COME DUE SOGNI

romanzo di Ivano Ciminari, Robin Edizioni 2023

Sono stupefatto dal coraggio e dalla presunzione di questo assassino di parole come lui stesso si definisce, membro di una setta artistica che magnificherei con questo slogan: “verso l’infinito e oltre…

La presunzione di Ivano è meritata, per quello che può valere un mio giudizio. Se lui si definisce ignorante, figuriamoci come possa sentirmi io nel leggere la sua opera scritta. Io nemmeno apprendista, né garzone di bottega e neanche vagabondo.

Immaginarsi condotto da Dante in un sogno, come Virgilio conduce il “sommo” nella Divina Commedia è anche oltre ogni idea di presunzione retorica, oltre ogni ricerca semantica capace di eviscerare l’intrigato transfert che attanaglia il me lettore al suo dominio di scrittura, dove poesia e narrativa si fondono come cielo e mare in una limpida giornata d’estate.

Spinto e spronato da un gigante come l’Alighiero, il cammino delle domande poste a Socrate, Omero, Celestino V, addirittura a Cleopatra e all’infinito Pulcinella, sono le briciole di Pollicino che preda degli uccelli, una volta svanite, mi lasciano l’amaro in bocca dello smarrimento. Tanta, troppa luce. Di tale grandezza, di domande e risposte, vorrei scolpita la dura pietra della mia povera mente. C’è solo una cura, ovvia e scontata, leggere, rileggere e studiare, godendo della conquista, assaporando le sfumature celate nell’ombra che gigante cresce ad ogni nuova conoscenza.

Nel sogno, il coraggio e la padronanza delle sue armi più affilate, rendono Ciminari capace di dare voce a Dante con frasi nuove nell’antico dolce stil novo. È uno stile rivoluzionario oggi come lo era allora. Senza dubbio ci vuole coraggio a rinnovarne la proposta. Purtroppo la massa malata di rozzezza che ci circonda, quella del tik tok contemporaneo, credo sia troppo impermeabile ed ottusa, troppo indifferente a tanta magnifica complessità. Quindi onore e merito allo scrittore che oltre al tributo mette in scena la vitalità dell’immortale sapere.

Poi lui si sveglia dall’incredibile sogno.

L’uomo materiale di oggi si sveglia e trova intatto l’Inferno sul comodino della sua esistenza moderna, con lacrime secche negli occhi ad incollare palpebre e pupille ingorde che leggono fatti di cronaca sempre verdi, storie drammatiche ed eterne. Perché galeotto fu quel libro per Paolo e Francesca in cui si narrava l’amore di Lancillotto per Ginevra, perché resta ineluttabile che l’amore di pochi continua a muovere l’invidia e la violenza dei tanti accecati dalla possessione e dalla gelosia dell’oggetto perduto. Peccatori gli amanti, peccatori gli assassini.

Ecco cosa sono queste 148 pagine: uno schiaffo di cultura in faccia all’ottusità di rimuovere i classici nella formazione fluida di oggi che di antico ha solo l’esaltazione barbara della vanità. Ecco il coraggio ciminareo di dimostrarsi presuntuoso quel tanto da lottare con veemenza, con le parole, sulle spalle di un gigante come Dante, contro il vuoto spinto che ci succhia via ogni umanità.

L’epilogo del primo sogno è solo la preparazione al secondo che corre via come una brezza di fresco ristoro. Una bella storia d’amore, pura come l’essenza della conoscenza più pulita e somma.

Il primo sogno ha l’ardore della complessità, lo sforzo sovrumano della sfida a vette distinguibili solo da studiosi dotati di attrezzatura accademica. Il secondo sogno è la piacevole ricompensa, la carezza che ci meritiamo dopo ogni sofferenza.

Ecco quindi l’amore di Valeria e Nicola, due personaggi che lo scrittore crea e attualizza, diversi e attrattivi come Yin e Yang, un tutt’uno indissolubile come Eva e Adamo come appunto Paolo e Francesca. Il secondo sogno è una discesa, piacevole come ogni ritorno nella propria dimora familiare, ancora più amata quanto più duro e tremendo è stato il distacco. Ogni viaggio è come un sogno, un continuo sforzo di equilibrio tra l’incubo della privazione di certezze e il desiderio trascendente di conoscenza.

I protagonisti di Ciminari sono materialmente ancora innocenti ed inconsapevoli d’essere oggetto del potere alchemico del destino. Ancora troppo giovani e già troppo maturi per la loro età nascono e si uniscono in un concerto di musica e poesia come solo la sensibilità di ognuno sa veramente apprezzare. In Valeria e Nicola sfido chiunque a non vederci l’eterno passato, l’eterno presente e l’eterno futuro della storia dell’umanità.

Ivano lascia al lettore il finale, affascinante finale, dando sostanza a quell’operazione di transfert che ho citato prima, a quella relazione intima che vorrebbe ogni lettore legarsi allo scrittore che diventa motore di altri mondi fantastici prima sconosciuti.

Verso l’infinito e oltre, già come gridano i giocattoli per darsi completamente al bambino che ci sopravviverà per sempre, immutabile nei nostri cuori fino all’ultimo battito.

Un vetro di Mirò

di Ivano Ciminari, 2021 Edizioni Montag, collana Le Fenici

“Forse capisco perché non ho mai avuto risposta: perché mai la mia vita dovrebbe essere più lunga o più importante di quella di un semplice filo d’erba?”

macro shot of grass field
Photo by Matthias Cooper on Pexels.com

Stordito, ecco come mi sento alla fine di queste cento pagine di Ivano Ciminari. La sua è una scrittura potente, irriverente e brutale.

Ho conosciuto questo “assassino” come vincitore del primo concorso “I racconti della Divina”, l’ho sentito parlare e ho scavato nel profondo la sua superiore umanità che straborda da un progetto superlativo come #diversamenteliberi .

Il richiamo magnetico alla conoscenza delle sue opere è stata una molla che con questa lettura inizia a comprimersi ancora di più. Ne voglio ancora mi ripeto, cercando di uscire fuori dallo stordimento che mi tiene per aria, alla ricerca di parole che possano rendere dignità e onore ad una penna che si fa Diogene, e che riesce a raccontarsi e raccontare la miseria di cui siamo fatti.

Assassino! Egli è un assassino di luoghi comuni, feroce assassino delle ipocrisie più immanenti che ci rendono schiavi di manipolazioni “globali”, quelle più subdole, imbrogli di cui mi sento vittima “consapevole” e troppo spesso anche “compiacente”.

Questa è la verità, compiaciuto di vivere un tempo moderno, questo testo mi spoglia e mi frusta l’orgoglio di riscoprire l’antico, l’ovvio sentiero di scorticare il passato, rimosso per superficialità immatura di un essere vivente inutile a se stesso e agli altri fuori da un corpo vetrificato di paure.

Questa lettura mi ha liberato dalla vergogna di essere ignorante in quanto è l’ignoranza la base essenziale come il bianco l’insieme dei colori di una tela vuota che brama riempimento. Non so bene ancora se maledire o benedire questa scoperta di fame e sete che gli devo, non so bene ancora se il ghiaccio rende immortale fermando la vita o diversamente la scatena, questa vita tenuta viva dall’immondo istinto di sopravvivenza. Proprio così scopro un senso per Giuda, un senso per il diavolo che ci urla dentro, il significato profondo della donna.

Assassino e adulatore, saltimbanco e profeta, incantatore che dal niente inventa il tutto, blasfemo e devoto:

“… credo che Giuda e Cristo siano stati la stessa carne, accumunata dall’estremo sacrificio perché tutto si compisse.”

Dall’inizio all’ultimo giro di giostra le spine diventano fiori e i fiori diventano spine, e l’orrore, proprio in queste ore dell’ennesima sciagura come quella di Crotone, diventano narrazione e presagio, sentenza irrisolta, condanna perpetua:

“Quanti sogni di libertà sono stati sepolti in quell’immenso sepolcro che è diventato il nostro mare.”

body of water during golden hour
Photo by Sebastian Arie Voortman on Pexels.com

“Uomini orrendi si pasturano del razzismo che hanno alimentato, incassando la connivenza di rane travestite da donna, di puttanieri in doppio petto, di troie siliconate che profetizzano oasi di felicità e di benessere, mentre la tragedia della guerra, del radicalismo e della fame gonfia le nostre acque di vittime sacrificali”

Sono solo cento pagine che da un mese non riesco ancora a digerire perché in fondo parlano di me e non potrei che liberarmene se non vomitando un me stesso che rifiuto e condanno in eterno nell’acido rovente di succhi gastrici senza pietà, di uno stomaco ingordo di altro ancora. Potrei con le classiche due dita in gola vomitare e gettare via la fatica, invece mi rifiuto perché di altro ancora dovrò nutrirmi, di altri vetri taglienti dovrò soffrire, di altre opere tue e di altri assassini, dovrò ingozzarmi fino allo stordimento più totale, e così forse, veramente imparare a vivere.

Lo so bene che non rendo giustizia alla varietà degli umori e degli argomenti trattati nelle quindici storie raccontate da Ivano Ciminari, so bene che faccio torto all’eterogenesi dei fini del suo Diogene vetrificato, però pur nell’indecisione della scelta, se proprio devo scegliere, come vile giudice supremo, mando al rogo l’eretico e lo destino al sacro fuoco della gloria per aver scritto “L’eccidio dell’io maschio”.

È un capitolo che ho fatto leggere alla mia “coinquilina”, sta ancora ridendo di gusto e per questo non avrei incertezze sulla condanna: ardebit in conspectu populi.

Bruci sotto gli occhi del popolo per aver attentato alla superiorità del dio maschio. Però poi leggi “La puttana che sposò l’imperatore” e allora non posso che sospendere ogni irriverenza, inchinarmi e chiedere perdono.