Sei pagine da sballo, una serie infinita di frasi subordinate che iniziato tutte con un che – se non le leggete tutte non potrete mai sapere com’è, un dondolare infinito di onde, parole e concetti, ti avvolgono e ti cullano con dolcezza squisita. Non hai il tempo di pensare eppure pensi, non hai scampo nel riflettere ma lo fai leggendo, una ipnosi che ti trapana da dentro… e alla fine: “I delitti sono un esempio”. Erano iniziate con: “Se in virtù di carità o di disperazione doveste mai trovarvi a passare del tempo in una struttura statale di recupero da Sostanze…” – tra p.239 e p.245
” […] ci sono persone alle quali semplicemente non piacete, qualsiasi cosa facciate. Che nonostante pensate di essere furbi, non lo siete molto. Che oltre il cinquanta per cento delle persone con una dipendenza da sostanza, è contemporaneamente affetto da qualche altra forma di disturbo psichico. Che il sonno può essere una forma di fuga emozionale e che, seppure con un certo sforzo, si può abusarne. Che non occorre amare qualcuno per imparare da lui/lei/esso. Che la solitudine non è una funzione di isolamento. Che la validità logica di un ragionamento non ne garantisce la verità. Che le persone cattive non credono mai di essere cattive, ma piuttosto che lo siano tutti gli altri. Che è possibile imparare cose preziose da una persona stupida. Che se il numero sufficiente di persone beve caffè in una stanza silenziosa, è possibile sentire il rumore del vapore che si leva dalle tazze. Che la vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una volta che capite quanto di rado pensano a voi. Che è possibile addormentarsi di botto durante un attacco di ansia. Che è semplicemente più piacevole essere felici che incazzati. Che ci vuole grande coraggio per mostrarsi deboli. Che praticamente tutti si masturbano. Che tutti sono identici nella segreta tacita convinzione di essere, in fondo, diversi da tutti gli altri. Che questo non è necessariamente perverso.”
Non so cos’è, uno stile? L’ho provato a scimmiottare in un esercizio di 20 righe, una fatica sovrumana (la mia) ma tanto spassosa… l’ho dichiarato ma nessuno me l’ha chiesto. Che quello che interessa gli altri quasi sempre non è quello che interessa a te 🙂 … quanti hanno letto DFW? Sarà forse che mi piacciono i particolari che sfuggono o che sono irrilevanti? Non so, eccolo il raccontino che ho chiamato INCROCI.
“Che la maggioranza delle persone con una dipendenza da Sostanza è anche dipendente dal pensare, nel senso che ha un rapporto compulsivo e insano con il proprio pensiero.”
Poi, un trattato sui tatuaggi … un romanzo nel romanzo, la carne, i muscoli, la pelle, le emozioni, le teste, dei personaggi che ti schizzano in faccia la loro vita con una dolcissima carezza sul cuore… e non ti stanchi, leggi e non ti stanchi…
“C’è qualcosa di inspiegabilmente intenso in un tatuaggio molto sbiadito, un’intensità simile a quella dei vecchi vestitini fuori moda dei bambini, quelli che si trovano ripiegati nei bauli in soffitta ( i vestiti, non i bambini…”
E non mi stanco di leggerlo e rileggerlo…
“Ecco perché i tatuaggi carcerari sembrano fatti da bambini sadici in un pomeriggio di pioggia.”
Dai tatuaggi si ritorna nella camera dei ragazzi, la comitiva più stretta di Hal, compagni di studio, di tennis e di svago, tra loro la regina nei discorsi sulle sostanze è DMZ… “decantato ed elusivo Dmz , detto anche «Madame Psychosis»”. Ne progettano l’assunzione, ma con cautela, devono programmare i loro impegni sportivi, restano competitivi, non possono fallire le priorità di vittoria.
… perché anche l’Lsd il giorno dopo ti lascia non solo sfatto e down ma del tutto vuoto, una conchiglia, vuoto dentro, l’anima come una spugna strizzata.
Non riesco ad andare avanti… le avrò rilette dieci volte. Non è proprio vero, vado avanti ma ritorno sempre indietro, forse anche più di venti volte, è un loop infinito. La mia fortuna oggi è avere un agguerrito torneo sociale di tennis che mi aspetta, non per vincere o perdere ma per soffrire nei muscoli che non seguono il pensiero dietro una pallina che schizza veloce, proprio lì, ai piedi delle colline di Giffoni, dove a luglio migliaia di giovani sono chiamati giuria per il festival internazionale del cinema per ragazzi, mentre ascolto Belfast Child dei Simple Minds ho un groppo in gola che non passa, vorrei piangere, vorrei sapere quando finirà, quando il bambino della città distrutta canterà ancora ma prendo il vecchio borsone e vado a giocare quello che piaceva a David, il gioco più di ogni altra cosa.
” […] ci sono persone alle quali semplicemente non piacete, qualsiasi cosa facciate. Che nonostante pensate di essere furbi, non lo siete molto. Che oltre il cinquanta per cento delle persone con una dipendenza da sostanza, è contemporaneamente affetto da qualche altra forma di disturbo psichico. Che il sonno può essere una forma di fuga emozionale e che, seppure con un certo sforzo, si può abusarne. Che non occorre amare qualcuno per imparare da lui/lei/esso. Che la solitudine non è una funzione di isolamento. Che la validità logica di un ragionamento non ne garantisce la verità. Che le persone cattive non credono mai di essere cattive, ma piuttosto che lo siano tutti gli altri. Che è possibile imparare cose preziose da una persona stupida. Che se il numero sufficiente di persone beve caffè in una stanza silenziosa, è possibile sentire il rumore del vapore che si leva dalle tazze. Che la vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una volta che capite quanto di rado pensano a voi. Che è possibile addormentarsi di botto durante un attacco di ansia. Che è semplicemente più piacevole essere felici che incazzati. Che ci vuole grande coraggio per mostrarsi deboli. Che praticamente tutti si masturbano. Che tutti sono identici nella segreta tacita convinzione di essere, in fondo, diversi da tutti gli altri. Che questo non è necessariamente perverso.”
#davidfosterwallace #infinitejest
#SimpleMinds #BelfastChild
When my love said to me
Quando il mio amore mi disse
Meet me down by the gallow tree
Incontrami giù vicino al patibolo
For it’s sad news I bring
Perché sono notizie tristi che porto
About this old town and all that it’s offering
Che riguarda questa vecchia città e tutto quello offre
Some say troubles abound
Alcuni dicono che i guai abbondano
Some day soon they’re gonna pull the old town down
Un giorno molto presto butteranno giù la vecchia città
One day we’ll return here
Un giorno noi torneremo qui
When the Belfast Child sings again
Quando il bambino di belfast canterà ancora
Brothers, sisters, where are you now?
Fratelli e sorelle, dove siete adesso?
As I look for you right through the crowd
Mentre vi cerco nella folla
All my life here I’ve spent
Ho vissuto tutta la mia vita qui
With my faith in God, the Church, and the Government
Con la fede in dio, la chiesa e il governo
Some say troubles abound
Alcuni dicono che i guai abbondano
Some day soon they’re gonna pull the old town down
Un giorno molto presto butteranno giù la vecchia città
One day we’ll return here
Un giorno noi torneremo qui
When the Belfast child sings again
Quando il bambino di belfast canterà ancora
When the Belfast child sings again
Quando il bambino di belfast canterà ancora
So come back Billy, won’t you come on home?
Quindi torna a casa billy, non vuoi tornare a casa?
Come back Mary, you’ve been away so long
Torna maria, sei stata lontana per cosi tanto
The streets are empty, and your mother’s gone
Le strade sono vuote, e tua mamma non c’è più
The girls are crying, it’s been, oh, so long
Le ragazze stanno piangendo, è passato cosi tanto tempo
And your father’s calling, come on home
E tuo padre sta chiamando, torna a casa
Won’t you come on home? Come on home
Perché non torni a casa?
Come back people, you’ve been gone a while
Tornate gente, è da un bel po’ che mancate
And the war is raging, through the Emerald Isle
E la guerra si sta infuriando, attraverso le isole di emerald
That’s flesh and blood man, that’s flesh and blood
Questo è carne viva e sangue, questo è carne e sangue
All the girls are crying, but all’s not lost
Tutte le ragazze stanno piangendo, ma non tutto è perso
Well, the streets are empty, the streets are cold
Beh, le strade sono vuote, le strade sono fredde
Won’t you come on home? Won’t you come on home?
Non vuoi tornare a casa? Non vuoi tornare a casa?
The streets are empty
Le strade sono vuote
Life goes on
La vita va avanti
One day we’ll return here
Un giorno noi torneremo qui
When the Belfast child sings again
Quando il bambino di belfast canterà ancora
un pauso meritatissimo a Mario e a tutti, insieme per un altro pomeriggio ancora, abbiamo sconfitto ogni tristezza!!! Grazieeee!!!
In scena entrano Marathe e Steeply, agenti segreti, poliziotti, doppio e triplo gioco, le storie si intrecciano e il mistero, l’intrigo internazionale si fa fitto ma tanto, tanto divertente, appunto, uno scherzo infinito. Provo ad immaginare una scena che possa minimamente descrivere questo mio piacere costante che non scema nonostante la difficoltà di un testo difficile e tormentoso.
Ho fame, vedo una zuppiera piena di riso e mille colori di ingredienti riconoscibili e non. La tavola è enorme, imbandita e succulenta ma io vedo solo la zuppiera. Dentro il riso bianco e scuro, tostato e bollito, pieno di tutto, finanche rivoli copiosi di salse rosse, viola, verdi e nere, alcune gialle. Ho fame tanta fame. DFW mi porge un chicco alla volta, mi aumenta la fame e ad ogni chicco ne aumenta il gusto, una tortura irresistibile, l’acquolina brucia sul palato, il piacere di un piacere diverso da quello precedente e precedente ancora. A bocca aperta aspetto di placare questo bisogno con un chicco ancora, una parola nuova, una frase, un particolare, un gesto, un filo di nuova atmosfera, un pensiero. Una pagina ancora avanti e poi ancora dieci indietro. Una tortura irresistibile.
In scena entra lo spogliatoio di Hal, i suoi amici, i ragazzini da accudire, i maestri, i competitori da abbattere, i due fratelli eternamente presenti, un frastuono intimo, acre come il gesso su una vecchia lavagna di ardesia, e poi il padre e poi anche il nonno… Straziante ed estraniante, la capacità di rendere fondamentali momenti irrilevanti, inutili, normali, costituenti, le fondamenta, le fogne. Un fascio di nervi come una corda enorme intrecciata da mille fili, mi frusta e mi accarezza, enorme come quella d’attracco delle navi da crociera, cordame di un veliero in tempesta, un fascio di emozioni bagnate e salate di vita, tese e mollate che vedo schizzare fuori dalle pagine: anche un primo amore, di quelli di un’altro giocatore top, un mito tra i ragazzi, un atleta femmina, il sesso solo nemmeno ipotizzato, non tuo, forse una voglia sua, di quelle emozioni non colte, sprecate, mai consumate, di quelle che ti lasciano il segno per sempre.
Ho appuntato centinaia di frasi, dopo altre cento pagine nemmeno le ricordo, anche due o tre per pagina. Ne riporto solo una. Quanta vergogna mi coglie sempre più affamato e voglioso di altri granelli dal gusto inesplorato, mentre tutt’intorno la fame di notizie sulla guerra fanno di me un lercio spione di realtà truce e tristissima.
“Il deserto era del colore fulvo del manto di un leone.”
“Steeply si guardò. Uno dei seni finti (di certo finti: di certo non si sarebbero spinti fino all’ormonale, pensò Marathe) quasi gli toccava il doppio mento, quando si chinava. «Mi è stato chiesto di verificare personalmente, questo è tutto», disse. «La mia impressione è che i pezzi grossi dell’Ufficio considerino l’incidente una faccenda imbarazzante. Ci sono teorie e controteorie. Ci sono perfino antiteorie che presuppongono errori, scambi d’identità, scherzi pesanti».”
Prozac, Zoloft, Parnate, Litio, Valium, Xanax, Tavor, Lexotan, Valium, Ansiolin, Control, Rivotril, Lorans, Diazepam, Alprazolam, Lorazepam e poi TENNIS tanto tennis… addirittura definito un ibrido tra scacchi e boxe.
Basterebbe chiedersi “com’è esattamente la storia dei bicchieri capovolti e appannati sul pavimento del bagno” per cadere in una tela intricata di sequenze al limite della realtà più luminosa dei led che vi sputano dallo schermo queste parole di commento.
Sarà il destino o l’allineamento dei pianeti lontani ma comunicare dalla bolla esistenziale di queste ore, ingolfata di paura di guerre e odio, dai virus in continua varianza ai soldatini armati sulla neve nell’Est Europa come ai tempi di Napoleone o Hitler, comunicare dicevo, è un trip che la scrittura di DFW rende un desiderio incontrollabile.
Alla fine potrò dire di averlo letto più e più volte. È la mia lentezza genetica ad impormi un ritmo da lumaca che per lo più mi fa tornare indietro e rileggere. Gli intrecci dei racconti sono peggio di un labirinto ma a tenerli insieme è la tensione dei personaggi, la loro azione e reazione è qualcosa di veramente speciale. I salti temporali sono continui, le infanzie, le adolescenze, infine la cosiddetta maturità dei protagonisti, sono uno spazio continuo, unito nella folle consistenza di una razionalità stupefacente. Questo testo mi colpisce e mi stordisce ad ogni pagina, capitolo dopo capitolo. Avrei voluto lasciare tracce di commento in modo più frequente, ma i racconti di David sono magnetici, le note poi… infinite. Chiusa pagina 100 siamo oltre 30 note, da perderci la testa. La più importante, a questo punto, è la nota 25:
JAMES O. INCANDENZA: UNA FILMOGRAFIA.
Sono i film diretti dal papà di Hal in dodici anni di attività, sono sperimentazioni ottiche e sensoriali all’ennesimo livello, tra questi titoli, descritti con minuzia esasperante, ricorre cinque volte INFINITE JEST; nella fase di postproduzione dell’ultimo, il numero V, il regista muore e questa ultima pellicola (riduttivo chiamarla così) sembra scomparsa, distrutto il master, incompleto e non distribuito per gli archivisti anche se qualche studioso l’ha visto. Sembra essere il miglior lavoro depositato nelle volontà testamentarie dell’autore. Che fine avrà fatto?
Una nota di dieci pagine fittissime, un elenco infinito di opere visive per dare alla figura paterna di Hal una pesantezza e grandiosità oltre l’umano: come si deve sentire il figlio di un personaggio mostruosamente grande, una sorte di entità mitologica metà Fellini e metà Oppenheimer, un mostro esageratamente asfissiante e fagocero, e la sua essenza e la sua assenza? Cosa può chiedere alla vita il figlio geniale del Lui in Persona?
Un’altra nota degna di menzione è la descrizione della struttura della scuola ETA (Enfield Tennis Academy) fondata dal papà di Hal a forma di cardioide.
La trama sembra svelarsi, entro le prime 100 pagine vengono delineati i fratelli di Hal, la madre accademica ma anche agente segreto (???), il padre geniale regista, studioso di ottica che fonda la scuola di tennis, una struttura mostruosamente funzionale e futurista dove cresce il piccolo Hal abbandonato in giovane età da un “Lui in persona” morto troppo presto. E poi gli amici del quartiere e i danni subiti nelle violenze familiari come corollario di teoremi emozionali, precisi, dirompenti nel lettore che immerso nel profondo, viene trascinato da una tempesta furiosa, che ti fa annegare e tornare a galla, da un periodo all’altro.
Nelle prime 100 pagine si delineano i temi, il tennis, i medici, le dipendenze, i giovani e le loro devianze. A me sembra una sorta di rappresentazione di sopravvissuti, alla selezione sociale, alla competizione, alla formazione da parte di insegnanti che hanno fallito la loro scalata personale al successo e che, riciclati, sopravvissuti anche loro, diventano istruttori. È la metafora di un’America nascosta sotto l’apparenza, sotto la pelliccia di potente benessere, e della sua classe dirigente alle prese con gli scontri geopolitici di dominio delle risorse naturali, delle terribili sostanze chimiche di controllo, con la tecnologia e la persuasione collettiva dei bisogni emozionali e fisici. Il trasferimento di eredità tra generazioni diventa la riproduzione di modelli arcaici di controllo sociale, tra questi l’intrattenimento assurge ad opera d’arte.
Un altro modo in cui i padri influiscono sui figli è che i figli, una volta che le loro voci sono cambiate con la pubertà, invariabilmente rispondono al telefono con le stesse locuzioni e intonazioni dei loro padri. La cosa resta vera indipendentemente dal fatto che i padri siano ancora vivi o meno.
«Voglio dirti», disse la voce nel telefono, «che la mia testa è piena di cose da dire».
Mario è il fratello che non gioca, ha limiti fisici e mentali. Segue Hal nelle sue partite, dorme con lui, insieme parlano e si contaminano dei ricordi infantili, i genitori, il papà che non c’è più e la madre che ha smesso di viaggiare rinchiudendosi nella loro casa/scuola, una sorta di riformatorio di lusso, fondato quasi espressamente per strutturare con scientifica precisione e severità, la formazione degli eredi dell’Impero visionario di J. O. Incandenza, il Lui in Persona.
E poi, incomincio a conoscere un assistente medico di un potente principe saudita (delle nazioni petrol-arabe) che resta affascinato, ipnotizzato da una senso-cartuccia misteriosa che gli è stata recapitata anonima con un semplice augurio di “buon anniversario” mentre la moglie è assente, impegnata come tutti i mercoledì, a giocare a tennis con le mogli dei diplomatici del Medioriente. La donna lo troverà così, allucinato, steso dentro il suo letto ipertecnologico del riposo, dopo aver visto e rivisto per ore questo misterioso senso-film anonimo.
Le cartucce d’intrattenimento sono film con coilvolgimento sensoriale, DFW ha precorso i tempi, ci siamo quasi, oggi la tecnologia c’è ma non siamo ancora alla diffusione di massa di prodotti di questo tipo, ci sono i visori, le tute sensoriali, le poltrone che vibrano, e il Meta-verso annunciato dal creatore di Facebook. La realtà virtuale da vivere come intrattenimento sarà il nuovo oppio del popolo? La sfida è sostituire gli effetti della chimica ingeriti con le visioni e i sensi stimolati con la tecnologia dei chip e software di programmatori visionari?
Nell’ANNO DELLA SAPONETTA DOVE, un racconto straziante, metropolitano senza ancoraggi culturali se non l’esperienza diretta dei ragazzi, conosco i primi amici di Hal (ma è proprio lui?), Wardine, Reginald…
Wardine c’ha la schiena tutta botte e tagli. Segni lunghi di tagli che vanno su e giú per la schiena c’ha Wardine, righe rosa, e intorno alle righe la pelle tipo la pelle sulle labbra. Solo a vederle mi fa male la pancia.
Wardine piange. Reginald dice che Wardine dice che la sua mamma la tratta male. Dice che sua mamma gliel’ha date con la gruccia. Dice che il tipo della mamma di Wardine, Roy Tony, vuole andare a letto con Wardine. Le dà le caramelle e le dà delle pacche sul culo. Lui le sta sempre davanti e ogni volta non la fa passare senza che la tocca. Reginald dice che Wardine dice che la notte Roy Tony quando la mamma di Wardine è a lavorare va ai materassi dove ci dormono Wardine e William e Shantell e Roy il piccolo, e sta là al buio, fatto, e le dice le cose piano e ansima. La mamma di Wardine dice che è Wardine che lo tenta a Roy Tony nel Peccato. Wardine dice che lei dice che Wardine cerca di portare Roy Tony con lei dritto nel Male e nel Peccato. A botte sulla schiena la prende, con le grucce che leva dallo stanzino. Mia mamma dice che la mamma di Wardine non ci sta con la testa. Mia mamma ha paura di Roy Tony.
Roy Tony è un criminale, è ai domiciliari con una cavigliera elettronica di vigilanza.
Poi Mildred…
Mildred Bonk. Era il tipo di ragazza imprendibile, fatalmente bella, che fluttua per i corridoi di liceo nei sogni degli eiaculatori notturni.
Poi Tommy Doocey, famigerato spacciatore di erba…
La storia di una mattinata di Orin, l’altro fratello maggiore di Hal, è da brividi, realtà e incubi sono intrecciati con fobie e lo studio della schizofrenia paranoide riassunta in un documentario del passato. Letto per la terza volta diventa un dovere ossessivo, un rito, una religione da servire. Sarà stato questo l’effetto della Bibbia negli esseri umani del basso medio evo? Gli umani che bruciavano le streghe? È questo modo di subire un testo che da origine ai riti di lettura come preghiera e penitenza, come sottomissione all’incomprensibile?
Per Orin Incandenza, n. 71, il mattino è la notte dell’anima. Psichicamente, il momento peggiore della giornata.
Poi dopo Orin, l’altro fratello giocatore, ancora un racconto di Hal. Chi non ha spinto con le mani il fumo delle prime sigarette proibite fuori dalla finestra? Per non farsi beccare dai genitori, da un superiore, un insegnante, da una ragazza amata che odia la puzza e il fatto di alterarsi con sostanze strane? Perché l’amore se è drogato non è amore? Mettere a tacere le domande o sfruttare le inquiete paure di non sentirsi all’altezza, di sentirsi perdenti? Come lo racconta DFW di Hal che si nasconde nei tunnel sotto la scuola, è molto ma molto epico. Hal, diciassette anni, si fa e lo fanno tutti.
E allora DFW, quasi mi avesse ascoltato, mi fa vedere cosa pensa e come si comporta la madre… e così scopro che il mostro per il genitore è l’alcol, quasi una minaccia ereditaria da prevenire.
La Sig.ra Avril Incandenza non va pazza all’idea che Hal beva, soprattutto per via di quanto beveva suo padre da vivo in Az e in Ca e, a quanto si dice, il padre di suo padre prima di lui; ma la precocità accademica di Hal e in particolare i suoi recenti successi nei tornei del circuito juniores indicano chiaramente che lui è in grado di gestire le piccole dosi che lei è certa consumi – la psicoconsulente dell’Eta, la Dott.ssa Rusk, le assicura che è impossibile prendere seriamente una sostanza e mantenere un livello altissimo di prestazioni accademiche e atletiche, specie la parte atletica – e Avril ritiene importante che un genitore solo sia attento ma non asfissiante e sappia quando è il caso di lasciare un po’ andare e permettere ai due figli iperfunzionanti dei suoi tre di commettere i loro eventuali errori e imparare dalle proprie valide esperienze, senza pensare alla segreta paura degli errori che rivolta le budella alla loro madre.
Dentro c’è l’analisi di tutta la società americana imposta come un fardello sulle muscolose spalle dei ragazzi iperfunzionanti, una comunità di solitudini, alterata, drogata dall’infanzia, in ricreazione perenne. L’abbondanza, la ricchezza, e la competizione sfrenata, senza appello.
Le droghe ricreative sono piú o meno una tradizione di tutte le scuole secondarie degli Stati Uniti, forse per le tensioni senza precedenti che vi s’incontrano: postlatenza e pubertà e angoscia e imminente età adulta eccetera. Per aiutare a gestire le tempeste interpsichiche eccetera.
Poi una stanza, un altro racconto, e gli intrecci aumentano, come i salti temporali. Una stanza qualsiasi del grande dormitorio, una delle tante giovani promesse… e ancora incubi vivi come la fiamma di un fuoco indomabile, la paura, quella di un dodicenne nella prima notte passata all’ETA.
Stanza 204, Subdormitorio B: Jim Troeltsch, diciassette anni, nato a Narberth Pa, n. 8 nell’attuale classifica Under 18 maschile all’Enfield Tennis Academy, e dunque secondo singolarista della squadra B, si è ammalato.
Poi la storia del Lui in persona, il Dott. in Scienze educazionali James Orin Incandenza e il racconto della sua formazione, figlio di un ex tennista, anche lui, scienziato, diventato ricco con innumerevoli brevetti nel campo dell’ottica, regista visionario e fondatore dell’ETA, un romanzo dentro il romanzo, finito con il suicidio all’età di soli cinquantaquattro anni.
Eccone solo uno spizzico…
Il matrimonio durato da maggio a dicembre26 dell’alto, sgraziato, isolato e semialcolizzato Dott. Incandenza con una delle poche vere bombe di sesso del mondo accademico nordamericano, l’estremamente alta e nervosa ma anche estremamente carina e aggraziata e astemia e raffinata Dott.ssa Avril Mondragon, l’unica figura femminile accademica ad aver avuto la Cattedra MacDonald in Uso Prescrittivo al Royal Victoria College della McGill University, che Incandenza aveva incontrato in una università di Toronto durante una conferenza in cui i Sistemi Riflettenti venivano messi a confronto con i Sistemi Riflessivi, questo matrimonio fu reso ancora piú romantico dalle tribolazioni burocratiche per ottenere prima un Visto di Uscita poi uno di Entrata, per non parlare della Carta Verde, perché anche se ora era la professoressa Mondragon, sposata con un cittadino americano, il suo coinvolgimento ai tempi dell’università con certi membri della Sinistra separatista québechiana aveva collocato il suo nome sulla lista delle personnes à qui on doit surveiller attentivement della Reale polizia canadese a cavallo. La nascita del primo figlio degli Incandenza, Orin, era stata almeno in parte una manovra legale.
Poi il medico, il reparto psichiatrico e la storia di Kate Gompert. Allucinante ma vera come la carne appena macellata, appesa a gocciolare sangue.
I dottori tendono a entrare nelle arene della loro pratica professionale con una disposizione d’animo allegra e vivace che devono poi bloccare e attenuare non appena arrivano nell’arena del quinto piano dell’ospedale, il reparto psichiatrico, dove una disposizione d’animo allegra e vivace sarebbe vista come una sorta di gongolio maligno. Ecco perché nelle corsie psichiatriche i dottori hanno cosí spesso quell’espressione accigliata e un po’ finta di concentrazione perplessa, se e quando li si vede nei corridoi del quinto piano. Ed ecco perché un medico d’ospedale – persone in genere robuste, rosee e senza pori che sanno quasi sempre di buono e di pulito – si presenta a ogni paziente psichiatrico con un piglio professionale a metà strada fra il blando e il profondo, una partecipazione distante ma sincera che appare equamente suddivisa fra il disagio soggettivo del paziente e la dura realtà del caso.
Kate Gompert era sottoposta agli Speciali, vale a dire Sorveglianza Antisuicidio, vale a dire che a un certo punto la ragazza aveva mostrato sia Ideazione sia Intento, vale a dire che doveva essere guardata a vista ventiquattr’ore al giorno da un membro dello staff fino a che il medico supervisore non avesse revocato gli Speciali.
Gompert, Katherine A., anni 21, Newton Ma. Impiegata informatica in un’agenzia immobiliare a Wellesley Hills. Quarta ospedalizzazione in tre anni, tutte depressioni cliniche, unipolari. Una serie di trattamenti elettroconvulsivi due anni prima al Newton Wellesley Hospital. Sotto Prozac per un breve periodo, poi Zoloft, piú di recente Parnate insieme al litio. Due precedenti tentativi di suicidio, il secondo l’estate scorsa. Bi-Valium sospeso da due anni, Xanax sospeso da un anno – una storia esplicitamente ammessa di abuso di medicinali prescritti. Classica depressione unipolare, caratterizzata da acuta disforia, ansia con panico, episodi diurni di svogliatezza/agitazione, Ideazione con o senza Intento.
Era quasi morta due volte, Katherine Ann Gompert.
«Voglio solo che lei mi faccia l’elettroshock. Mi tiri fuori. Farò qualunque cosa lei desideri».
E poi … l’istruttore tedesco con un pizzico di “potenziale protofascista”
Gerhardt Schtitt, Allenatore Capo e Direttore Atletico dell’Enfield Tennis Academy di Enfield Ma, fu corteggiato senza tregua dal Preside dell’Eta, Dott. James Incandenza, fu praticamente implorato di entrare a far parte dell’Accademia proprio nel momento in cui la cima della collina fu spianata e l’istituto stava per nascere.
È una impresa quasi irrispettosa provare a sintetizzare DFW, io dico impossibile, tu dirai inutile e tediosa, ma, perdono chiedo perdono, copio e mostro piccoli pezzi come fotogrammi di scene come fossero amuleti o reliquie da ricordare. È un trailer compulsivo, orgasmi ripetuti. Sono quelli che mi prendono di più, quelli che meglio comprendo. Con i richiami (sublimi e geniali) alla Matematica, adesso capisco l’assoluta ammirazione e devozione che i veri matematici hanno per DFW.
Questo è un estratto dalla nota 35 a p.1193: “… ove Cantor era un teorico degli insiemi dell’èra del ventesimo secolo (tedesco, per di piú) e piú o meno il fondatore della matematica transfinita, l’uomo che dimostrò che certi infiniti erano piú grandi di altri infiniti, e la cui Prova Diagonale del 1905 (anno piú anno meno) dimostrò che ci può essere un’infinità di cose fra due cose indipendentemente da quanto sono vicine fra loro le due cose, la quale Prova D. influenzò profondamente l’intuizione del Dott. J. Incandenza sull’estetica trans-statistica del vero tennis.”
Incandenza aveva deciso che avrebbe portato Schtitt nel comitato direttivo a ogni costo – nonostante Schtitt fosse stato di recente invitato a dimettersi dallo staff di uno dei campi di Nick Bollettieri a Sarasota a causa di uno sfortunatissimo incidente nel quale era stato coinvolto un frustino da equitazione. Ma ormai tutti all’Eta pensano che le storie sulla faccenda delle punizioni corporali di Schtitt debbano essere state gonfiate all’inverosimile, perché se è vero che Schtitt continua a portare quegli alti stivaloni neri lucenti e, sí, anche le mostrine militari, sí, ancora, e una bacchetta retrattile da meteorologo che è chiaramente un surrogato del vecchio frustino da equitazione ora proibito, lui, Schtitt, a quasi settant’anni si è ammorbidito fino a diventare una sorta di anziano uomo di Stato che comunica astrazioni piú che disciplina, un filosofo anziché un re.
Allora ecco la filosofia del tennis moderno contro la modernità, la distruzione di tutto quello che DFW sembra odiare, la media, la statistica, la massificazione. In bocca al suoi protagonisti mette l’esaltazione del bello, della magia, del talento e dell’unicità, facendone un trattato scientifico con tanto di note sempre più specializzate. Sull’altare che non posso non venerare, appaiono distinte le contrapposizioni e le scelte: il Lui in persona sceglie l’appassionato ma ignorante Schtitt per proferire e tramandare il verbo (nonostante sia un anzianotto a digiuno di matematica) mentre il protofascista sceglie Mario, il meno funzionante dei figli del patriarca suicida.
Potrebbe sembrare strano che il leptosomatico Mario I., tanto menomato da non riuscire a tenere in mano una racchetta figuriamoci poi a usarla per colpire una palla in movimento, sia l’unico ragazzo all’Eta di cui Schtitt cerchi la compagnia, anzi l’unica persona con cui Schtitt parli francamente, senza il cipiglio pedagogico.
Cavolo ma cos’è un leptosomatico?
Sono speculativi, inclini all’arte, difficile da adattare, introversi, timidi e seri, dotati di grande energia e tenacia. Questo tipo è associato con il temperamento schizotimico caratterizzato da oscillazioni tra ipersensibilità e frigidità.
Schtitt possiede quella spaventosa tenacia degli anziani che ancora fanno energicamente moto. Ha degli attoniti occhi azzurri e un taglio a spazzola di un bianco acceso che appare virile e appropriato sugli uomini che hanno già perso un bel po’ di capelli. E una carnagione candida come le lenzuola pulite, tanto che quasi brilla: un’evidente immunità ai raggi Uv del sole; nel crepuscolo ombreggiato dai pini è quasi un bagliore bianco, come fosse ritagliato nella pasta di luna.
Mario è un fan sfegatato di Gerhardt Schtitt, ma la maggior parte degli altri ragazzi dell’Eta lo considera probabilmente fuori di testa, e rincitrullente per via della sua logorroicità, e se mostrano al vecchio saccentone un rispetto di facciata lo fanno solo perché Schtitt continua a sovrintendere di persona all’attribuzione quotidiana degli allenamenti
Schtitt affrontava il tennis agonistico piú da matematico puro che da tecnico del gioco. Gran parte degli allenatori di tennis juniores sono sostanzialmente dei tecnici, degli sbrigativi praticoni che pensano di poter risolvere ogni problema con le statistiche, con un po’ di psicologia da quattro soldi e un mucchio di chiacchiere motivazionali.
Schtitt, sapeva che il vero tennis non era fatto da quella mistura di ordine statistico e potenziale espansivo che veneravano i tecnici del gioco, ma ne era anzi l’opposto – non-ordine, limite, i punti in cui le cose andavano in pezzi e si frammentavano nella bellezza pura. Che il vero tennis non era piú riducibile a fattori delimitati o a curve di probabilità di quanto lo fossero gli scacchi o la boxe, i due giochi di cui è un ibrido.
Caro diario, sei nato come un gioco, cresci giorno dopo giorno come un essere vivente sfamando bisogni compressi e desideri lamentosi, ti riproduci e cresci ancora. Ti posso fare una domanda? Chi di noi due è l’ospite?
Fosse ancora tra i viventi, il Dott. Incandenza descriverebbe ora il tennis nei termini paradossali di ciò che viene adesso chiamata «Dinamica ExtraLineare». E Schtitt, le cui nozioni di matematica formale sono probabilmente equivalenti a quelle di un puericultore taiwanese, sembra tuttavia sapere ciò che Hopman e Van der Meer e Bollettieri sembrano ignorare: e cioè che individuare la bellezza e l’arte e la magia e il miglioramento e le chiavi dell’eccellenza e della vittoria nel complesso flusso di una partita di torneo non è una questione frattale di mera riduzione del caos a forma. Sembrava sentire intuitivamente che non era una questione di riduzione ma – perversamente – di espansione, il fremito aleatorio della crescita incontrollata e metastatica – ogni palla ben colpita ammette n possibili risposte, 2n possibili risposte a queste risposte, e cosí via fin dentro quello che Incandenza avrebbe definito per chi condividesse entrambe le sue aree di sapere un continuo cantoriano di infinità di possibili colpi e risposte, cantoriano e bello perché capace di crescere eppure contenuto, un’infinità di infinità di scelte ed esecuzioni, matematicamente incontrollata ma umanamente contenuta, delimitata dal talento e dall’immaginazione di se stessi e dell’avversario, ripiegata su se stessa dalle frontiere date dall’abilità e dall’immaginazione che infine fanno soccombere uno dei giocatori, che impediscono a entrambi di vincere, che finiscono col fare di tutto questo un gioco, queste frontiere del sé.
«Cioè le linee di delimitazione del campo sono frontiere?» prova a chiedere Mario. «Lieber Gott nein», con un suono plosivo di disgusto. Schtitt preferisce fare figure di fumo piuttosto che i classici anelli, e non è che sia bravo, cosí crea delle specie di tremolanti hot dog color lavanda che Mario trova deliziosi. Ecco cosa c’è da dire di Schtitt: come la maggior parte degli europei della sua generazione, ancorato com’è sin dall’infanzia a certi valori permanenti che – sí, ok, d’accordo – possono, ammettiamolo, avere un pizzico di potenziale protofascista, ma che comunque (i valori) ancorano mirabilmente un’anima e il corso di una vita – roba patriarcale del Vecchio Mondo come onore e disciplina e fedeltà a una qualche entità piú grande – Gerhardt Schtitt non tanto disapprova i moderni Stati Uniti d’A. onaniti, quanto invece li considera esilaranti e spaventevoli allo stesso tempo. Forse piú che altro semplicemente alieni.
Schtitt si è formato ai Gymnasium preUnificazione secondo l’idea piuttosto kanto-hegeliana che l’atletica juniores fosse poco piú che un addestramento a essere cittadini, che l’atletica juniores fosse imparare a sacrificare i ristretti e impetuosi imperativi del Sé – i bisogni, i desideri, le paure, gli aneliti multiformi della volontà appetitiva individuale ai piú importanti imperativi di una squadra (ok, lo Stato) e a un insieme di regole precise (ok, la Legge). Tutto questo sembra quasi spaventosamente semplicistico, ma non per Mario che ascolta dall’altra parte del tavolo di legno da picnic. Apprendendo, in palestra, le virtú che dànno i loro frutti nei giochi di competizione, il ragazzo ben disciplinato comincia ad assemblare le qualità che piú lo allontanano dalla gratificazione, le piú astratte e necessarie per essere un «giocatore di squadra» in un’arena piú vasta: il caos morale ancora piú sottilmente diffratto dell’essere cittadino a pieno diritto di uno Stato. Solo che Schtitt dice Ach, ma come si fa a credere che questo addestramento possa assolvere il proprio scopo in una nazione experialista, che esporta i suoi rifiuti, che sta dimenticando la privazione e la durezza e la disciplina che la durezza insegna a ritenere necessaria? Gli Stati Uniti di una moderna America dove lo Stato non è una squadra o un codice ma una specie di intersezione abborracciata di desideri e paure, dove l’unica forma di consenso pubblico a cui il ragazzo ben disciplinato deve arrendersi è la supremazia riconosciuta della ricerca diretta di quest’idea miope e piatta della felicità personale: «Il piacere felice della persona sola, sí?»
… sono quelle frontiere se non le linee di fondocampo, che contengono e dirigono verso l’interno l’infinita espansione del gioco, che rendono il tennis simile agli scacchi in movimento, un gioco bello e infinitamente denso?
La grande intuizione di Schtitt, sua grande attrattiva agli occhi del defunto padre di Mario: Il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C’è sempre e solo l’io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall’altro lato della rete: lui non è il nemico: è piú il partner nella danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione. Le infinite radici della bellezza del tennis sono autocompetitive. Si compete con i propri limiti per trascendere l’io in immaginazione ed esecuzione. Scompari dentro il gioco: fai breccia nei tuoi limiti: trascendi: migliora: vinci. Ecco la ragione per cui il tennis è l’impresa essenzialmente tragica del migliorare e crescere come juniores serio mantenendo le proprie ambizioni. Si cerca di sconfiggere e trascendere quell’io limitato i cui limiti stessi rendono il gioco possibile. È tragico e triste e caotico e delizioso. E tutta la vita è cosí, come cittadini dello Stato umano: i limiti che ci animano sono dentro di noi, devono essere uccisi e compianti, all’infinito. Mario pensa a un palo d’acciaio alzato fino ad arrivare a due volte la sua altezza e sbatte una spalla sul bordo d’acciaio verde di un cassonetto e piroetta verso il cemento prima che Schtitt si precipiti in avanti per afferrarlo a metà strada, e sembra quasi che siano impegnati in un casquè mentre Schtitt dice che questo gioco che tutti i ragazzi sono venuti a imparare all’Eta, questo infinito sistema di decisioni e angoli e linee che i fratelli di Mario hanno lavorato cosí mostruosamente tanto per padroneggiare: lo sport fatto dai ragazzi non è che una sfaccettatura della vera gemma: la guerra infinita della vita contro l’io senza il quale non si può vivere. Schtitt poi sprofonda nel tipo di silenzio di chi si diverte a riavvolgere e riascoltare mentalmente ciò che ha appena detto. Mario sta di nuovo pensando intensamente. Sta pensando a come articolare una domanda tipo: Ma allora lottare e sconfiggere l’io equivale a distruggersi? È come dire che la vita è pro morte? Tre ragazzini allstoniani di passaggio scimmiottano e prendono in giro l’aspetto di Mario dietro le spalle dei due. Alcune delle espressioni di Mario mentre pensa sono quasi orgasmiche: congestionate e molli. E allora quale sarebbe la differenza fra il tennis e il suicidio, la vita e la morte, il gioco e la sua fine?
I commenti più frequenti che ho letto in rete sono: “facilmente ti perdi”, “mi sono perso”. Quindi vorrei evitare e mi sono imposto una maratona dal ritmo lento ed incostante con tante pause e riletture per non smarrire la strada dell’impresa.
La vita frenetica in cui non siamo che ingranaggi impazziti, ci toglie il respiro per non parlare della bestialità del momento pandemico che da due anni ci ha cambiato l’esistenza, alcuni dicono anche il DNA. Quindi, metto in stop la realtà e riprendo la conoscenza di Hal nell’anno dei cerotti.
«Hai quanti anni, Hal, quattordici?»
«Ne avrò undici a giugno. Lei è un dentista? È una specie di consulto dentistico?»
«Sei qui per conversare».
«Conversare?»
«Comincerò io, chiedendoti se conosci il significato di implorare, Hal».
Sintetizzare il testo di questo scherzo infinito è impossibile se non sacrilego, ma l’intento è anche annodare i fili del racconto. Un primo accenno della mamma e del fratello di Hal l’ho già trovato subito nel primo capitolo, è un ricordo infantile di Hal a quattro anni. Adesso ne ha dieci, ma può mai esistere un ragazzo così pronto, a quell’età, a fronteggiare domande subdole, tanto da rovesciare a suo vantaggio, la conversazione con un adulto che lo mette alla prova, alla vigilia dell’ennesima partita importante di tennis? A dieci anni?
«Ti chiedo di nuovo se conosci implorare, signorino».
«Signorino?»
«Porti il farfallino, dopotutto. Non ti pare un invito a farti chiamare signorino?»
«Implorare è un verbo regolare, transitivo: invitare o chiedere, con suppliche; pregare qualcuno, o per qualcosa, ardentemente; invocare; scongiurare. Sinonimo debole: esortare. Sinonimo forte: supplicare. Etimologia non composta: dal latino implorare, im cioè “in”e plorare cioè, in questo contesto, “piangere sonoramente”. Oed. Condensato Volume Sei pagina 1387 colonna dodici e un pezzetto della tredici».
Ecco che l’irreale diventa solida presenza a se stesso, anzi l’esaltazione del suo genio:
«A volte mi cazzottano ben bene all’Accademia, per delle cose tipo queste. Ha qualche relazione col perché sono qui il fatto che sono un giocatore di tennis juniores classificato a livello continentale che sa anche recitare grossi pezzi di dizionario, verbatim, a piacere, e ogni tanto viene cazzottato, e porta il farfallino? Lei è uno specialista per ragazzi dotati? Significa che pensano che sia dotato?»
Adulto? Quale? Perché? Uno strizzacervelli? Entra in scena il padre.
«Hal, sei qui perché sono un conversazionalista professionista, e tuo padre ha fissato un appuntamento con me, per te, per conversare».
«Non cominci a guardare l’orologio come se le stessi portando via tempo prezioso. Se Lui in Persona ha fissato un appuntamento per il quale ha pagato, il tempo dovrebbe essere mio, giusto? Non suo. E comunque, che cosa dovrebbe significare “conversazionalista professionista”? Un conversazionalista è solo uno che conversa molto. Davvero lei chiede un compenso per conversare molto?»
Un professionista della parola? Ecco la sfida oltre la normalità di avere genitori, per quanto speciali, inizia lo scontro con il problema di non parlare, come di un mare di parole senza l’acqua su cui galleggiare.
«Lui in Persona ha ancora quest’allucinazione che io non parlo mai? È per questo che istiga la Mami a farmi pedalare fin quassú? Lui in Persona è il mio babbo. Lo chiamiamo Lui in Persona. Come tra virgolette “l’Uomo in Persona”. Proprio cosí. Chiamiamo mia madre la Mami. Il termine è stato coniato da mio fratello. So che non è una cosa inconsueta. So che nella maggior parte delle famiglie piú o meno normali i membri si rivolgono l’uno all’altro per mezzo di nomignoli, appellativi e soprannomi. Non si faccia nemmeno venire in mente di chiedermi qual è il mio soprannome privato».
Allucinazioni… e la messa in discussione dell’autorità, del nessuno, del professionista diventato entusiasta della parola, l’avanzo che diventa convulsione, prima della trasformazione.
«Ma Lui in Persona ha delle allucinazioni, a volte, negli ultimi tempi, bisogna che lei lo sappia, anche perché siamo partiti da lí. Mi chiedo perché la Mami permetta che lui mi mandi a pedalare controvento fin quassú in cima alla collina quando alle 1500h ho una partita importante solo per conversare con un entusiasta con la porta senza targhetta e nessun diploma in vista».
«Parlarmi è un divertimento. Io sono un professionista consumato. La gente lascia il mio studio con le convulsioni. Tu sei qui. È tempo di conversazione. Vogliamo discutere l’erotica bizantina?»
Il rapporto di forza tra visione e realtà si è già invertito, ma bisogna leggerne la magia… come la costruzione ai misteri, di spionaggio e di rivolta, nascosti nelle vite dei genitori di Hal… il bimbo si difende, cerca la fuga, un’uscita, vorrebbe non sporcarsi.
«Ho dieci anni, per la miseria. Mi sa che forse c’è un po’di casino nella sua agenda di appuntamenti. Io sono il dodicenne prodigio tennistico e lessicale la cui mamma è la punta di diamante a livello continentale nel mondo accademico della grammatica prescrittiva, e il cui babbo è figura di spicco nel mondo della visione e del cinema avant-garde e ha fondato da solo l’Enfield Tennis Academy, ma beve Wild Turkey alle 5 del mattino e certi giorni crolla a terra di lato durante i palleggi della mattina, mentre certi altri si lamenta perché vede le bocche delle persone muoversi ma non ne esce niente.
«…che l’introduzione da parte di lei di steroidi mnemonici esoterici –stereochimicamente non dissimili dal supplemento ipodermico quotidiano “megavitaminico”di tuo padre, derivato da un certo composto organico per la rigenerazione testosteroidea distillato da uno sciamano jivaro del bacino centromeridionale di Los Angeles –nella tua ciotola mattutina di innocenti cereali Ralston…»
«Che la composizione a formula supersegreta dei materiali in resina di polibutilene policarbonato rinforzata da grafite ad alta resistenza dei racchettoni forniti dalla Dunlop in, tra virgolette, “omaggio” è organochimicamente identica, e dico identica, al sensore a bilanciamento giroscopico e alla carta di stanziamento mise-en-scène e alla cartuccia priapistico-intrattenitiva impiantate nientemeno che nel cerebro anaplastico del tuo padre di grande livello dopo la crudele serie di disintossicazioni e trattamenti anticonvulsivi e gastrectomia e prostatectomia e pancreatectomia e fallotomia…»
Il vulcano erutta, non è uno scherzo, un pesce d’aprile: l’adulto ingannatore appare evidente, mostruoso si è trasfigurato nella sua mente, nel suo dolore, nella sua mancanza. Un essere trapiantato con organi futuristi dopo la rimozione totale di tutti quelli che servono per vivere. O un alieno o una allucinazione. Ecco il risveglio, la ripresa dei sensi e del regalo fisico della comprensione, la carezza al lettore per portarlo dentro la storia che ha in mente l’autore.
«E adesso mi accorgo che quel gilet di maglia a losanghe l’ho già visto, indiscutibilmente. Quello è il gilet di maglia a losanghe di Lui in Persona, riservato alla cena del Giorno dell’Interdipendenza, che lui si fa un vanto di non aver mai fatto pulire. Conosco quelle macchie. C’ero anch’io per quella chiazza di vitello al marsala lí sotto. È una cosa che ha a che vedere con le date tutto questo appuntamento? È un pesce d’aprile, Papà, o devo chiamare la Mami e C.T.?»
«… E chi dopo tutta questa luce e questo rumore ha propagato lo stesso silenzio?»
«Papà, … Non posso starmene qui seduto a guardarti pensare che sono muto mentre il tuo naso finto punta verso il pavimento. E senti che sto parlando, Papà? La cosa parla. La cosa accetta la gazzosa e definisce implorare e conversa con te».
Lui in persona, HAl, conversa adesso con l’assenza, con il bisogno di rompere i frantumi del terrore, l’irreparabile già compiuto. Il desiderio di conversazione con il padre che forse non c’è più?
«Pregando per una sola conversazione, dilettantesca o meno, che non finisca nel terrore? Che non finisca come tutte le altre: tu con gli occhi fissi e io che deglutisco?»
Beh, io vedo l’implorazione di un tormento mai sanato, la scena ghiacciata del dolore. Se questa è una allucinazione, l’anno dei cerotti avrà tanto sangue ancora da tamponare.
Quebec – CANADA – Photo by Julius Romeus on Pexels.com
Erdedy dopo Hal, è il secondo protagonista che incontro, però in questo secondo racconto, intorno a lui non ci sono altre persone, c’è solo un dipendente da sballo che però non è un tossico. Un tossico non sta a casa ad aspettare, la sua dipendenza dalla marijuana è tutta mentale in un viaggio letterario che è incredibile. Tossico lo è stato? Lo ridiventerà? È dentro o fuori? #infinitejest
Tanto per dire, visto che comincio ad avere un background da lettore :-), il tossico lo racconta magistralmente Pier Vittorio Tondelli in “Altri libertini”, sono i protagonisti di Christiane F. Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino – da me citato nel mio Reload tanto per stampare un link autocelebrativo. Al momento su Prime ho trovato solo la versione tedesca con sottotitoli… 🙁
Il secondo capitolo di Infinite Jest inizia così:
“Dov’era la donna che aveva detto che sarebbe venuta. Aveva detto che sarebbe venuta. Erdedy pensò che avrebbe dovuto essere già arrivata, a quell’ora. Si sedette a pensare. Era in salotto. Quando aveva cominciato ad aspettare una finestra era inondata di luce gialla e proiettava una chiazza di luce sul pavimento, ed era ancora seduto ad aspettare quando quella chiazza aveva iniziato a sbiadire e si era incrociata con una seconda chiazza, piú luminosa, che proveniva dalla finestra sull’altra parete. C’era un insetto su una delle mensole d’acciaio che reggevano l’impianto stereo. L’insetto continuava a entrare e uscire da uno dei buchi delle traverse che sostenevano le mensole. Era scuro e aveva un guscio lucente. Lui lo teneva d’occhio. Una o due volte fu sul punto di alzarsi per avvicinarsi e guardarlo, ma temeva che se si fosse avvicinato e l’avesse guardato da vicino gli sarebbe venuto da ammazzarlo, e aveva paura di ammazzarlo.”
È un racconto claustofobico, asfissiante, maniacale, paranoico talmente assurdo da far sentire reale la prigione mentale in cui Erdedy si distrugge, l’isolamento dei sensi e dei desideri prendono forma e si toccano con mano, e beh sì, tocca leggerlo e rileggerlo tutto più volte!
Intanto l’autore definisce gli spazi temporali: nell’ANNO DEL PANNOLONE PER ADULTIci presenta Erdedy. Hal ha 17 anni nell’ANNO DEL GLAD, nel racconto che segue, nell’ANNO DEI CEROTTI MEDICATI ha 11 anni…
Torniamo a Erdedy che non è solo, non è un tossico ma potrebbe esserlo stato o almeno lo ha fatto credere ad una sua fiamma femminile, la cui relazione viene raccontata più per definire l’auto isolamento da altri esseri umani in quella che sembra essere una disintossicazione con il metodo dell’eccesso. Erdedy non è solo, con lui vive un insetto che entra ed esce dal racconto come le esperienze sessuali del protagonista.
“Un’altra cosa che comprava se decideva di prendersi una vacanza alla marijuana era la vaselina. Quando fumava marijuana si masturbava tantissimo, ci fossero o no possibilità di rapporto, e quando fumava preferiva masturbarsi che scopare, e la vaselina serviva a non farselo diventare molle e dolorante appena tornava alla normalità.”
La magia di queste pagine è la giungla dei pensieri, uno spazio fitto, intricato, denso di fastidi e di pericoli minacciosi ad ogni pensiero successivo che infligge tortura e piacere di lettura.
“Per salvaguardare la compostezza con la quale stava seduto ad aspettare sulla sua sedia, nella luce, concentrò ogni senso su ciò che lo circondava. Ora dell’insetto non era in vista nessuna parte. Il ticchettio dell’orologio portatile era in realtà composto di tre miniticchettii che lui supponeva stessero per preparazione, movimento e riposizionamento. Cominciò a provare disgusto per se stesso, lí fermo ad aspettare con tanta ansia l’arrivo promesso di qualcosa che comunque ormai non era piú divertente.”
Il vero protagonista del racconto è l’impero della droga, delle sostanze schiaviste che annullano l’essere umano ma non i pensieri, muovono le azioni verso la “discesa nell’inferno della dipendenza chimica“, il dominio su ogni libertà. Al centro c’è un piano di fuga, un progetto di liberazione, un paradosso impossibile che trionfa, l’eterna lotta del bene sul male da combattere con tanto male.
“La droga lo spaventava. Gli metteva paura. Non che avesse paura della roba, era che fumarla gli faceva temere tutto il resto. Da un mucchio di tempo aveva smesso di essere una liberazione o un sollievo o un divertimento. Quest’ultima volta avrebbe fumato tutti i duecento grammi –centoventi grammi puliti, tolti i gambi delle foglie –in quattro giorni, piú di un’oncia al giorno in un’unica, fortissima, continua dose, con un ottimo bong vergine, una quantità giornaliera folle, incredibile, ne avrebbe fatto una missione, l’avrebbe considerata una punizione e allo stesso tempo un regime di modifica del comportamento, si sarebbe fumato ogni giorno trenta grammi puri, cominciando dal momento in cui si svegliava e usava l’acqua ghiacciata per staccarsi la lingua dal palato e prendeva un antiacido –facendo in media duecento o trecento tirate al giorno, una quantità folle e deliberatamente spiacevole, e lui ne avrebbe fatto una missione di fumarla di continuo anche se, nel caso in cui la marijuana fosse buona come diceva la donna, avrebbe fatto cinque tirate e poi non avrebbe piú avuto voglia di farsene un’altra per almeno un’ora. Ma lui si sarebbe costretto a farlo comunque. L’avrebbe fumata tutta anche se non ne avesse avuto voglia. Anche se avesse cominciato a fargli girare la testa e a farlo star male. Avrebbe usato disciplina e tenacia e volontà e avrebbe reso l’intera esperienza cosí spiacevole, cosí degradata e perversa e spiacevole, che il suo comportamento ne sarebbe risultato da lí in poi cambiato per sempre, non avrebbe mai piú voluto rifarlo perché il ricordo dei quattro giorni di follia a venire sarebbe stato fermamente e terribilmente incastonato nella sua memoria. Si sarebbe curato con l’eccesso.”
Trovato l’intreccio più intricato, sotteso alla complessità, si finisce nel ribollire dentro l’essenza della delusione e vanità delle esperienze consuete.
“Mai, neppure una volta, aveva avuto un vero e proprio rapporto sessuale sotto marijuana. Francamente, l’idea lo disgustava. Due bocche riarse che sbattono l’una contro l’altra cercando di baciarsi. I pensieri imbarazzati che si avvolgono su se stessi come un serpente su un bastone mentre lui si inarca e sbuffa a gola secca sopra di lei, con gli occhi rossi e gonfi e la faccia afflosciata, e le sue guance pendule magari toccano, a singhiozzo, le guance pendule della faccia di lei, anche lei afflosciata, che sbatacchia avanti e indietro sul cuscino mentre la sua bocca lavora a secco. Il pensiero era ributtante.”
La prima traccia che riesco a cogliere sull’epoca storica di questo anno del pannolone, che dovrebbe essere l’anno in cui la vecchiaia incombe con i suoi problemi, è il valore in dollari di due etti di erba: 1250 $. Diciamo poco più di mille euro, oltre due milioni di lire nel XX secolo, e allora siamo nel futuro. Nel nostro presente, siamo ai dieci dollari o euro al grammo, quindi siamo oltre quel futuro, usando una stramba relazione economica del dato. Fatto sta che nel 2008, anno del suicidio di David, quel prezzo futurista stampato in questo romanzo è stato raggiunto. Nel 1996 questa cifra ai lettori di allora sarà sembrata astronomica. Può esserci ansia maggiore di quello che non si vuole vedere?
“Non era mai stato cosí ansioso per l’arrivo di una donna che non voleva vedere.”
“Ora l’insetto era completamente visibile.”
“L’insetto stava nel suo guscio lucente con un’immobilità che sembrava essere il raccoglimento di una forza, era come la carrozzeria di un veicolo dal quale fosse stato temporaneamente rimosso il motore. Era scuro e aveva un guscio lucente e antenne che sporgevano ma non si muovevano.”
“… assistere all’agonia della sua discesa nell’inferno della dipendenza chimica”
Cos’è un problema? Un’ossessione da risolvere? L’approccio scientifico alla vita è una sequenza senza soluzione di continuità di problemi da risolvere con complessità man mano sempre più alta. Nella scienza non c’è spazio per gli “impulsi depredati d’espressione“, non è materia tangibile, ben che meno ne esiste una forma essiccata. La non risoluzione del problema apre le porte alla follia, quella suicida è una delle forme meno dannose alla vastità di presenza del genere umano su questa terra, eppure a pensarci bene, la distruzione di tutta la terra e dell’intera umanità è una follia realizzabile a cui sembriamo tendere.
“Leggere mentre era in attesa della marijuana era fuori questione. Prese in considerazione l’idea di masturbarsi ma non lo fece. Piú che rifiutare l’idea non vi reagí e la lasciò scorrere via. Pensò per sommi capi ai desideri e alle idee che venivano pensate ma non attuate, pensò agli impulsi depredati d’espressione prosciugarsi e scorrere via, e su qualche piano sentí che questo aveva qualcosa a che fare con lui e le circostanze in cui si trovava e quello che –se quest’ultima estenuante perversione alla quale si era impegnato non avesse per qualche ragione risolto il problema –si sarebbe senz’altro dovuto chiamare il suo problema, ma non riuscí neppure a tentare di capire in che modo l’immagine degli impulsi essiccati che scorrevano via fosse connessa a lui o all’insetto, che si era ritirato nel suo buco nella traversa…”
Einaudi 2016 con introduzione di Thomas Carlisle Bissel
Il viaggio, come mi hanno augurato, inizia con “Tutto di tutto: Infinite Jest, vent’anni dopo”, una introduzione che accende l’entusiasmo, un tributo a Wallace e a questa sua opera pubblicata nel 1996.
“Succede qualcosa a un romanzo man mano che invecchia?”
Dopo il primo capitolo, ANNO DI GLAD sono già in un trip.
Ma andiamo con ordine, ho letto che questo libro è il più discusso, il più osannato ma anche il meno letto… questa versione ha 1280 pagine.
In rete ci si perde in mille recensioni, addirittura ho trovato un manuale per non scoraggiarsi e andare fino in fondo… sarebbe meglio dire scalare fino alla vetta; beh sì, Infinite Jest è un Everest a quanto pare. Alle prime venti ho già riletto tre volte, mi sento come il risultato dei test di ammissione cui è stato sottoposto Hal: subnormale.
“Individuo con intelligenza inferiore alla media, ma recuperabile mediante opportuno trattamento medico-psico-pedagogico”, dice il vocabolario.
Eccolo, lo vedo, ti spiega cosa succede a chi sta male, Hal è un campione in erba, desiderato dalle università americane, un genio che legge e digerisce cose pesantissime, chiuso dall’età di sette anni in una scuola di tennis. I suoi test attitudinali d’ingresso non sono buoni, sono “subnormali”; la commissione di decani che deve decidere la sua ammissione deve giudicare, lo vogliono ascoltare, lo hanno visto giocare e il talento non si discute, l’affare per l’università è ghiotta, doveva essere un colloquio tranquillo, una formalità, invece…
È un genio incompreso, Hal racconta di non essere capito e non vede cosa gli succede, ha vinto un quarto di finale importante, pensa all’avversario che l’indomani mattina sarà stanco mentre lui, sarà riposato perché sedato, lo stanno trasportando all’ospedale. Lo hanno immobilizzato, lui è con la faccia schiacciata per terra, le lame di luce tagliano l’atmosfera di terrore, la commissione è impazzita, lui vede una caverna rossa mentre ha gli occhi chiusi… Magari, domani, Venus Williams verrà a vederlo giocare…
Dicevo: «Andiamo per ordine.»
“David foster Wallace comprendeva il paradosso di provare a scrivere un’opera di fantasia che parlasse simultaneamente, e con la stessa forza, al pubblico contemporaneo e futuro”
questo dice Bissel nell’introduzione, e poi continua…
“È in tutto e per tutto un romanzo del suo tempo. E allora com’è che lo sentiamo ancora così transcendemente, elettricamente vivo?”
Risponde con varie teorie sulla grandezza di David e di questo romanzo che è Infinite Jest. Anche vent’anni dopo, allora e anche oggi. Sono teorie di sicuro interesse accademico ma lontane da ogni mia intenzione di racconto in questo diario più che altro emozionale… Infatti è il conto con la morte dello scrittore suicida a non potersi chiudere mai:
“Ci hai portato in spalla mille volte. Per te, e per questo libro gioioso e disperato, scrosceranno le nostre risate per sempre incredule, per sempre addolorate, per sempre riconoscenti. Cortro ogni speranza, spero che tu possa sentirci.” TOM BISSELL Los Angeles, novembre 2015
ANNO DI GLAD, inizia il viaggio:
“Mi siedono in un ufficio, sono circondato da teste e corpi. La mia postura segue consciamente la forma della sedia. Sono in una stanza fredda nel reparto Amministrazione dell’Università…”
Come si dice? L’ho letto tutto in un fiato, ti stordisce e l’ho voluto subito rileggere, ti prende tutto, l’atmosfera, la scena, i protagonisti, Hal che racconta quello che vede, quello che sente, tutto quello che lo porta alla crisi. Doveva essere una formalità, invece…
“Guardo con attenzione il nodo Kekuliano della cravatta del Decano in mezzo. La mia risposta silenziosa alla silenziosa aspettativa comincia a pesare sull’atmosfera della stanza: i granelli di polvere e i peluzzi caduti dalle fibre delle giacche sportive danzano a scatti nella lama di luce che viene dalla finestra, agitati dal flusso dell’aria condizionata; l’aria sopra il tavolo mi ricorda lo strato di effervescenza che sta sopra l’acqua minerale appena versata.”
La commissione di ordinari accusa lo zio allenatore di truffa, il curriculum di Hal sarebbe stato truccato, mentre il ragazzo non sarebbe all’altezza di entrare all’università…
“… Non possiamo accettare uno studente che abbiamo ragione di sospettare non sia in grado di tagliare la mostarda con un coltello, al di là di quanto potrebbe essere importante averlo in campo con i nostri colori”.
“Ammettere un ragazzo che vediamo esclusivamente come una risorsa atletica equivarrebbe a sfruttarlo. Siamo soggetti a una miriade di controlli tesi ad accertare che qui non si sta sfruttando nessuno. I suoi risultati d’esame, figliolo, indicano che potremmo essere accusati di sfruttarla”.
Altro che formalità, il colloquio sta diventando un processo…
“Sta montando il mio solito panico di quando non mi capiscono, ho il petto scosso da sussulti e colpi sordi. Uso una grande energia per rimanere completamente silenzioso, sulla sedia, vuoto, gli occhi due grandi zeri pallidi. Qualcuno ha promesso di farmi superare tutto questo.”
Poi finalmente parla, non si difende, attacca come un fiume in piena…
«Non sono solo un ragazzo che gioca a tennis. La mia è una storia intricata. Ho esperienze e sentimenti. Sono una persona complessa. Leggo, io», dico. «Studio e leggo. Scommetto che ho letto tutto quello che avete letto voi. Non pensate che non abbia letto. Io consumo le biblioteche. Logoro le costole dei libri e i lettori Rom. Sono uno che fa cose tipo salire su un taxi e dire al tassista: “In biblioteca, e a tutta”. Con il dovuto rispetto, credo di poter dire che il mio intuito riguardo alla sintassi e alla meccanica sia migliore del vostro. Ma vado oltre la meccanica. Non sono una macchina. Sento e credo. Ho opinioni. Alcune sono interessanti.»
Hal è lui? È lo scrittore? È David? Ma no, è fantasia, è un romanzo, sì pero solo lui a quell’età avrebbe potuto dire:
“Se me lo lasciaste fare, potrei parlare senza smettere mai. Parliamo pure, di qualunque cosa. Credo che l’influenza di Kierkegaard su Camus venga sottovalutata. Credo che Dennis Gabor potrebbe benissimo essere stato l’Anticristo. Credo che Hobbes non sia altro che Rousseau in uno specchio oscuro. Credo, con Hegel, che la trascendenza sia assorbimento. Potrei mettervi sotto il tavolo, signori», dico. «Non sono solo un creātus, non sono stato prodotto, allenato, generato per una sola funzione». Apro gli occhi. «Vi prego di non pensare che non m’importi». Li guardo. Davanti a me c’è l’orrore. Mi alzo dalla sedia. Vedo mascelle crollare, sopracciglia sollevate su fronti tremanti, guance sbiancate. La sedia si allontana da me. «Santa madre di Cristo», dice il Direttore. «Sto bene», dico loro restando in piedi. A giudicare dall’espressione del Decano giallastro, li ho impressionati. La faccia di Affari Accademici è invecchiata di colpo. Otto occhi si sono trasformati in dischi vuoti fissi su ciò che vedono, qualunque cosa sia. «Mio Dio», mormora Affari Atletici. «Vi prego di non preoccuparvi», dico. «Posso spiegare». Carezzo l’aria con un gesto tranquillizzante. Entrambe le braccia mi vengono immobilizzate da dietro dal Direttore di Comp., che mi scaraventa a terra e mi schiaccia giú con tutto il suo peso. Sento in bocca il sapore del pavimento. «Che c’è che non va?» «Niente non va», dico io. «Va tutto bene! Sono qui!» mi urla nell’orecchio il Direttore. «Chiedete aiuto!» grida un Decano. Ho la fronte premuta contro un parquet che non avrei mai pensato potesse essere cosí freddo. Sono paralizzato. Provo a trasmettere un’impressione di docilità e arrendevolezza. Ho la faccia spiaccicata contro il pavimento; il peso di Comp. non mi fa respirare. «Cercate di ascoltarmi», dico molto lentamente, la voce attutita dal pavimento.”
«Per amor del cielo, cosa sono quei…» esclama un Decano con voce acuta, «…quei suoni?»
Arrivano le convulsioni, emette suoni animaleschi, è psicoticamente fuori controllo:
«Questo ragazzo ha dei danni cerebrali»
«Il ragazzo ha bisogno di cure».
«Invece di occuparsi del ragazzo lei lo manda qui a iscriversi, a competere?»
Hal è presente ci racconta tutto, sembra incredibile ma siamo nella sua testa che resta lucida, cosciente, ci trasferisce la sua esperienza, non vede ciò che vedono gli altri intorno a lui ma ci immerge in modo straordinario nei suoi pensieri:
“È un’ambulanza speciale, e preferisco non sapere da dove sia stata mandata. A bordo, oltre ai paramedici, c’è anche una qualche specie di psichiatra. Gli assistenti mi sollevano con gentilezza e si vede che hanno familiarità con le cinghie.”
“All’unico altro pronto soccorso nel quale sono stato portato, quasi un anno fa, la lettiga psichiatrica era stata parcheggiata accanto alle sedie della sala d’attesa.”
All’improvviso però inizia l’innesto di elementi che accendono la complessità di Hal…
“Una volta ho visto la parola knife scritta col dito sullo specchio appannato di un bagno non pubblico. Sono diventato un infantofilo. “
infantofilia: l’attrazione di adulti per i bambini molto piccoli (neonati o bambini fino a 5 anni)
“Mi porteranno in una stanza di un pronto soccorso e mi ci terranno finché non risponderò alle domande, poi, quando avrò risposto alle domande, verrò sedato; quindi sarà il contrario del viaggio standard ambulanza-pronto soccorso: stavolta prima farò il viaggio poi perderò conoscenza.”
“La finale di domenica la giocherò contro Stice oppure Polep. Forse di fronte a Venus Williams. Però alla fine, inevitabilmente, sarà qualche addetto non specializzato –un aiuto infermiere con le unghie rosicchiate, una guardia della Sicurezza ospedaliera, un precario cubano stanco –che, mentre si affanna in qualche tipo di lavoro, guarderà in quello che gli parrà essere il mio occhio e mi chiederà: Allora, ragazzo, che ti è successo?”
La frustata al lettore è possente, è questo il viaggio? L’avvio è travolgente, come l’immagine sontuosa di un jet che solcando il cielo apre come un bisturi il blu da cui sgorga il bianco di un corpo… quante volte l’abbiamo visto, allora negli anni novanta come oggi nel 2022, lo sguardo si inverte, vediamo l’opposto di quello che abbiamo sempre visto come normale, siamo dentro la storia non più contenibile tenendo chiuse le sue pagine… ne mai riassumere se non leggendone ogni parola, dalla prima all’ultima.
«Può darsi che vi giunga nuova, ma nella vita c’è di piú che starsene seduti a stabilire contatti».
commento a IL TENNIS COME ESPERIENZA RELIGIOSA, Einaudi 2012 e 2017
Ho le mie coppette, sono un modestissimo categoria 4.2 Fit. Conosco il tennis da dentro, certo è quello dell’agonismo amatoriale, ma guardo e sento e desidero tennis da quando ammiravo Panatta, Borg e McEnroe. Sono alla lettura delle mie prime pagine di David, mi aspettano i tomi. Inizio a capire la grandezza di una leggenda. Nel testo che ho appena finito ci sono due storie, quella grandissima dà il titolo al libro: Il tennis come esperienza religiosa.
Punto primo: anche se odiate il tennis la scrittura di Wallace racconta l’esperienzareligiosa insita in ogni gesto sportivo di un genio, Federer o Maradona è lo stesso.
Punto secondo: David con le sue parole rende merito ed immortalità ad ogni goccia di sudore che esce dalla fronte ogni qual volta facciamo sport, fossero anche stupide, noiose quanto atroci flessioni, quel sudore è la ricompensa per la preghiera dovuta a ogni penitenza terrena che promette il paradiso. Poi io sono colluso e non faccio testo, amo il tennis: la lettura di questo racconto sublime è stato per me esaltante.
Quasi tutti gli amanti del tennis che seguono il circuito maschile in televisione hanno avuto, negli ultimi anni, quelli che si protrebbero definire «Momenti Federer». Certe volte, guardando il giovane svizzero giocare, spalanchi la bocca, strabuzzi gli occhi e ti lasci sfuggire versi che spingono tua moglie ad accorrere da un’altra stanza per controllare se stai bene.
[…]
Era impossibile. Sembrava una cosa uscita da Matrix. Non so quali versi mi siano sfuggiti, ma mia moglie dice che…
[…]
Fatto sta che questo è l’esempio di un «Momento Federer», in tv per giunta, e diciamoci la verità: il tennis in tv sta al tennis dal vivo più o meno come i video porno stanno alla realtà vissuta.
E poi le note sono sostanza viva e necessaria , per esempio a pag.47 la nota 1:
Sono tante le cose brutte nell’avere un corpo. È talmente vero che non ci sarebbe bisogno di esempi, ma citiamo solo brevemente il dolore, le ferite, i cattivi odori, la nausea, la vecchiaia, la gravità, la sepsi, la goffaggine, la malattia, i limiti – ogni singolo scisma tra i nostri desideri fisici e le nostre reali capacità. Qualcuno dubita che ci serva aiuto per riconciliarci? Che ne abbiamo un disperato bisogno? È il corpo che muore, in fin de conti. Certo, avere un corpo ha anche aspetti magnifici – è solo che…
Il genio non è riproducibile. L’ispirazione, però, è contagiosa, e multiforme, e anche solo…
Quindi D.V. Wallace scrive “Federer as a Religious Experience” pubblicato sul The New York Times Magazine nel 2006, due anni prima del suicidio, nella parabola discendende della sua permanenza terrena, non poteva sapere il dio che Roger sarebbe diventato, longevo, sempre elegante e quasi eterno ancora oggi a quarant’anni suonati (il mondo lo vuole vedere giocare ancora). Nel racconto c’è anche Nadal, lo conoscono tutti, è un’altro dio del tennis, ma come per altri campioni tennisti, le parole di Wallace sono definitive in quel tempo ma continuano con forza e precisione trascendente ad essere ancora oggi illuminanti, tanto da diventare non solo oggetto di studio, ma divinazione fatta letteratura.
Questo libro, piccino piccino, merita di essere letto anche per la presenza di un trattato breve, forse più che accademico, che Luca Briasco chiama “Solipismo e trascendenza: il tennis come arte”. Inutile dire come le sue parole mi abbiano alimentato ancora di più la voglia di leggere le opere di Wallace, utile invece è riportare un passo scritto che entra direttamente nel cuore della sua analisi critica:
La necessità paradossale di trascendere l’io limitato sapendo che sono i limiti stessi dell’io a rendere possibile il gioco rappresenta la tragedia profonda del tennis e insieme la sua delizia. (Briasco)
[…]
Solipismo e trascendenza non sono due fattori che si escludono; piuttosto, la consapevolezza che là fuori, sul campo, c’è sempre e solo l’io è il primo passo di un percorso che deve portare il tennista o l’artista, a scomparire dentro il gioco, o l’opera. (Briasco)
Ma nemmeno Briasco può esimersi dal citare alla lettera un testo di Wallace, per farsi intendere:
Potrebbe essere benissimo che noi spettatori, privi dei doni divini degli atleti, siamo gli unici a essere davvero in grado di vedere, esprimere e animare l’esperienza del dono a noi negato. E che coloro i quali ricevono e mettono in pratica il dono del genio atletico debbano, di necessità essere ciechi e muti al riguardo, e non perché la cecità e il mutismo siano il prezzo di quel dono, ma perché ne sono l’essenza. (Considera l’aragosta, DFW).
La mia sventurata ma colpevole ignoranza, oggi nel 2021, a tratti mi regala fortune inaspettate: scoprire Wallace un pezzettino alla volta mi sta offrendo la stessa emozionalità del salire un livello dopo l’altro, i gradini delle ascese culturali insite nella scrittura: beh, leggere fa proprio bene al corpo e allo spirito. Sebbene come nel tennis un millimetro nell’ultimo punto fa la differenza tra vincere e perdere Wimbledon (è successo proprio a Roger nel 2019 sconfitto da Novak), nell’arte, anche l’errore più pacchiano dell’artista rendono comunque l’opera immensa perché è tale negli occhi di chi guarda: a noi ci sarà anche negato il dono del genio ma delle opere di un genio abbiamo la fortuna di nutrirci in estasi senza limiti.
piano piano leggerò anche David Foster Wallace, prima lo scherzo infinito e poi il re pallido … o prima il re pallido e poi Infinite Jest?
La mente funziona così, una gentilissima e colta lettrice mi dice: «Un po’ ti consiglierei di leggere Foster Wallace» e poi mi manda un pdf che divoro voracemente.
L’ultimo discorso di saluto per i nuovi laureati in un college americano di cui ho memoria è quello di Steeve Jobs, si proprio lui, quello di “siate affamati, siate folli!” – pazzia e fame, veramente un grande futuro! 🙂 calmi calmi, lo so’, anche Steeve come David, parlano di pensiero e lo fanno ancora, anzi lo faranno per sempre!
(ma visto che mi trovo, è interessante anche un’altra sua frase storica: “Non è compito dei consumatori sapere quello che vogliono.” quindi dei due chi è l’acqua santa e chi il diavolo?)
Prima di iniziare a leggere il pdf, vedo che è un discorso tradotto da Roberto Natalini e allora mi chiedo: «chi èRoberto Natalini?» Ah, la rete che meraviglia,Roberto Natalini è un accademico, e che accademico!
… condivido i primi 2 link che ho divorato … si fa per dire, gli sforzi degli esami di analisi matematica mi tornano ancora in gola 🙁 … ma la fascinazione no, quella non si controlla …
“Wallace considerava la Matematica come una delle più grandi imprese culturali dell’umanità ed era interessato, a un livello più profondo, alla Matematica come a un linguaggio capace di descrivere e trasmettere idee belle e difficili, una specie di serbatoio capace di fornire dei principi narrativi, a volte nascosti, per le sue narrazioni.”
nello scherzo infinito – “incontriamo delle situazioni narrative che corrispondono ai due infiniti di cui si è parlato sopra. Da una parte abbiamo la ripetizione infinita, a loop, il ripresentarsi continuo di gabbie in cui l’apparente porta di uscita conduce solo ad altre gabbie, il muoversi in modo circolare lungo curve chiuse: la dipendenza dalla droga e dall’alcool (i continui cicli di disintossicazione e di ricaduta), il sesso come esperienza vuota e straniante (uno dei personaggi maschili ha l’abitudine dopo il coito, che a lui non provoca nessun piacere, di tracciare compulsivamente con il dito il simbolo dell’infinito sul fianco nudo della ragazza con cui è appena stato), la ripetizione ossessiva della pratica sportiva nell’accademia di tennis, …” – “Leggendo Wallace sentiamo una voce nella nostra testa che parla, come se fosse un secondo ‘io’ più intelligente e linguisticamente onnisciente, che con noi costruisce un dialogo intenso e pieno di significato.”
ma veniamo all’acqua, potevo annegare ma invece mi sono dissetato …
Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?” I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “ma cosa diavolo è l’acqua?” … È straordinariamente difficile da fare, rimanere coscienti e consapevoli nel mondo adulto, in ogni momento. Questo vuol dire che anche un altro dei grandi luoghi comuni finisce per rivelarsi vero: la vostra educazione è realmente un lavoro che dura tutta la vita. E comincia ora.
Non è più tempo di riassunti, per comprendere il messaggio, il segno e l’augurio di David bisogna leggerlo … per me, prima che sia troppo tardi!