsi: una grande stronzata.
Ogni agosto tornano a nutrire le nostre antiche radici abbarbicate nella roccia selvaggia che ci abbraccia tutt’intorno da Sapri a Paestum. Amici d’infanzia, compagni inseparabili nell’adolescenza più cruda, a correre appresso a sogni di cuoio di un pallone amaro, ad ammazzarci su campi polverosi, privati dell’erba dei campioni, nel fango d’inverno e su ciottoli di pietre taglienti in primavera. Migrati al nord li canzono ogni volta: lavoro grigio, contributi, malattia e ferie pagate. A volte li offendo con rabbia per aver svenduto la libertà ad un cartellino da timbrare, piegati al controllo, ad una vita regolare da subordinati al nord. Ogni agosto ritornano e si vendicano. È finita che loro fanno i signori in vacanza e io lo schiavo a ore in una TV locale di Napoli.
Dodici mesi all’anno senza tredicesima, ad ore senza ferie pagate, e nemmeno un cartellino da timbrare, perché quello è la prova di un lavoro dipendente mica il gadget di un professionista a partita iva. Il tempo indeterminato è diventato il mio: indeterminato il reddito, indeterminato l’orario dell’impegno e del riposo, indeterminato il ritmo, stonate le voci che mi accompagnano, nessuna melodia, questa è la verità.
Il perdente sono io, però sono libero, sì libero ma di che?
Fluido e flessibile, riproduco precarietà, cannibale di me stesso, mi consumo.
In questa favolosa sera d’estate, se i miei amici sapessero del mio tormento mi legherebbero ad un albero. Mi vogliono bene, questo lo so. Bendato mi farebbero strusciare le parti intime e baciare sulla bocca dalle ragazze, è un gioco atroce: il malcapitato resta legato finché non riconosce chi lo tocca. È una variante sexy dello schiaffo del soldato. Estate dopo estate, ha sempre funzionato nel determinare una comitiva vincente: la serata si infiamma quando è una delle ragazze ad offrirsi volontaria a farsi legare all’albero. È dalla sudata maturità al “Leonardo da Vinci” che perfezioniamo la nostra strategia di conquista con uno scenario di battaglia ormai definitivo: la foce del Mingardo. So cosa mi perdo, e se i miei amici sapessero del mio tormento, salterebbero ogni tattica programmata e mi legherebbero subito mani e piedi per trattenermi tutta la notte. Mi vogliono bene e io a loro ne voglio più che a me.
Fuggendo dall’allegra comitiva un barlume di dignità mi nasconde: mostro orgoglioso il dovere che mi chiama. Devo andare. Guardo la rossa con gli occhiali da intellettuale come un cane bastonato. L’ho delusa, si chiama Maria Teresa, so poco o niente di lei. Mi osserva intristita mentre raccolgo lo zaino di corda posato nella sabbia dove finiscono i sassi.
Genny ridacchia: «Dai Pino, non fare questa figura di merda, le belle nordiche penseranno che…» un ghigno d’invidia mi sfregia la bocca e lo prendo a calci. A lui piace scegliere per primo la ragazza più carina per dormirci insieme il giorno dopo. È fatto così, è un leader, in fabbrica fa il sindacalista, si prende sempre il meglio per sé e per la sua squadra, è rappresentante e rappresentativo della deindustralizzazione che vince in questo paese.
Gennaro ride e strilla mentre subisce senza reagire:
«Sfigato, freelance e meridionale. Vai Giusè,vattenne e puortete a’pucundria cu te!»
Adesso ridono tutti, tranne lei che mi fa un occhiolino e mi manda un bacetto nell’aria. Per la verità nemmeno mi attraeva, chiusa, appartata, estranea alla baldoria della comitiva che giocava come adolescenti negli schizzi cristallini dell’Arco Naturale. Questo prima, poi intorno al fuoco, con la pizza, le birre e la chitarra, proprio quando i racconti delle nostre vite si aprivano alle curiosità più sfrenate, lei con una frase tagliente come una sciabola, mi aveva aperto in due e nel petto piantato un seme sconosciuto…
Molte ore dopo sono a casa e sento il desiderio di lei che mi cresce dentro, germoglia. Ripenso a lei e a come mi ha incantato, selvatica e selvaggia, con una battuta geniale e feroce, una mazzata tra capo e collo di un buffone smascherato nel fragore di una risata generale. L’ho delusa? Forse le sarebbe piaciuto venire via con me. Invece sono sparito come un pirla.
Dopo il tramonto, ormai al buio, raccontavo i miei sogni letterari, avventure di un’esistenza da romanzare, e avevo finito per dire che:“solo un robusto principio morale può impedirmi di uscire deciso per strada e mettermi metodicamente a gettare in terra il cappello alla gente, allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto”. Quando succede mi imbarco su una nave e riparto per terre straniere, avevo aggiunto. Nel mentre, compiaciuto della mia recita, con l’indice proteso alle luci di grosse barche a vela ancorate nella baia, in lontananza indicavo la vastità del Mediterraneo.
L’unica a non guardare era lei. Adagiata su pietre marine levigate dai millenni, mi fissava mentre dalla fronte alla bocca carnosa, una ciocca rossa ribelle le spaccava il viso di porcellana bianca.
“Attento a non finire come un pinocchio a cercare di uscire dal culo di una balena!”
La perfida luna piena, i riflessi ramati sul volto e quelle parole assassine mi avevano stregato: nessuno dei presenti aveva capito niente, solo lei che conosceva Ismaele, Moby Dick e la vergogna da bugiardo che mi bruciava dentro. Così stordito sono scappato.
Adesso questo dannato ventilatore in faccia che gira a stento me ne guasta il ricordo. Tre ore di auto proletaria per tornare in questo schifo di monolocale striminzito senza aria condizionata e seicento euro al mese di affitto più spese.
Devo consegnare tre cartelle ed è la notte più calda del secolo. È un’occasione unica anche se per la verità non è la prima volta che mi chiedono con urgenza un pezzo, è un extra che mi fa comodo, mi usano come tappabuchi, lo so bene. Tra poco devo essere presente in studio, mi pagano come attrezzista a ore mica come giornalista a cartella. Poi aiuto tutti, sono un jolly, un lavoratore quando serve, aiuto elettricista, aiuto cameraman, aiuto regia, aiuto tecnico delle luci o del suono, aiuto archivista e una volta mi hanno messo anche una pezza e una scopa in mano che piangevo miseria: quelli della produzione mossi a pietà per la mia condizione mi offrivano un ruolo scoperto, a ore ovvio mica a tempo indeterminato. Nemmeno pubblicista sono diventato. Tendo ad evadere ogni formalità, sono io il colpevole, un criminale, nessuno mi costringe, e se mi faccio male, anche quella colpa è mia. È un mondo competitivo quello dello show business lo comprendo, tuttavia, onestamente, a dirla tutta la verità, essere un bravo jolly mi conviene. Con quello che costano come potrei mai permettermi concerti allo stadio o al San Carlo, e le commedie? Trianon, Mercadante, Ridotto, Augusteo, Bellini, Sannazzaro, tappo buchi finanche nel teatro di Eduardo, il San Ferdinando. È una nave che naviga e io mi sento utile, tappo buchi.
Sto delirando, il caldo. È la notte più afosa del secolo per chi respira aria incondizionata in città, immobile, inquinata di squallore, in un ritaglio di mansarda dei quartieri spagnoli a due passi dal palazzo reale di piazza Plebiscito.
Sfarzo e povertà abbracciati come gemelli siamesi arresi all’indecenza del progresso.
Il ventilatore gira, ma è usurato, fa uno strano rumore, gira piano. La potenza solo un ricordo. Fragola. Penso al mio ghiacciolo preferito, confezione da sei per un euro e novantanove. Sulla strada del ritorno da Palinuro ne ho preso due scatole in un discount.
Il ventilatore grippa e si ferma. Io no. Scavo nel cassetto dei miracoli, ne trovo uno mini, cinese, sembra una margherita. Lo collego alla USB del PC, e torno a picchiare sui tasti. Tra un pensiero e l’altro la posta elettronica, rispondo, apro i social, urca mi affogano di messaggi e che palle…
All’improvviso il delirio. Allarmi impazziti scattano ovunque. Il suono delle sirene degli antifurti è allucinante, come un trapano mi devasta il cervello.
Il popolo non rispetta il sacrificio chiesto dal governo, quello di risparmiare energia perché siamo in guerra. Blackout totale. Alla finestra mostro il dito medio agli italiani che hanno scelto il condizionatore. Spreco, cripto valute, bagordi e luminarie?
Ben vi sta!
I ponti radio dei gestori telefonici reggono, hanno i generatori diesel, quelli sono furbi, il traffico dei dati nell’etere non si ferma, ogni giga è moneta contante.
Ho un altro computer, il portatile per le emergenze che lascio sempre a casa, e quindi non mi fermo. La corrente elettrica non torna, la batteria svuotata dal ventilatore USB si esaurisce troppo presto. Stanco mi stendo un po’ e un po’ riposo.
Vampire nere sono entrate dalla finestra. Prendo la racchetta ammazza zanzare e mi preparo al massacro elettrico, premo il pulsante, niente, scarica anche quella.
Non so come ma dormo tre ore. La corrente non è tornata. La crisi sembra più seria del solito. Niente TV, niente PC e cellulare morto. Stanco di tutto dormo ancora.
Mi sveglio tutto bagnato di sudore peggio di prima, potevo vedere sorgere il sole con Maria Teresa abbracciata a me, pirla che sono. Metto i piedi per terra e sul letto saltano schizzi d’acqua, sono allagato. La porta del frigo è aperta, ogni luce spenta, sciolti i congelati ormai mollicci. È la notte più bollente da secoli. Avrò mangiato un ghiacciolo nel sonno. Ora ricordo: strusciavo fragole su seni generosi mordicchiando freschi capezzoli turgidi. Cazzo i frigoriferi sono il problema! Quante tonnellate di cibo si perdono senza energia? È una buona idea per un articolo, venti euro fanno sempre comodo, entropia. Vado in bagno e non c’è acqua, senza corrente le pompe si fermano. Mi stendo ancora con sulla faccia l’asciugamano impregnato dell’acqua che ho raccolto dal pavimento, era ghiaccio e sa di pesce che inizia a puzzare. Questa vita è una merda. Ricordo lei che nemmeno conosco e che forse potrebbe desiderarmi così come sono. Dal buio l’alba tra i palazzi m’illumina di lei.
Il serbatoio della vecchia Panda è vuoto. Dove vado?
Penso al ventilatore come l’amore, frenato e senza energia non gira…
— ∞∞ EPILOGO ∞∞ —
Sono passati tre anni da quella notte, nel tempo libero lavoro ancora al mio primo romanzo che a Maria Teresa non piace. Però mi aiuta lo stesso, sapessi quante discussioni e quante risate. Sarà una bomba. È stata lei a trovarmi un editore che, devo dire la verità, sta investendo molto su di me anche se rompe in continuazione le palle, mi ha anche cambiato tre editor per farmi contento, il debito che ha con Maria Teresa deve essere enorme.
La pace in Europa è tornata, così come i russi a sperperare rubli per il mondo.
Vuoi sapere cosa è successo dopo quella favolosa notte d’estate?
Per mesi tra noi ci siamo scambiati chat sempre più intriganti. A Pasqua mi ha invitato a casa sua. Abbiamo verificato che il colpo di fulmine bidirezionale avesse basi solide nella fisica dei nostri corpi. Ti risparmio dettagli e scintille. Torno a Napoli. A giugno mi chiama divertita. Ti ho trovato un lavoro pagato bene a tempo indeterminato, puoi svoltare mi dice. Il settore comunicazione di una multinazionale del farmaco ha bisogno di uno come te. Dai molla tutto e vieni a vivere con me nell’attico di via Alessandro Manzoni. La camera per gli ospiti è tua, non farti problemi, se ti stufi di me o io di te, risolviamo.
“Sei sbruffone e brigante, una perla verace che voglio tutta per me.”
Proprio così mi ha detto, e lo diceva ridendo, sicura che io l’avrei mandata affanculo. Invece l’ho freddata, Maria non sapeva, da gennaio non pagavo più l’affitto, debiti con tutti risparmiavo anche il caffè. La vecchia Panda l’ho data al primo che si è pagato il passaggio di proprietà. Stringevo la cinghia, vendevo il vendibile, regalavo il regalabile, scappavo dai creditori, moroso e latitante. Il piano era perfetto. Lei non sapeva, ero già pazzo di lei.
Adesso sono tre anni che stiamo insieme e del pacchetto adoro anche la suocera che vive in Austria, ci siamo conosciuti in un incontro spacciato per casuale al Caffè Sacher di Innsbruck. Litigano sempre le due ma sono complici, io lo so. Anna lavora nel palazzo imperiale, la residenza estiva di Maria Teresa d’Asburgo, una donna terribile che tra l’altro nel Settecento fece sbocciare il Teatro alla Scala, oggi a due passi da dove viviamo io e MarTe quì a Milano. Anna, mia suocera, pare sia erede di sangue blu. Bastarda ma nobile. Lei ci tiene molto e dice che ha le prove, pare sia discendente di una dama al servizio di uno dei figli dell’imperatrice. L’adoro anche per il fatto che vuole convincere la figlia a sposarmi, dice che non l’ha mai vista così felice. MarTe temporeggia. Aspetta il mio primo romanzo, ma è una scusa, libertà e possessione ci legano, è un matrimonio tutto nostro, un patto non scritto sempre verde.
Cosa dire, con Maria Teresa ogni momento è un’avventura, attimi di spine e petali di rosa, barocca e gotica, a punte e curve, con sterzate contro mano e ripartenze furiose, a tratti regale, è una vita viva, teatrale e noi insieme un copione d’autore.
Il campanello suona frenetico. Rumore di chiavi e la porta che si apre.
È finalmente tornata da me.
Una folata gelida entra con lei. Dall’ingresso la sua voce in festa mi sballa:
«Pinuccio sei presentabile? Anastasia ha portato i biscotti prjaniki, passa il Natale con noi, tira fuori il limoncello e gli struffoli di mammà…»
`«Oh Gesù, Giusepp, Sant’Anna e Maria, pregate stanotte per l’anima mia!»
Sono a Milano e aspettando Maria lavoro su vecchi racconti. Lei è da un’amica a pezzi che piangeva come una disperata. Non osare mangiare il panettone senza di me, mi ha urlato mentre usciva.
Queste amiche che cadono a pezzi alla Vigilia di Natale mi hanno rotto i coglioni ma che posso farci? Maria è così, ripara anime sconquassate, scova incrostazioni, lacerazioni, sensi di colpa, cura concrezioni di tormenti, incolla pezzi sospesi e li rimette in moto, io l’adoro.
Devi sapere che Maria parla cinque lingue e lavora per una multinazionale che pubblica pagine patinate con gente stupenda stampata sopra, insomma moda, trucchi e profumi, l’economia trionfale del superfluo necessario. È una manager della cosmesi, crea bisogni con il richiamo ancestrale alla perfezione di corpi e volti magnifici: manipola immagini e parole, raffina illusioni, estrae luce da nebbie di lacca.
Magari torna con l’amica e ci spariamo una notte di carezze a tre, coccole e carezze. Ho visto le foto che appariranno in un prossimo numero di Vogue, la modella in crisi è una patanona stratosferica.
Vedi peccato nell’immaginarsi? Io qualche volta vergognose eccitazioni. È un viaggio mentale sucido, l’erezione. Potrei scrivere senza fantasia ma sarebbe solo sudiciume. Comunque Maria non lo farebbe mai, un triangolo intendo. La mia tirolese trapiantata in questa metropoli mi evira il gioiello, altro che. Maria i pezzi li fa brillare, quelli dell’anima dico, concentrati ti prego: desidero negli occhi di te che leggi, tracce di libidine, un bagliore tra le ciglia che si chiudono in segno di noia.
Come faccio a fermare le tue mani dal buttare via queste pagine? Superstizione? Una macumba, un saggio sulla cura inguinale dei linfonodi? Sai che palle.
Beh, vuoi altro di Maria? Bene, ti dirò di lei: nella confusione digitale del passato ho trovato un racconto che fa al caso nostro.
Era una notte buia e tempestosa… No dai, scherzo. Dammi una chance.
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D’estate quando al buio le stelle brillano, cuori solitari attendono storie, sospese in pensieri repressi, trattenute, stracciate da parole non dette.
«Pino ma che fai? Te ne vai? Ci lasci proprio sul più bello?»
Chiamato in causa mi guardo intorno con la paura di lasciare in giro qualche traccia di me prima di sparire come ha fatto la palla di sole arancione all’orizzonte un’ora fa.
Nell’aria i profumi del Cilento, intorno a noi la spiaggia tra il mare che sussurra e la pineta muta, e al centro un magico falò con nuove amiche arrivate nel pomeriggio alla ricerca di affinità elettive. Illuminare la notte d’allegria aspettando l’alba, questo è il programma.
«Lo so, è un peccato ma devo andare…» dico mentre la rossa mi guarda perplessa.
«Un fulmine ha colpito una fabbrica a Cuba e una nube tossica arriva all’Avana. Devo scrivere un pezzo per la TV, andiamo in onda domani mattina…» dico per dire amen alla sequela di scuse lamentose e stoppare il fatevi i cazzi vostri che mi passa per la mente. Non voglio andarmene ma devo. Lascio gli amici a divertirsi: una grande stronzata.
Ogni agosto tornano. Migrati al nord, li canzono: lavoro grigio, contributi, malattia e ferie pagate. È finita che loro fanno i signori in vacanza e io lo schiavo a ore in una TV locale di Napoli. Il perdente sono io, però sono libero, ma di che? Fluido e flessibile, riproduco precarietà, cannibale di me stesso, mi consumo.
Un barlume di dignità mi nasconde: mostro orgoglioso il dovere che mi chiama.
La guardo come un cane bastonato. L’ho delusa, si chiama Maria, so poco o niente di lei. Mi osserva intristita mentre raccolgo lo zaino di corda posato nella sabbia dove finiscono i sassi.
Genny ridacchia: «Dai Pino, non fare questa figura di merda, le nordiche penseranno che…» un ghigno d’invidia mi sfregia la bocca e lo prendo a calci, a lui piace scegliere per primo la ragazza più carina per dormirci insieme il giorno dopo.
Gennaro ride e strilla mentre subisce senza reagire:
«Sfigato, freelance e meridionale. Vai Giusè,vattenne e puortete a’pucundria cu te!»
Adesso ridono tutti, tranne lei che mi fa un occhiolino e mi manda un bacetto nell’aria. Per la verità nemmeno mi attraeva, chiusa, appartata, estranea alla baldoria della comitiva che giocava come adolescenti negli schizzi cristallini dell’Arco Naturale. Questo prima, poi intorno al fuoco, con la pizza, le birre e la chitarra, proprio quando i racconti delle nostre vite si aprivano alle curiosità più sfrenate, lei con una frase tagliente come una sciabola, mi aveva aperto in due e nel petto piantato un seme sconosciuto…
Molte ore dopo sono a casa e sento il desiderio di lei che mi cresce dentro, germoglia. L’ho delusa? Forse voleva venire via con me. Invece sono sparito come un pirla.
Arco Naturale di Palinuro
Dopo il tramonto, ormai al buio, raccontavo le avventure di un’esistenza da romanzare, e avevo finito per dire che:“solo un robusto principio morale può impedirmi di uscire deciso per strada e mettermi metodicamente a gettare in terra il cappello alla gente, allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto”. Quando succede mi imbarco su una nave e riparto per terre straniere, avevo aggiunto. Nel mentre, compiaciuto della recita, con l’indice proteso alle luci di grosse barche a vela in lontananza, indicavo il nostro porticciolo sul Mediterraneo.
L’unica a non guardare era lei. Adagiata su pietre marine levigate dai millenni, mi fissava mentre una ciocca rossa ribelle dalla fronte alla bocca carnosa le spaccava il viso di porcellana bianca.
“Attento a non finire come un pinocchio a cercare di uscire dal culo di una balena!”
La perfida luna piena, i riflessi ramati sul volto e quelle parole assassine mi avevano stregato: nessuno dei presenti aveva capito niente, solo lei.
Adesso questo ventilatore in faccia che gira a stento me ne guasta il ricordo. Tre ore di auto proletaria per tornare in questo schifo di monolocale striminzito senza aria condizionata e seicento euro al mese di affitto più spese. Devo consegnare tre cartelle ed è la notte più calda del secolo. Il ventilatore gira, ma è usurato, gira piano. La potenza solo un ricordo. Fragola. Penso al mio ghiacciolo preferito, confezione da sei per un euro e novantanove. Il ventilatore grippa e si ferma. Scavo nel cassetto, ne trovo uno mini, cinese. Lo collego alla USB del PC, e torno a picchiare sui tasti. Tra un pensiero e l’altro la posta, rispondo, apro i social, urca mi affogano e che palle…
All’improvviso il delirio. Allarmi impazziti scattano ovunque. Il suono delle sirene degli antifurti è allucinante, come un trapano mi devasta il cervello. Il popolo non rispetta il sacrificio chiesto dal governo, quello di risparmiare energia perché siamo in guerra. Blackout totale. Alla finestra mostro il dito medio agli italiani che hanno scelto il condizionatore. I ponti radio dei gestori telefonici reggono. Ho un altro computer, il portatile, e quindi non mi fermo. La corrente elettrica non torna, la batteria svuotata dal ventilatore USB si esaurisce troppo presto. Stanco mi stendo un po’ e un po’ riposo.
Vampire nere sono entrate dalla finestra. Prendo la racchetta ammazza zanzare e mi preparo al massacro elettrico, premo il pulsante, niente, scarica anche quella.
Non so come ma dormo tre ore. La corrente non è tornata. La crisi sembra più seria del solito. Niente TV, niente PC e cellulare morto. Stanco di tutto dormo ancora.
Mi sveglio tutto bagnato di sudore peggio di prima, potevo vedere sorgere il sole con Maria abbracciata a me, pirla che sono. Metto i piedi per terra e sul letto saltano schizzi d’acqua, sono allagato. La porta del frigo è aperta, ogni luce spenta, sciolti i congelati ormai mollicci. È la notte più bollente da secoli. Ora ricordo: strusciavo fragole su seni generosi mordicchiando freschi capezzoli turgidi. Cazzo i frigoriferi sono il problema! Quante tonnellate di cibo si perdono senza energia? È una buona idea per un articolo, venti euro fanno sempre comodo, entropia. Vado in bagno e non c’è acqua, senza corrente le pompe si fermano. Mi stendo ancora con sulla faccia l’asciugamano impregnato dell’acqua che ho raccolto dal pavimento, era ghiaccio e sa di pesce che inizia a puzzare. Questa vita è una merda. Ricordo lei che nemmeno conosco e che forse potrebbe desiderarmi così come sono.
Dal buio l’alba tra i palazzi m’illumina di lei.
Penso al ventilatore come l’amore, frenato e senza energia non gira.
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Sono passati oltre tre anni da questo racconto del nostro primo incontro, sono nella fredda e fastosa Milano e lavoro ancora al mio primo romanzo.
La pace in Europa è tornata, così come i russi a sperperare rubli per il mondo. Vuoi sapere cosa è successo dopo quella favolosa sera d’estate?
Per mesi tra noi chat sempre più intriganti. A Pasqua lei mi ha invitato a casa sua. Abbiamo verificato che il colpo di fulmine bidirezionale avesse basi solide nella fisica dei nostri corpi. Ti risparmio dettagli e scintille.
Torno a Napoli. A giugno mi chiama divertita. Ti ho trovato un lavoro pagato bene a tempo indeterminato, puoi svoltare mi dice. Dai molla tutto e vieni a vivere con me nel mio attico di via Alessandro Manzoni. La camera per gli ospiti è tua, non farti problemi, se ti stufi di me o io di te, risolviamo. Sei sbruffone e brigante, una perla verace che voglio tutta per me. Proprio così mi ha detto, e lo diceva ridendo, sicura che io l’avrei mandata affanculo. Invece Maria non sapeva, da gennaio non pagavo più l’affitto, moroso con tutti. Adesso adoro anche la suocera che sta in Austria, l’ho conosciuta al Caffè Sacher di Innsbruck, lavora nel palazzo imperiale, la residenza estiva di Maria Teresa d’Asburgo che tra l’altro nel Settecento fece sbocciare il Teatro alla Scala, oggi a due passi da noi.
Barocca e gotica, punte e curve, a tratti regale, con Maria la vita è viva, teatrale e noi insieme un copione d’autore.
Il campanello all’ingresso suona frenetico. È lei, finalmente tornata da me. Entra e la sua voce in festa mi sballa: «Pinuccio sei presentabile? Anastasia ha portato i biscotti prjaniki, passa il Natale con noi, tira fuori il limoncello e gli struffoli di mammà…»
Oh Gesù, Giusepp e Maria, pregate stanotte per l’anima mia.
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Con questo racconto ho partecipato al concorso I racconti dell’Avvento 2022 organizzato dall’Associazione Culturale Libri e Recensioni.com
Ecco l’esito del concorso: https://www.librierecensioni.it/concorsi/2022classifica-concorso.html – a questo link si possono scaricare gratuitamente tutti racconti che hanno partecipato. Alcuni sono molto belli e su tutti oltre a Il quattro al posto del sette del vincitore Alfredo Ricciardi, il mio preferito è Io, sulla panchina di Paolo Moretto.
Con il senno di poi… continuo a pensare al mio Pinuccio che mangerà il panettone a Milano nel 2025 insieme alla sua amata e alla bella russa, tornata ospite gradita.
Ecco la stessa storia con 18.000 battute invece che 10.000, presentato in un altro concorso: è una storia nata da un pensiero di quel tale che dice: “Chiamatemi Ismaele“, in quel romanzo del 1851 intitolato Moby Dick, scritto da Herman Melville.
Lo so, ne sono cosciente: non può una citazione rendere degno un racconto. Però una citazione può sciogliere un cuore distratto e far nascere un grande amore. E così immaginare la pace riempie di bello un presente di merda. Intanto preghiamo…
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MarTe – 24 dicembre 2025
L’attesa è uno strazio. Nel breve termine un malessere superabile ma a lungo andare è atroce agonia. Basta! Smetto di resistere. La lama nella mia mano non aspettava altro, entra e taglia. Una per ogni ora, mi dico, è una vendetta necessaria.
Lei ancora non torna, capirà.
Tentatrice, brilla nel soffice groviglio. Qui e là come punti di luce l’uvetta passa mi fissa e m’attrae, luminosa dal calore che profuma l’aria di canditi colorati, qui e là incastrati come gemme grezze nella pasta cavernosa di pane dolce.
Non resisto: al tepore del camino nero marquinia, una seconda e poi una terza fetta di pura delizia, un reato di lesa maestà, reiterato, un peccato senza vergogna.
Gusto ormai senza più fame, con lo sfregio lussurioso di una promessa ormai delusa. S’incazzerà ma poi faremo pace. Non conosco vendetta più dolce per questa assurda attesa. Ingordo e avvinto, mi abbandono alla libidine del palato mentre la crema al limoncello osanna l’astuzia artigianale di quel diavolo di pasticciere amalfitano.
Non sono mai ore consuete quelle passate aspettando Natale.
L’attesa della mia donna m’affligge.
Io sono a Milano, tormentato, forse solo impaziente. Nervoso, molto nervoso: l’attesa mi snerva. Mi serve ordine e disciplina. Vivrei di scrittura se potessi, ma questo che te lo dico a fare? È un luogo tanto comune da sembrare uno schiaffo alla banalità. Niente musica né TV. Solo nel silenzio sento distinta la mia voce. Ricerco. Rivedo e catalogo vecchi racconti nel PC mentre aspetto Maria Teresa. È da una amica a pezzi che nella videochiamata piangeva come una disperata, la mia marziana è corsa da lei.
“E non osare mangiare il panettone senza di me” ha urlato col suo minaccioso accento tedesco e gli anfibi lucenti calzati di corsa, stonati sotto il lungo cappotto candido come la neve.
Queste amiche che cadono a pezzi la Vigilia di Natale mi hanno rotto i coglioni ma che posso farci? MarTe è così, ti ripara l’anima, scova lacerazioni, sensi di colpa, incrostazioni che fanno male, cura concrezioni di tormenti, avvince il meglio che hai dentro, incolla i pezzi sospesi e ti rimette in moto. Da e toglie a suo piacimento, sa essere crudele come nessuno, io l’adoro: la sua assenza mi ferma il respiro.
Devi sapere che Maria Teresa parla cinque lingue e lavora per una multinazionale che pubblica a milioni pagine patinate con gente stupenda stampata sopra, insomma moda, trucchi e profumi, essenze d’effimero, meraviglie superflue, droghe di bellezza. Quando le dico queste cose si incazza di brutto. È una manager della cosmesi, crea bisogni con il richiamo ancestrale alla perfezione di corpi e volti magnifici: manipola immagini e parole, raffina illusioni, estrae luce da nebbie di lacca. Lavora su foto e parole, la sua è magia editoriale. La pagano bene.
Cosmetica la strega, sei da bruciare viva sul rogo in piazza Duomo, questo le dico quando litighiamo, e lei mi avvampa e mi spegne chiamandomi misero pezzente. Iniziano grugniti e silenzi, sberleffi e ripicche infantili. Poi dalla discussione violenta morta nella cenere del silenzio, al primo contatto della pelle ripartono coccole e carezze. E così la morsa della passione ci avvolge fino a sfinirci, fino all’ultima goccia di adrenalina assaporata come un nettare divino di sfrenato piacere, il cuore a mille, la carne avvinghiata che vibra, il punto di non ritorno desiderato e messo in attesa di lei, di me, di noi, fino al grande salto nel mare calmo della pace dei sensi, della carne, della mente, dell’anima che torna a dividersi estasiata.
Magari porta a casa l’amica, quella devastata dalla solitudine, la russa abbandonata in albergo da un riccone sposato e traditore. L’aiutiamo a superare la crisi sparandoci l’un l’altra una notte di carezze a tre, coccole e carezze come adolescenti affamati di conoscenza. Una santa e benedetta notte di Natale, sarebbe.
Ho visto le bozze della campagna pubblicitaria che sarà lanciata su uno dei prossimi numeri di Vogue, la modella devastata dal tormento è una patanona stratosferica.
Vedi peccato nell’immaginarsi? Io qualche volta sento vergognose eccitazioni. È un viaggio mentale sucido, l’erezione. Potrei scrivere senza fantasia ma sarebbe solo sudiciume. Comunque Maria Teresa non lo farebbe mai, un triangolo intendo. La mia tirolese trapiantata in questa metropoli senza confini, mi evira il gioiello, altro che.
MarTe è gelosa. Ma che dico, gelosissima.
“Se mi gira ti faccio eunuco di compagnia” e quando me lo dice non so mai se scherza o fa sul serio. È per questo che il romanzo su cui lavoro da tre anni non le piace, è gelosa dei miei personaggi donna, e non ti dico del rapporto con il mio editor, donna anche lei per volontà imposta dall’editore. Dice, l’editore, che sono troppo uomo per scrivere di donne e ancora non ho capito se in tutta questa strana storia il vero geloso sia lui.
Ma come fai a desiderare chi non ti desidera?
Questo romanzo finirà nella spazzatura, l’intreccio non funziona. Non hai idea di quanto ne ridiamo insieme io e Maria Teresa, lei i pezzi me li fa brillare, quelli dell’anima dico, e dai concentrati ti prego: provo a desiderare negli occhi di te che leggi, tracce di libidine, bagliori d’interesse tra le ciglia che si chiudono in segno di noia.
Come faccio a fermare le tue mani dal buttare via queste pagine?
Superstizione? Una macumba, un saggio sulla cura inguinale dei linfonodi?
Un manuale per la felicità. Sai che palle.
Chiedi come ho conosciuta la mia donna? Beh, nella confusione digitale del mio passato ho trovato un raccontino che fa al caso nostro.
Era una notte buia e tempestosa… No dai, scherzo. Dammi una chance.
— ∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞ —
D’estate quando al buio le stelle brillano, cuori solitari attendono storie, sospese in pensieri repressi, storie trattenute, stracciate da parole non dette.
Un cuore a riposo batte tranquillo, non sa che all’improvviso può impazzire.
«Pino ma che fai? Te ne vai? Ci lasci proprio sul più bello?»
Chiamato in causa mi guardo intorno con la paura di lasciare in giro qualche traccia di me, prima di sparire come ha fatto qualche ora fa, quella palla di sole arancione all’orizzonte.
Nell’aria i profumi del Cilento, intorno a noi la spiaggia tra il mare che sussurra e la pineta muta, e al centro un magico falò con nuove amiche arrivate nel pomeriggio alla ricerca di affinità elettive. Illuminare la notte d’allegria, inebriarci di ricordi e storie esagerate fino all’alba, questo è il programma.
«Lo so, è un peccato ma devo andare…» dico mentre la rossa mi guarda perplessa.
«Un fulmine ha colpito una fabbrica a Cuba e una nube tossica arriva all’Avana. Devo scrivere un pezzo per la TV, andiamo in onda domani mattina…» dico per dire amen alla sequela di scuse lamentose per stoppare il fatevi i cazzi vostri che mi passa per la mente. Non voglio andarmene ma devo. Domani è lunedì, uno di quei giorni che vorresti cancellare dal calendario. Lascio gli amici a divertirsi: una grande stronzata.
Ogni agosto tornano a nutrire le nostre antiche radici abbarbicate nella roccia selvaggia che ci abbraccia tutt’intorno da Sapri a Paestum. Amici d’infanzia, compagni inseparabili nell’adolescenza più cruda, a correre appresso a sogni di cuoio di un pallone amaro, ad ammazzarci su campi polverosi, privati dell’erba dei campioni, nel fango d’inverno e su ciottoli di pietre taglienti in primavera. Migrati al nord li canzono ogni volta: lavoro grigio, contributi, malattia e ferie pagate. A volte li offendo con rabbia per aver svenduto la libertà ad un cartellino da timbrare, piegati al controllo, ad una vita regolare da subordinati al nord. Ogni agosto ritornano e si vendicano. È finita che loro fanno i signori in vacanza e io lo schiavo a ore in una TV locale di Napoli.
Dodici mesi all’anno senza tredicesima, ad ore senza ferie pagate, e nemmeno un cartellino da timbrare, perché quello è la prova di un lavoro dipendente mica il gadget di un professionista a partita iva. Il tempo indeterminato è diventato il mio: indeterminato il reddito, indeterminato l’orario dell’impegno e del riposo, indeterminato il ritmo, stonate le voci che mi accompagnano, nessuna melodia, questa è la verità.
Il perdente sono io, però sono libero, sì libero ma di che?
Fluido e flessibile, riproduco precarietà, cannibale di me stesso, mi consumo.
In questa favolosa sera d’estate, se i miei amici sapessero del mio tormento mi legherebbero ad un albero. Mi vogliono bene, questo lo so. Bendato mi farebbero strusciare le parti intime e baciare sulla bocca dalle ragazze, è un gioco atroce: il malcapitato resta legato finché non riconosce chi lo tocca. È una variante etero dello schiaffo del soldato, ha sempre funzionato estate dopo estate nel determinare una comitiva vincente: la serata si infiamma quando è una delle ragazze ad offrirsi volontaria. È dalla sudata maturità al “Leonardo da Vinci” che perfezioniamo la nostra strategia di conquista con uno scenario di battaglia ormai definitivo: la foce del Mingardo. So cosa mi perdo, e se i miei amici sapessero del mio tormento, salterebbero ogni tattica programmata e mi legherebbero subito mani e piedi per trattenermi tutta la notte. Mi vogliono bene e io a loro ne voglio più che a me.
Fuggendo dall’allegra comitiva un barlume di dignità mi nasconde: mostro orgoglioso il dovere che mi chiama. Devo andare. Guardo la rossa con gli occhiali da intellettuale come un cane bastonato. L’ho delusa, si chiama Maria Teresa, so poco o niente di lei. Mi osserva intristita mentre raccolgo lo zaino di corda posato nella sabbia dove finiscono i sassi.
Genny ridacchia: «Dai Pino, non fare questa figura di merda, le belle nordiche penseranno che…» un ghigno d’invidia mi sfregia la bocca e lo prendo a calci. A lui piace scegliere per primo la ragazza più carina per dormirci insieme il giorno dopo. È fatto così, è un leader, in fabbrica fa il sindacalista, si prende sempre il meglio per sé e per la sua squadra, è rappresentante e rappresentativo della deindustralizzazione che vince in questo paese.
Gennaro ride e strilla mentre subisce senza reagire:
«Sfigato, freelance e meridionale. Vai Giusè,vattenne e puortete a’pucundria cu te!»
Adesso ridono tutti, tranne lei che mi fa un occhiolino e mi manda un bacetto nell’aria. Per la verità nemmeno mi attraeva, chiusa, appartata, estranea alla baldoria della comitiva che giocava come adolescenti negli schizzi cristallini dell’Arco Naturale. Questo prima, poi intorno al fuoco, con la pizza, le birre e la chitarra, proprio quando i racconti delle nostre vite si aprivano alle curiosità più sfrenate, lei con una frase tagliente come una sciabola, mi aveva aperto in due e nel petto piantato un seme sconosciuto…
Molte ore dopo sono a casa e sento il desiderio di lei che mi cresce dentro, germoglia. Ripenso a lei e a come mi ha incantato, selvatica e selvaggia, con una battuta geniale e feroce, una mazzata tra capo e collo di un buffone smascherato nel fragore di una risata generale. L’ho delusa? Forse le sarebbe piaciuto venire via con me. Invece sono sparito come un pirla.
Dopo il tramonto, ormai al buio, raccontavo i miei sogni letterari, avventure di un’esistenza da romanzare, e avevo finito per dire che:“solo un robusto principio morale può impedirmi di uscire deciso per strada e mettermi metodicamente a gettare in terra il cappello alla gente, allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto”.Quando succede mi imbarco su una nave e riparto per terre straniere, avevo aggiunto. Nel mentre, compiaciuto della mia recita, con l’indice proteso alle luci di grosse barche a vela ancorate nella baia, in lontananza indicavo la vastità del Mediterraneo.
L’unica a non guardare era lei. Adagiata su pietre marine levigate dai millenni, mi fissava mentre dalla fronte alla bocca carnosa, una ciocca rossa ribelle le spaccava il viso di porcellana bianca.
“Attento a non finire come un pinocchio a cercare di uscire dal culo di una balena!”
La perfida luna piena, i riflessi ramati sul volto e quelle parole assassine mi avevano stregato: nessuno dei presenti aveva capito niente, solo lei.
Adesso questo dannato ventilatore in faccia che gira a stento me ne guasta il ricordo. Tre ore di auto proletaria per tornare in questo schifo di monolocale striminzito senza aria condizionata e seicento euro al mese di affitto più spese.
Devo consegnare tre cartelle ed è la notte più calda del secolo. È un’occasione unica anche se per la verità non è la prima volta che mi chiedono con urgenza un pezzo, è un extra che mi fa comodo, mi usano come tappabuchi, lo so bene. Tra poco devo essere presente in studio, mi pagano come attrezzista a ore mica come giornalista a cartella. Poi aiuto tutti, sono un jolly, un lavoratore quando serve, aiuto elettricista, aiuto cameraman, aiuto regia, aiuto tecnico delle luci o del suono, aiuto archivista e una volta mi hanno messo anche una pezza e una scopa in mano che piangevo miseria: quelli della produzione mossi a pietà per la mia condizione mi offrivano un ruolo scoperto, a ore ovvio mica a tempo indeterminato. Nemmeno pubblicista sono diventato. Tendo ad evadere ogni formalità, sono io il colpevole, un criminale, nessuno mi costringe, e se mi faccio male, anche quella colpa è mia. È un mondo competitivo quello dello show business lo comprendo, tuttavia, onestamente, a dirla tutta la verità, essere un bravo jolly mi conviene. Con quello che costano come potrei mai permettermi concerti allo stadio o al San Carlo, e le commedie? Trianon, Mercadante, Ridotto, Augusteo, Bellini, Sannazzaro, tappo buchi finanche nel teatro di Eduardo, il San Ferdinando. È una nave che naviga e io mi sento utile, tappo buchi.
Sto delirando, il caldo. È la notte più afosa del secolo per chi respira aria incondizionata in città, immobile, inquinata di squallore, in un ritaglio di mansarda dei quartieri spagnoli a due passi dal palazzo reale di piazza Plebiscito.
Sfarzo e povertà abbracciati come gemelli siamesi arresi all’indecenza del progresso.
Il ventilatore gira, ma è usurato, fa uno strano rumore, gira piano. La potenza solo un ricordo. Fragola. Penso al mio ghiacciolo preferito, confezione da sei per un euro e novantanove. Sulla strada del ritorno da Palinuro ne ho preso due scatole in un discount.
Il ventilatore grippa e si ferma. Io no. Scavo nel cassetto dei miracoli, ne trovo uno mini, cinese, sembra una margherita. Lo collego alla USB del PC, e torno a picchiare sui tasti. Tra un pensiero e l’altro la posta elettronica, rispondo, apro i social, urca mi affogano di messaggi e che palle…
All’improvviso il delirio. Allarmi impazziti scattano ovunque. Il suono delle sirene degli antifurti è allucinante, come un trapano mi devasta il cervello.
Il popolo non rispetta il sacrificio chiesto dal governo, quello di risparmiare energia perché siamo in guerra. Blackout totale. Alla finestra mostro il dito medio agli italiani che hanno scelto il condizionatore. Spreco, cripto valute, bagordi e luminarie?
Ben vi sta!
I ponti radio dei gestori telefonici reggono, hanno i generatori diesel, quelli sono furbi, il traffico dei dati nell’etere non si ferma, ogni giga è moneta contante.
Ho un altro computer, il portatile per le emergenze che lascio sempre a casa, e quindi non mi fermo. La corrente elettrica non torna, la batteria svuotata dal ventilatore USB si esaurisce troppo presto. Stanco mi stendo un po’ e un po’ riposo.
Vampire nere sono entrate dalla finestra. Prendo la racchetta ammazza zanzare e mi preparo al massacro elettrico, premo il pulsante, niente, scarica anche quella.
Non so come ma dormo tre ore. La corrente non è tornata. La crisi sembra più seria del solito. Niente TV, niente PC e cellulare morto. Stanco di tutto dormo ancora.
Mi sveglio tutto bagnato di sudore peggio di prima, potevo vedere sorgere il sole con Maria Teresa abbracciata a me, pirla che sono. Metto i piedi per terra e sul letto saltano schizzi d’acqua, sono allagato. La porta del frigo è aperta, ogni luce spenta, sciolti i congelati ormai mollicci. È la notte più bollente da secoli. Avrò mangiato un ghiacciolo nel sonno. Ora ricordo: strusciavo fragole su seni generosi mordicchiando freschi capezzoli turgidi. Cazzo i frigoriferi sono il problema! Quante tonnellate di cibo si perdono senza energia? È una buona idea per un articolo, venti euro fanno sempre comodo, entropia. Vado in bagno e non c’è acqua, senza corrente le pompe si fermano. Mi stendo ancora con sulla faccia l’asciugamano impregnato dell’acqua che ho raccolto dal pavimento, era ghiaccio e sa di pesce che inizia a puzzare. Questa vita è una merda. Ricordo lei che nemmeno conosco e che forse potrebbe desiderarmi così come sono. Dal buio l’alba tra i palazzi m’illumina di lei.
Il serbatoio della vecchia Panda è vuoto. Dove vado?
Penso al ventilatore come l’amore, frenato e senza energia non gira…
— ∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞ —
Sono passati tre anni da quella notte, nel tempo libero lavoro ancora al mio primo romanzo che a Maria Teresa non piace. Però mi aiuta lo stesso, sapessi quante discussioni e quante risate. Sarà una bomba. È stata lei a trovarmi un editore che, devo dire la verità, sta investendo molto su di me anche se rompe in continuazione le palle, mi ha anche cambiato tre editor per farmi contento, il debito che ha con Maria Teresa deve essere enorme.
La pace in Europa è tornata, così come i russi a sperperare rubli per il mondo.
Vuoi sapere cosa è successo dopo quella favolosa notte d’estate?
Per mesi tra noi chat sempre più intriganti. A Pasqua mi ha invitato a casa sua. Abbiamo verificato che il colpo di fulmine bidirezionale avesse basi solide nella fisica dei nostri corpi. Ti risparmio dettagli e scintille. Torno a Napoli. A giugno mi chiama divertita. Ti ho trovato un lavoro pagato bene a tempo indeterminato, puoi svoltare mi dice. Il settore comunicazione di una multinazionale del farmaco ha bisogno di uno come te. Dai molla tutto e vieni a vivere con me nell’attico di via Alessandro Manzoni. La camera per gli ospiti è tua, non farti problemi, se ti stufi di me o io di te, risolviamo.
“Sei sbruffone e brigante, una perla verace che voglio tutta per me.”
Proprio così mi ha detto, e lo diceva ridendo, sicura che io l’avrei mandata affanculo. Invece l’ho freddata, Maria non sapeva, da gennaio non pagavo più l’affitto, debiti con tutti risparmiavo anche il caffè. La vecchia Panda l’ho data al primo che si è pagato il passaggio di proprietà. Stringevo la cinghia, vendevo il vendibile, regalavo il regalabile, scappavo dai creditori, moroso e latitante. Il piano era perfetto. Lei non sapeva, ero già pazzo di lei.
Adesso sono tre anni che stiamo insieme e del pacchetto adoro anche la suocera che vive in Austria, ci siamo conosciuti in un incontro spacciato per casuale al Caffè Sacher di Innsbruck. Anna lavora nel palazzo imperiale, la residenza estiva di Maria Teresa d’Asburgo, una donna terribile che tra l’altro nel Settecento fece sbocciare il Teatro alla Scala, oggi a due passi da dove viviamo io e MarTe. Anna, mia suocera, pare sia erede di sangue blu, lei ci tiene molto e dice che ha le prove, pare sia discendente di una dama al servizio di uno dei figli dell’imperatrice. L’adoro anche per il fatto che vuole convincere la figlia a sposarmi, dice che non l’ha mai vista così felice. MarTe temporeggia. Aspetta il mio primo romanzo.
Cosa dire, con Maria Teresa ogni momento è un’avventura, attimi di spine e petali di rosa, barocca e gotica, a punte e curve, con sterzate contro mano e ripartenze furiose, a tratti regale, è una vita viva, teatrale e noi insieme un copione d’autore.
Il campanello suona frenetico. Rumore di chiavi e la porta che si apre.
È finalmente tornata da me.
Una folata gelida entra con lei. Dall’ingresso la sua voce in festa mi sballa:
«Pinuccio sei presentabile? Anastasia ha portato i biscotti prjaniki, passa il Natale con noi, tira fuori il limoncello e gli struffoli di mammà…»
Oh Gesù, Giusepp, Sant’Anna e Maria, pregate stanotte per l’anima mia!
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Chi è arrivato fino a questo punto merita un premio: in questo racconto c’è un’altra grande citazione: … “nebbie di lacca”.
Caro Diario, se non lo scrivo a te finirò per dimenticare. Marx fosse vissuto oggi si sarebbe divertito un mondo a trovare nel suo smartphone geolocalizzato, ovviamente Apple, con misurazione di pressione e battito cardiaco al tocco dell’impronta teutonica del pollicione, trovare tra le mappe in tempo reale dei flussi d’informazione dalle varie guerre sul terreno, tra un video Tik-Tok e un’offerta Amazon, dai mille satelliti che abbracciano il mondo, trovare dicevo, tracce della sua caduta tendenziale del saggio di profitto sulle onde impetuose del debito globale di una Terra divisa in famiglie, governi, imprese e società finanziarie. Impero multinazionale allora era già passato.
Un lavoraccio da risolvere con la matematica quantistica che all’epoca di Marx non c’era. Ecco il tempo reale, il momento che fugge, l’istante che divora il tempo lavoro come un boccone ingurgitato in una frazione di secondo per non tardare l’appuntamento con la diretta, ebbene sì uno scintillante scontro dialettico su David Foster Wallace che “o piace troppo o non piace per nulla”.
POST di Gian Paolo Serino
POST di Angelo Cennamo
Sono a metà di Infinite Jest e mo’ che faccio? Ovviamente arrivare fino in fondo e leggere il resto della sua enorme produzione; tra qualche anno dovrò pure dimostrare che chi non ha mai giocato a tennis, borghese o proletario fa lo stesso, non può sapere la differenza tra rimettere una palla in campo e sfidare la geometria del campo osando un punto vincente, un colpo imprendibile cui l’avversario può solo inchinare la testa e applaudire in segno d’ammirazione.
Meravigliosa partita dialettica, tutt’altro che materialista, anzi pura essenza di gusto soggettivo radicato nelle conoscenze personali. Sì, mirabile scontro tra personalità elitarie che rendono degno il genere umano. Sì, perché è possibile che domani mattina META fallisce, muore Facebook e questa partita per me memorabile tra Gian Paolo e Angelo sparisce dalla mia memoria, come un singhiozzo strozzato in gola.
Cosa c’entra Marx? Marx c’entra sempre: chi lo studia vince! Sembra assurdo nel XXI secolo, eppure è così, a massimizzare il pluslavoro regalato al capitalismo è il lavoratore stesso capace di lavorare a perdere, a consumarsi fino all’indecenza, fino a morire. Perché? Ringrazio Giorgio per il suo “telegram”, e beh, ha citato un grande scrittore con un passo di cui non avevo più memoria:
“Dove c’è lavoro per uno, accorrono in cento. Se quell’uno guadagna trenta cents, io mi contento di venticinque. Se quello ne prende venticinque, io lo faccio per venti. No, prendete me, io ho fame, posso farlo per quindici. Io ho bambini, ho i bambini che han fame! io lavoro per niente; per il solo mantenimento. Li vedeste, i miei bambini! Pustole in tutto il corpo, deboli che non stanno in piedi. Mi lasciate portar via un po’ di frutta, di quella a terra, abbattuta dal vento, e mi date un po’ di carne per fare il brodo ai miei bambini, e io non chiedo altro. E questo, per taluno, è un bene, perché fa calar le paghe mantenendo invariati i prezzi. I grandi proprietari giubilano, e fanno stampare altre migliaia di prospettini di propaganda per attirare altre ondate di straccioni. E le paghe continuano a calare, e i prezzi restano invariati. Così tra poco riavremo finalmente la schiavitù”. – John Steinbeck – Furore – 1939
Undici donne insieme, undici come in una squadra di calcio, non per competere ma unite a sgretolare il muro dell’indifferenza, a colpi di penna con scritture che devastano, sì, perché questi undici racconti noir, eleganti e raffinati, viscerali, alcuni stupefacenti, mozzano il fiato per quanto sono potenti. Si dirà che sono il genere letterario e i temi trattati a catturare l’attenzione: è vero ma solo in parte perché da soli non spiegano la bellezza corale di questa raccolta. L’insieme delle protagoniste riempie uno spazio rappresentativo dell’universo donna dentro storie di tormento, cioè in quella dimensione esplosiva della ragione sottomessa alla passione. Nella decisa differenza di stile di ogni autrice trionfa la policromia di scritture che rendono visioni didonna diverse e magnetiche come luce tra le facce di uno stesso diamante. Chicca, Francesca, Giada, Letizia, Lorena, Luana, Marzia, Mimma, Paola, Piera e Serena, raccontano sconfitte e vittorie, vendette e rivincite, la forza e la bellezza della donna. Sono undici scrittrici unite contro la violenza sulle donne con un atto concreto a sostenere un’associazione come SOS DONNA. Questa raccolta merita la lettura perché i racconti sono belli, con delle eccellenze da brividi tutte da scoprire e, merita l’acquisto, perché è un gesto pragmatico di solidarietà alle donne che hanno bisogno di essere liberate dall’orco che le distrugge prima che sia troppo tardi.
Francesca Bertuzzi con “Lenta cottura”
Piera Carlomagno con “Argia”
Mimma Leone con “L’assistente”
Lorena Lusetti con “Ossessione mortale”
Chicca Maralfa con “La suora e il talebano”
Marzia Musneci con “Pietre e polvere”
Giada Trebeschi con “La mano di corso Oporto”
Luana Troncanetti con “L’ora del thè”
Paola Varelli con “La festa del sole”
Serena Venditto con “Fiori d’arancio”
Letizia Vicidomini con “Seta blu”
“In piedi davanti a una donna” dal CHISCIOTTE di Il Teatro di Ipazia
In piedi, in piedi, signori, davanti a una donna, per tutte le violenze consumate su di lei, per le umiliazioni che ha subito, per quel suo corpo che avete sfruttato per l’intelligenza che avete calpestato per l’ignoranza in cui l’avete tenuta per quella bocca che le avete tappato per la sua libertà che le avete negato per le ali che le avete tarpato per tutto questo in piedi, Signori, in piedi davanti a una Donna. E se ancora non vi bastasse, alzatevi in piedi ogni volta che lei vi guarda l’anima perché lei la sa vedere perché lei sa farla cantare. In piedi, sempre in piedi, quando lei entra nella stanza e tutto risuona d’amore quando lei vi accarezza una lacrima, come se foste suo figlio! Quando se ne sta zitta nasconde nel suo dolore la sua voglia terribile di volare. Non cercate di consolarla quando tutto crolla attorno a lei. No, basta soltanto che vi sediate accanto a lei, e che aspettiate che il suo cuore plachi il battito che il mondo torni tranquillo a girare e allora vedrete che sarà lei la prima ad allungarvi una mano e ad alzarvi da terra, innalzandovi verso il cielo verso quel cielo immenso a cui appartiene la sua anima e dal quale voi non la strapperete mai per questo in piedi in piedi davanti a una donna.
dallo spettacolo “Chisciotte”” da Miguel de Cervantes, andato in scena al Teatro Camploy di Verona il 7 e 8 Gennaio 2017, per la regia di William Jean Bertozzo. Con William Jean Bertozzo (Chisciotte) Paolo Bertagnoli (Sancho e chitarra) Con Nica Picciariello (Dulcinea) Flavio Malvezzi (Chitarra) Alessio Bellamoli (Tecnico Audio/Luci)
La verità è che la verità è realmente verità fino a quando non incontri un tifoso della Salernitana che nel tempo libero è psichiatra. Fino a quando nei “Ringraziamenti” a pag. 279 ti dice che il suo libro su Salerno è incompleto, parziale, fazioso, omissivo. Perché la sua, la mia, la nostra Salerno è “materia viva”, troppo piccola per essere metropoli e troppo grande per essere un paese, troppo antica per essere moderna e troppo avanti per essere vecchia. La verità quindi è che Salerno è sospesa in quanto galleggia come piena dimostrazione del principio di Archimede: quanto più è pesante, greve e criminale è la forza che la spinge in fondo, tanto forte, uguale e contraria, è la bellezza e la genialità che la tiene a galla nel mare millenario della sua storia.
Un lettore abbastanza ignorante come me non dovrebbe osare commentare un libro così tanto “intellettuale” ma sono un salernitano testimone egocentrico, mio malgrado, di quella “espressione di un’emotività profonda” come ci dipinge l’autore a pag. 84 con un tocco di elegante raffinatezza citando il poeta Gatto e subito dopo con una mazzata terribile tra capo e collo, definendo la nostra “cazzimma” differenziandola però, da quella napoletana. La clava dialettica con cui bastona e assolve e poi ci fa guerrieri, bisogna leggerla e sentirsela addosso come un’adulazione tenera quasi materna, forse carezza fraterna o meglio come una necessaria cinghiata paterna. A tratti la sua penna diventa un bisturi preciso che tocca senza tagliare, nervi che fanno schizzare le endorfine alle stelle, dipende dalla pagina o dal capitolo; a tratti il medico che ti scava dentro lo senti entrare nel cervello perché è bravo, ci ha studiato e ci conosce molto bene, psicosomatici felici di salernitanità.
“Forse la ruvidità del salernitano sta proprio in questo suo trovarsi in mezzo, fra monti e mari. In quella che Gatto chiama “montuosità marina” della città. Che non è la rigidità del montanaro o l’uomo di mare che non si fida delle onde. È un approccio esistenziale ermetico. L’ermetismo è sintesi, è una poesia più complessa di quanto non possa apparire a un primo esame. Ma quella sintesi è anche l’espressione di un’emotività profonda.“
La verità è che questo testo, fosse anche un solo e grande respiro, è un libro necessario e imprescindibile per chi ama o odia Salerno, è un tributo appassionato, anche cinico, anche dissacrante, autoironico e anche commovente, anche serio, molto divertente, irriverente, ovviamente devoto, brillante, sagace, pagano e religioso, struggente, onestamente provvisorio, malizioso e burlone… Insomma impreteribile!
Agli indifferenti di e per Salerno auguro una gramsciana vergogna perpetua come stigmate indelebile di dolore e sensi di colpa. Conoscere Salerno e i salernitani con questo testo diventa indispensabile per misurare la dimensione antropologica dell’appartenenza alla propria città. A proposito, quì si continua a costruire, in pochi mesi molti altri grattaceli stanno scalando il cielo nei pressi dello stadio e del porto d’Arechi, roba di lusso (perché a Salerno 15 piani hanno la stessa pretesa dei 100 dell’Empire State Building di New York) anche se all’anagrafe comunale pare che il numero di iscritti sia in continuo e drammatico calo: sono i misteri del complicato pensiero urbanistico che non riesce a trovare una sistemazione definitiva al Museo dello Sbarco noto come missione Avalanche che insieme allo Sbarco in Normandia, a detta di Ronald Reagan, sono le due operazioni che hanno fatto trionfare in Europa la democrazia occidentale, pag. 198.
La fine del 2022 le Luci d’Artista ci sono ma Salerno sarà ricordata anche per l’assenza dei pinguini sul lungomare, forse perché è in corso il cambiamento climatico o forse per colpa della guerra; io penso che l’amministrazione comunale abbia letto il capitolo La solitudine del pinguino a pag. 155, decidendo quindi di liberarli dalla prigionia sugli scogli di fronte al bar Nettuno.
Dovrei giustificare gli aggettivi, pare che non se ne debba abusare un po’ come lo zucchero per i diabetici, dico solo che ci sono pagine in A SALERNO di Corrado De Rosa, testimonianze d’amore, di sapienza e conoscenza, da Alfonso Gatto al Siberiano, che al solo pensiero di quanto letto, mi fanno desiderare le lacrime nella pioggia di Blade Runner, perché così sono le vere lacrime di ammirazione: febbre immortale.
Foto di Salvatore Fazzari
“Quindi, non avendo mai frequentato la curva da ultras, non avevo capito l’importanza del Siberiano.” L’ho capita quando è morto. […] Una volta lo sentii rispondere alla domanda di un giornalista: «Che ne pensi di questa sconfitta?». Lui lo guardò di taglio, con gli occhi che gli avevano dato il soprannome: «Noi vinciamo anche quando perdiamo». Non so cosa significasse quella risposta ma la trovai, la trovo tutt’ora, meravigliosa.”
Questa PSICOLOGIA INSOLITA DI UNA CITTA’ SOSPESA è un testo intriso di passioni e vertigini di una città, indecisa cronica, che hai i suoi tempi, senza fretta, vive e si trasforma, invidiata da chi non la abita, e noi non ne siamo mai contenti ma a lasciarla non se ne parla e se partiamo, al ritorno ci sembra ancora più bella.
Le pagine scorrono via che è un piacere. Dopo aver letto L’UOMO CHE DORME non avevo dubbi, sapevo di fare un buon affare: euro spesi bene, molto bene, veramente grazie Doc!
Piens? Ma a che piens? Io racconto così chi s’è visto s’è visto.
Io con l’Eduardo che lavora in una cartoleria di via Fieravecchia (pag.224) ci sono cresciuto, giocavamo a pallone nel nostro vicolo dall’alba al tramonto, abitavamo nello stesso palazzotto a Torrione, il quartiere sotto Torrione Alto che sta sotto Sala Abbagnano. Sotto, più sotto, underlow profile: il destino dei semplici è godere al livello zero, quello del mare. Un ricordo struggente ci lega per sempre: io terzino e lui mediano di quelli eterni come Ringhio Gattuso, vincemmo insieme un torneo memorabile sul ruvido parcheggio di cemento della fabbrichetta abbandonata.
E chi se lo scorda il nostro KGT vittorioso là dove don Mario del circolo di via XX Settembre, organizzava tornei di pallone a Torrione, con porte “vere” di legno e reti di spago che venivano montate e smontate ad ogni partita. Anche dal centro storico partivano squadre che venivano a giocare a Torrione. Tornei veri, cattivi, fino all’ultimo sangue, quello che usciva a fiotti perché su quel campo ti stracciavi e le ferite bruciavano come ustioni di terzo grado. Che nostalgia pensare che all’epoca, in quella fabbrica D’Elia, dove profilavano il ferro a freddo producendo tubi e lamiere esportate in Russia, la Befana distribuiva giocattoli ai figli degli operai. In quella fabbrica lavorava il mio papà, fu poi abbandonata come già la vecchia Latteria sotto casa e il mostro sostituito dal Grand Hotel sul lungomare dei poveri come lo ha definito un De Silva, là dove prima la città non c’era, ma solo agrumeti e terra coltivata, raccontava papà.
Guidati da Adriano classe ’62, un numero 10 scuro e forte come Pelè, noi i ragazzi di Via Giovanni Andrea Aurofino, in finale battemmo il Real Torrione 6 a 1. Un risultato tennistico ai tempi in cui Adriano Panatta batteva Björn Borg, la TV era rigorosamente in bianco & nero e le dirette di Bisteccone Galeazzi dalla televisione ti facevano respirare la terra rossa del Foro Italico.
Poi, non tutti si possono vantare di avere una moglie del centro storico con un’esperienza infantile avuta con un “perturbante” (pag. 203) come Spic & Span a via Fusandola alla fine degli anni ’70, quindi io commento, così chi s’è visto s’è visto perché, mancanze a parte (concittadini unici come Stellina, Lalla, Rocchino, Peppeniello a femminella, Cirillo e Jolly, etc…), questo libro è già una pietra miliare ai bordi della strada che mi porta a capire il senso di come stare al mondo e in modo particolare in questa bella e maledetta città: Salerno.
L’insostenibile desiderio alla disconnessione credo sia una delle mie personali risposte immunitarie che mi salveranno dall’affogare nella melma connettiva di questo XXI secolo, epoca tanto malata quanto ricca di bisogni antichi ma eterni.
La cura, o meglio la fuga dal virus nocivo della stressante frenesia moderna, è il romanzo, uno meraviglioso come IL FIORE DI MINERVA, per esempio.
Questa lettura è stata per me una violenta terapia d’urto, benefica e deliziosa, sorprendente nonostante quello che potevo aspettarmi dopo aver goduto dell maestria dell’autore nel romanzo precedente, Hotel d’Angleterre.
La scrittura minuziosa, erudita ma leggera, aulica ma a tratti travolgente nell’azione e, capace di emozionare, ne fanno un toccasana senza tempo, per ogni stagione, per ogni malanno dell’anima.
Romanzo storico? È una categoria forse troppo limitante per questa magnifica storia, che oltre ad essere l’ennesimo tributo ad una città troppo spesso sminuita e cannibale di sé stessa, ha il respiro della magia e della scienza umana che sperimenta e costruisce intrugli miracolosi. Con gli eventi, gli intrecci mirabolanti, e personaggi più vivi di quelli che ci circondano ogni giorno per strada, al lavoro, in TV e sui social, l’autore sembra essere diventato lui stesso la speziale che racconta, alla ricerca di quella verità superiore, distillata ad ogni fremito del pensiero, verità recondita ai desideri più materiali e tormentati dell’animo umano, quella verità madre di bellezza e amore, la verità che trionfa sulle miserie e le violenze dell’uomo, la verità che si fa giustizia umana, terrena.
Questo romanzo è una pozione magica, è un concentrato di ingredienti antichi ma eterni, sostanze che rendono significativa l’esistenza di ognuno. Questo romanzo, come dicevo è un toccasana, ma non è solo un prodotto definito, contiene la ricerca e la spiegazione, le domande e le risposte, più di una ricetta da provare, ha in sé la mirabile capacità di trascinare il lettore con coinvolgimento crescente al desiderio di distruggere il male dentro e fuori di sé. La denuncia della violenza sulle bambine e il conseguente obbligo alla prostituzione, allora come oggi, insieme alla sottomissione della donna all’uomo, sono aberranti e purtroppo fatti che ci fanno pensare a come il male si riproduca senza freni, secolo dopo secolo, a come quest’epoca sia ancora tanto medioevale, altro che moderna.
Devo dire che alle tante brutture raccontate, tanto indispensabili e vere come le ossa del nostro scheletro che ci sorregge, a trionfare sono l’immensità della poesia e la bellezza tutt’altro che esteriore che mi è permeata nel profondo, con tutta l’intensità della carne dei muscoli e dei nervi di cui siamo fatti.
IL FIORE DI MINERVA è viaggio nell’essenza umana tanto vasta quanto terribile, tanto intricata quanto meravigliosa, è una settimana del 1551, un attimo nella storia, un momento di conoscenza approfondita, senza confini di spazio e di tempo, fatto di brividi che scuotono, di carezze che ammaliano, di Héctor e di Costanza, personaggi eterni di passione, riscatto e sogno.
«Certe cose sfuggono, quando non si sa cosa cercare.»
Cara amica mia ti scrivo perché non so parlarti. Quello che dico è altro da quello che vorrei farti sentire. Già è vero, sai ascoltare e mi conforti sempre: le tue parole sono panna sul mio cuore e vorrei per sempre nutrirmi di tanta dolcezza, vorrei allungare i nostri incontri, inchiodare il sole nel cielo affinché mai arrivasse il tramonto sulle nostre giornate passate insieme. Forse meno arduo fermare il tempo, e così l’estasi vibrante nei tuoi occhi diventare la ragione della mia vita.
Non è possibile invece, il silenzio tra noi è assurdo, fragoroso e rumoroso, devastante come la nube tossica di paure che mi paralizzano i pensieri. Non voglio perderti. Non posso perderti eppure sei come una goccia arida che scivola sul vetro di un grattacielo affollato, in allarme senza corrente elettrica di una sera, un esilio di tempesta.
Piove ma vorremmo scappare fuori a bagnarci e vivere, invece chiusi come zombi ammutoliti disperdiamo le nostre energie nello sguardo di una notte nera come la pece, che arriva sempre. Parliamo tanto fino a stordirci, di questo e di quello, di sacrifici e doveri, di progetti e fallimenti, di luoghi sconosciuti e di terre promesse.
Ci piace dissertare su verità e bellezza, di come trovare nel buio i colori delle emozioni ma niente di noi, di come mi trema la carne sotto la pelle immobile e controllata, vestita di niente, all’apparenza fredda e razionale. Così ti vedo ma non voglio perderti. Io non oso e nemmeno tu ne hai il coraggio, questo lo sento, forse l’immagino per sperare ancora, per godere del silenzio tra noi che ci tiene uniti.
È la prigione che vogliamo? Impazzire sarebbe evadere e correre mano nella mano, impazzire sarebbe perderti e non incontrarti più. Impazzire è pensarti lontana mentre perdo le tue parole sagge piene di accortezze gentili.
La tua voce è rovente e mi ascolti mentre non so dirti quello che vorrei.
Asserragliati nelle trincee del nostro ultimo scontro ci stiamo distruggendo.
Indisponibili alla resa lottiamo senza tregua, il silenzio che vince.
Dal 24 novembre in poi le abitudini cambiarono per tanta gente e per tanta altra gente no. Che ne sai della gente quando sei piccolo, abituato in una città piccola, al tuo vicolo piccolo, alla tua scuola piccola, ai tuoi amici piccoli anche loro. Invece tutto intorno vedi grande, il mare, la campagna e le montagne lontano, gli adulti, grandi anche loro. Che ne sai di quello che succede, quando all’improvviso il mondo cambia intorno a te e la normalità diventa un ricordo, un desiderio di quello che ti manca perché in fondo era un’abitudine che ti piaceva.
Il bagno nella vasca, le paparelle e le carezze di mammà. Il latte, i biscotti, la cartella arancione enorme e quasi vuota, piena di emozioni che raccontavi a papà che sera dopo sera ti insegnava a leggere perché ci teneva che suo figlio non finisse stracciato dalla fatica nei campi o nella fabbrica. Lo hai capito dopo come fosse già devastato dentro, dall’amianto e dalla vergogna.
L’inverno quello freddo ancora non c’era dalle mie parti. Tutto era normale come la guerra per strada tra clandestini e militari, come la culla di parole complicate diffuse dal velenoso tubo catodico della TV, e nel toccarla il friccicore sul ditino ti piaceva, non come la scottatura sul forno pieno di torta della nonna.
Che ne potevi sapere di quella moderna tangenziale in costruzione di fianco al grande ospedale di San Leonardo già finito ma ancora chiuso? La paura della morte e il terrore degli adulti li scopri all’improvviso nell’uragano di tormento che li fa impazzire e tu allora ti senti ancora più piccolo e ti accucci nel silenzio sul sedile sdrucito dell’auto, sotto la coperta.
Tornando dal paese dopo la raccolta delle olive, incontrammo tante case scassate, la nostra ancora in piedi per fortuna. Prendemmo poche cose e dalla notte del 24 novembre 1980 dormimmo nella Renault rossa, parcheggiati in fila indiana sulla superstrada, così la chiamava papà. Solo pochi giorni per fortuna, quella negata ai profughi senza casa dove tornare.
da un esercizio del gruppo FB SESE (scrittori e scrittrici emergenti)
Da dove inizio? Dai ricordi, dalla nostalgia, dalla cronaca storica, dalle foto o dalle visioni della memoria? Salerno cos’è? Salerno dov’era? Dove va? E tutti noi insieme e presi uno ad uno, cosa possiamo desiderarne oggi? E domani?
Inizio dalla prefazione e dalla premessa, ovviamente.
Urca, la prefazione di Pignataro è un innesco sopraffino. Stefano con la sociologia di Franco Ferrarotti ci spiega come si smarrisce l’origine e l’esistenza collettiva se perdiamo la memoria di quello che siamo stati: perché noi siamo quello che siamo stati. Ci avverte, io direi ci esorta, a farne tesoro, a custodire e tramandare, discuterne insomma, perché l’alternativa è ritrovarsi in scenari cupi se non drammatici.
La guerra, le discriminazioni, le povertà diffuse, l’arroganza del profitto se non le sue infami forme criminali, la volontà di potenza che ripropone la cancellazione culturale di storia e popoli, ne sono purtroppo la prova più evidente: l’oggi è drammatico ma l’ardore intellettuale di Stefano mi rincuora perché io ci credo molto a quello che scrive: “La generazione di oggi è la generazione più filmata e fotografata di sempre ed è un vantaggio incalcolabile.” Io aggiungo la più connessa e controllata, quella che se riuscirà a scrollarsi di dosso le visioni arcaiche del passato, il dominio dell’economia sulla politica, per esempio, potrà veramente aiutare la Terra a non sparire dal sistema solare ma a riprodurne l’umanità più serena, quella della condivisione, l’umanità più bella, quella artistica, l’umanità più giusta, quella senza fame né dolore.
La premessa dell’autore è una fotografia del “momento” politico e sociale degli anni ’90, italiano e mondiale, la magia della letteratura è questa: un pugno di parole riassumono un decennio e come un’immagine, un flash, ci restituisce l’attimo che dura anni, che segna le salite e le discese degli avvenimenti e degli uomini e delle donne che l’attraversavano, anonimi e spettacolari, storie diventate Storia. Quello che però voglio sottolineare è questo pugno di parole di Angrisani:
Alcuni giuristi auspicano una svolta federalista mentre gli ordini professionali e le imprese chiedono una pubblica amministrazione più veloce più efficace e soprattutto meno burocrazia. Si discute di una riforma della giustizia che punti alla separazione delle carriere con processi più celeri.
Beh, trent’anni sono passati, oggi c’è l’ennesimo governo nuovo: avremmo bisogno di bagnarci nell’acqua pulita di un fiume che scorre, invece sembriamo nuotare sempre nello stesso stagno e quindi stagnare, ancora a desiderare, a pensare come bonificarci la palude che ci tocca abitare.
Questo volume, tra i tanti ha il pregio di fissare nella carta, anche virtuale come l’eternità in questo XXI secolo richiede, una parte di memoria della nostra Salerno, quella legata alla biografia dell’autore e alla sua generazione con il non scontato abbraccio delle generazioni di prima e di dopo. Ci sono simboli e pietre antiche, paesaggi e architettura, perché no, imprese commerciali, arti e artisti, comunicazione, desideri ed emozioni che costituiscono archetipi dell’esistenza umana e geografica di più generazioni. Un insieme illimitato di città, con chi è rimasto e con chi vi ritorna, con chi vi passa e ne racconta la memoria vissuta e tutta ancora da costruire. Nell’immaginarsi il futuro e pensare alle trasformazioni possibili, diventa necessario ritrovarsi in una memoria comune, questo è il viaggio storico proposto dall’autore, un racconto letterario per immagini, volti e luoghi della nostra città: Salerno.
Non voglio svelare niente, ogni lettore troverà le sue, ma una pagina mi ha emozionato moltissimo, sì, molto più di molto: l’altra faccia del Natale.
Mamma e nonna stanno lavando i piatti, papà nonno e gli altri componenti della tavola, parlando di sport e di politica. Zio Alfredo, mi invita a seguirlo per fare una piccola passeggiata almeno fino la stazione vuole digerire, ma soprattutto vuole indicarmi qualcosa.
Decido di accompagnarlo, fuori fa freddo, da lontano si sente qualche botto sparato in lontananza. Mio Zio adesso ha deciso di farmi vedere il vero Natale. Con passo svelto arriviamo alla stazione di Salerno ed assisto ad una scena, che mi è rimasta impressa, cinque persone, senza fissa dimora, trascorreranno questa Santa notte, tra i cartoni, dormono uno accanto l’ altro, sono tutti uniti e compatti per dividersi i pericoli della notte e per superare il freddo.
Al bar Buco, che si trova nelle adiacenze dello scalo ferroviario, che sta per chiudere, troviamo Mosam un ambulante senegalese, amico di mio zio Alfredo il quale ci racconta con le lacrime agli occhi la tristezza, che vive questa notte, ci racconta che ha pianto tutta la giornata pensando ai cari in Africa, e che lui si trova in Italia per dare un sostentamento ed un futuro migliore alla sua famiglia.
Pensa alla madre, alle serate trascorse nel villaggio, quando era bambino, ai colori e sapori della sua bellissima Terra. Percorrendo la strada di ritorno ci fermiamo in preghiera alla chiesa Santa Maria ad Martyres, sul lungomare di Torrione, grande ed ancora vuota, le luci sono ancora spente e davanti al tabernacolo sentiamo quella carezza che viene da Dio, mentre torniamo a casa, sotto i portici del Vecchio mercato troviamo il Signor Vincenzo, che ci racconta di aver trascorso questo giorno da solo, ha riempito la giornata, bevendo una bottiglia di spumante, mangiando una fetta di panettone, il vuoto della solitudine, lo ha riempito, ascoltando una rubrica radiofonica dedicata alle persone che vivono da sole, ci chiede di pregare per lui, perché solo e depresso, e si sente un essere inutile.
Zio Alfredo, mi ha fatto vedere l’altra faccia del Natale
“Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”.
Questa frase, resa celebre da Carlo Marx con la Critica del programma di Gotha, viene da tanti ragionamenti “elevati”, anche anarchici e ancora più indietro da speculazioni religiose, vedi gli Atti degli apostoli (cfr. At 4, 35), insomma il diavolo e l’acqua santa sono il mio tormento. Questo testo di Alfonso Angrisani, nel bene e nel male, nella buona e nella cattiva sorte, sarà motivo di discussione e desiderio di socialità trasversale, necessario, un onore e un privilegio per un agnostico come me.
Inserisco integralmente alcune pagine a me molto care nella loro immanenza nostalgica, è un abuso per cui Alfonso spero non mi porti a risponderne in tribunale
🙂
I lidi, Forte La Carnale e la chiesa Santa Maria ad Martyres, il mio diavolo e la mia acqua santa. La serie A di Delio Rossi, la politica di Salerno, e in ultimo ma non per ultimo, il tributo all’arte immensa della satira nel duo Ciro Girardi e Ivano Montano…
«Ascolta ragazzo, la tua storia è dolorosa, il posto non ti piace, capisco se non vorrai accettare questa sistemazione… Ma dimmi, cosa sai di me?»
«Non mi volevi, questo so!» Rabbia. Delusione.
Lentamente il vecchio avanza strisciando i piedi sul pavimento antico lastricato di lavoro e di storie dimenticate: «Non volevo la loro unione. Di te non sapevo niente, sono scappati da me…»
Mentre mette sul fuoco un tegame nero e un pentolino per l’orzo della colazione, la voce del nonno rimbomba nella cucina contadina, vuota di colori, abbandonata: «Non ho mai saputo niente di te…» Tre uova, un barattolo di zucchero e la bottiglia d’olio osservano la scena dei due che si guardano negli occhi mentre lacrime tristissime riflettono la vampa del legno d’ulivo che arde nel camino. Le mani protese del giovane afferrano il tepore che si diffonde nello stanzone gelido, freddo come la sala mortuaria dell’ospedale dove aveva salutato i corpi dilaniati dei suoi genitori. Il dolore straziante avvicina i due come puntini uniti da una chiazza nera d’inchiostro che macchia improvvisa la pagina bianca di parole tutte da scrivere.
«Ascolta ragazzo mio, ci sono momenti che cambiano lo stato delle cose, guarda il vapore come galleggia nell’aria, portandosi appresso l’odore dell’orzo…»
«Che vuoi dire nonno?»
«La mia bambina non la volevo dividere con nessuno. Tua madre era troppo giovane ma non mi ero accorto come ormai fosse già unita a tuo padre, nel corpo e nello spirito. Li vedevo lavorare e giocare insieme: per me era troppo presto… Mi sono opposto e l’ho chiusa in casa. Avevo solo lei dopo la morte di tua nonna. Solo lei… Come d’estate è la temperatura a fare la differenza: l’acqua bolle e nelle bolle l’acqua è vapore che vola via. Così sono scappati come vapore, spariti. Ma come l’inverno gela l’aria, anche l’acqua si ferma e diventa ghiaccio: due atomi di idrogeno e uno di ossigeno sono uniti e sono acqua così è la loro unione, un matrimonio indissolubile, anche nella morte, un amore per sempre.»
dal mio esercizio/contest nel gruppo FB #sese20righe_matrimonio
Ci risiamo, un altro grande romanzo, breve, intenso, appassionante. Dopo aver letto Hello, goodbye di Claudio Grattacaso non ho resistito, dovevo leggerne ancora, altro ancora, e così ho conosciuto Raffaele e la famiglia Cherubini che di questa storia sono l’essenza.
È proprio vero, i romanzi, quelli belli, scritti bene, non scadono, anzi, è a distanza di tempo che dimostrano la loro bontà. Un lustro non è tanto ma con la pandemia e la guerra in Ucraina di oggi che ci soffoca i pensieri, gli anni prima sembrano confusi e indistinti. Ciò che più mi è piaciuto in questa storia è l’introspezione pulsante del protagonista, e con la sua voce l’esplosione del fermento interiore promesso con l’incipit, il prologo, il fuoco.
Non posso né voglio svelare niente, quello che posso dire è che il racconto in prima persona diventa archetipico dell’umanità che ci circonda in tutte le sue forme più aberranti e stereotipate, quelle del potere come quelle delle vite sfibrate, deluse, lacerate. Chi non ha di questi momenti assurdi in cui la voglia più ovvia e convita è schizzare via all’improvviso, scappare, volare fuori, preferire il niente?
Bene, dal fuoco l’incendio, brucia di dolore e di passione questo romanzo, pagina dopo pagina, tocca le corde più oscure dell’animo umano e mi ha messo allo specchio, nella penombra di sentimenti contrastanti: inconfessabili come solo il dolore e la redenzione possono svelare.
Non è l’eroe e nemmeno l’antieroe, forse uso termini a sproposito ma Raffaele Apostolico, filosofo mancato, autista di fiducia, protagonista oscuro e luminoso allo stesso tempo, è uno straordinario affresco tridimensionale della società che viviamo in tutto il suo grigiore corrotto, granuloso, asfissiante e maledetto. Le corde di uno strumento scordato danno suoni fuori scala armonica e così il racconto prende per l’oggettiva crudezza e fastidio, depista la logica cui ognuno soccombe con il senno di poi ma che durante gli eventi ci mettono alla prova giorno dopo giorno, pagina dopo pagina. Se non l’hai letto non sai che ti perdi. Tra le parole anche una canzone mai sentita che parla delle solite cose.