Caro Diario, se non lo scrivo a te finirò per dimenticare. Marx fosse vissuto oggi si sarebbe divertito un mondo a trovare nel suo smartphone geolocalizzato, ovviamente Apple, con misurazione di pressione e battito cardiaco al tocco dell’impronta teutonica del pollicione, trovare tra le mappe in tempo reale dei flussi d’informazione dalle varie guerre sul terreno, tra un video Tik-Tok e un’offerta Amazon, dai mille satelliti che abbracciano il mondo, trovare dicevo, tracce della sua caduta tendenziale del saggio di profitto sulle onde impetuose del debito globale di una Terra divisa in famiglie, governi, imprese e società finanziarie. Impero multinazionale allora era già passato.
Un lavoraccio da risolvere con la matematica quantistica che all’epoca di Marx non c’era. Ecco il tempo reale, il momento che fugge, l’istante che divora il tempo lavoro come un boccone ingurgitato in una frazione di secondo per non tardare l’appuntamento con la diretta, ebbene sì uno scintillante scontro dialettico su David Foster Wallace che “o piace troppo o non piace per nulla”.
POST di Gian Paolo Serino
POST di Angelo Cennamo
Sono a metà di Infinite Jest e mo’ che faccio? Ovviamente arrivare fino in fondo e leggere il resto della sua enorme produzione; tra qualche anno dovrò pure dimostrare che chi non ha mai giocato a tennis, borghese o proletario fa lo stesso, non può sapere la differenza tra rimettere una palla in campo e sfidare la geometria del campo osando un punto vincente, un colpo imprendibile cui l’avversario può solo inchinare la testa e applaudire in segno d’ammirazione.
Meravigliosa partita dialettica, tutt’altro che materialista, anzi pura essenza di gusto soggettivo radicato nelle conoscenze personali. Sì, mirabile scontro tra personalità elitarie che rendono degno il genere umano. Sì, perché è possibile che domani mattina META fallisce, muore Facebook e questa partita per me memorabile tra Gian Paolo e Angelo sparisce dalla mia memoria, come un singhiozzo strozzato in gola.
Cosa c’entra Marx? Marx c’entra sempre: chi lo studia vince! Sembra assurdo nel XXI secolo, eppure è così, a massimizzare il pluslavoro regalato al capitalismo è il lavoratore stesso capace di lavorare a perdere, a consumarsi fino all’indecenza, fino a morire. Perché? Ringrazio Giorgio per il suo “telegram”, e beh, ha citato un grande scrittore con un passo di cui non avevo più memoria:
“Dove c’è lavoro per uno, accorrono in cento. Se quell’uno guadagna trenta cents, io mi contento di venticinque. Se quello ne prende venticinque, io lo faccio per venti. No, prendete me, io ho fame, posso farlo per quindici. Io ho bambini, ho i bambini che han fame! io lavoro per niente; per il solo mantenimento. Li vedeste, i miei bambini! Pustole in tutto il corpo, deboli che non stanno in piedi. Mi lasciate portar via un po’ di frutta, di quella a terra, abbattuta dal vento, e mi date un po’ di carne per fare il brodo ai miei bambini, e io non chiedo altro. E questo, per taluno, è un bene, perché fa calar le paghe mantenendo invariati i prezzi. I grandi proprietari giubilano, e fanno stampare altre migliaia di prospettini di propaganda per attirare altre ondate di straccioni. E le paghe continuano a calare, e i prezzi restano invariati. Così tra poco riavremo finalmente la schiavitù”. – John Steinbeck – Furore – 1939
Sai cos’è il crepitio di vetri nello stomaco? Sai cos’è la conseguenza del male che rimane dentro e trasforma l’essere umano? Sai come si raccontano in modo vivido e coinvolgente momenti distanti nello stesso tempo di un romanzo, come adolescenza e maturità di un gruppo di personaggi tutti protagonisti in primo piano anche nelle scene dove sono assenti? Se lo sai allora hai letto IL BUIO DENTRO altrimenti leggilo e ne sarai rapito come è successo a me. La mia fortuna, ancora una volta, è stata scoprire l’ovvio di chi invece ha seguito l’evoluzione temporale dello scrittore, e attraverso le sue pubblicazioni, il segno indelebile lasciato negli anni. Io no, prima l’ultimo, L’UOMO SENZA SONNOe poi a ritroso questo grande romanzo in gara oggi, negli ALL STARS di sempre quando nel 2017 il Sunday Times lo ha definito uno dei migliori cinque thriller non inglesi di quell’anno.
Ecco la mia fortuna: la scoperta di Antonio Lanzetta nell’anno 2022 ad annodare nella stessa estate, fili intricati in una corda ruvida, tensione letteraria in un cappio che uccide, risolve, ogni dubbio o domanda su personaggi universali, la morte e la rinascita di un lettore che vive di nuovi desideri di conoscenza. L’intreccio armonioso e quell’ovvietà del bello a me ignota, di “scritture” salernitane immense ormai note e riconosciute nella letteratura moderna di questo complicato XXI secolo.
Il Cilento è salernitano, lo è in città, in provincia e nel mondo, puro, sporco, vergine, amato e desiderato, sfruttato e stuprato, regale, nobile e proletario, infettante ma anche curativo, medicina e veleno, come tutte le cose meravigliose, un desiderio continuo. Sì la terra, il cielo e il mare ma l’anima è l’umano che lo vive come un sogno e come un incubo, da quando Ulisse sentiva le sirene, da tanto prima e per tanto ancora finché saremo capaci di sopravvivere al male distruttivo di cui, come specie umana, siamo capaci. I conflitti come trionfo del bene sul male non sono un’opzione ma la necessità oltre il perdono, oltre la vendetta.
Nessun ostaggio credo possa mai raccontare pienamente il suo rapimento e così credo che ogni lettore può solo menzionare in parte le emozioni vissute nelle pagine di Antonio Lanzetta, ringraziandolo di poter raggiungere dall’interno, la quarta di copertina, e così la fine di un viaggio avvincente per tenerezza e tormento. La fine non si esaurisce con la conclusione della storia di cui si ha smania vivendola dentro i personaggi allo stesso tempo giovani e adulti. No, con la fine della storia inizia il desiderio della prossima, perché se il male nasce dal buio dentro, o il buio dentro ne è conseguenza, questo grande scrittore è la luce che lo rivela al mondo. Lo fanno anche altri grandi, ma come lui nessuno, almeno per me e solo chi lo ha letto mi può contestare, non altri.
In Cilento, Castellaccio, Agropoli, c’è Flavio, Claudia e lo Sciacallo quando era giovane, siamo tra oggi e l’estate del 1985…
Non la trama che puoi trovare ovunque in rete, né uno spot gratuito di riverenza, anche se di soggezione non me ne mancherà mai poca, ma questo è un commento, come gli altri, per una nuova pagina del diario di letture che cresce con i desideri di un lettore che non c’era, un fantasma, finché vive.
La rete cattura, uccide e fa nascere, è pericolosa, vischiosa a strascico distrugge un fondale, ma online è talmente imprevedibile da portare a galla delizie, magari tanto deliziose quanto piccole e affascinanti. Così è stato l’incontro casuale con la gatta Matilde di Clarissa Catti: un caso fortunato, e come molte scoperte sanno essere, ho trovato un grande personaggio di un romanzo geniale. Come puoi raccontare la morte a un bambino? E come puoi farla immaginare ad un adulto?
«Matilde voglio vedere tanta arte, mi ci porti?»
Sarà che sto invecchiando male con terribili involuzioni puberali, sarà che la lettura invernale, durante una tormenta di vento e pioggia senza precedenti, è in modo struggente, un rifugio caldo e rassicurante, sarà quello che sarà, non posso non condividere il piacere sentito grazie a questa fiaba, tanto semplice quanto potente. Pensando agli occhioni di un bimbo che ascolta e ti guarda quando parla la gatta Matilde, l’idea che la Morte diventi un’amica che ti accompagna per boschi, città, teatri e ospedali, è una storia avvincente senza tempo oltre quello che può sembrare un momento fantastico della fantasia. Dare la morte , prendere la vita!
«Il dolore è quando senti dentro te qualcosa che fa male, ti pesa proprio addosso e non riesci a togliertelo. Basta il solo pensiero di una cosa che provoca dispiacere e senti questo macigno che non ti fa respirare, devi fare per forza lunghi sospiri per sentirti ancora vivo.»
Non di trama né di stile oso scrivere, ma di emozioni quelle sì, quando arrivano dirette e possenti, posso dire di respirarne a polmoni pieni.
«Sì, lo è, ma pochissimi sanno essere felici. Oggi andremo alla ricerca della felicità, ma prima devi prepararti perché dovrò farti vedere altre cose brutte.»
Non sarà un pensiero condiviso ma credo che questo racconto sia un tocco prezioso anche per un’anima adulta, forse, solo forse sottolineo, l’autrice ha sotto valutano i grandi e sopravvalutato i piccoli, ma sarà mai pronta l’umanità quando arriva a farle visita sorella morte?
«Tu non dormi, Morte?»
Chi si misura con la lettura e la scrittura ha scheletri danzati nell’armadio dei pensieri, tanto privi di carne quanto densi di follia, eppure l’eternità di parole come gelosia, invidia, odio, bellezza, cattiveria, ignoranza, intelligenza, rabbia, gioia, felicità e amore, è una dimensione sensibile all’umore del momento, ci calpesta, ci opprime, ci manda in estasi con la stessa facilità con cui l’oblio ci spegne la luce. Anche nel buio più profondo, demoni e angeli, urlano da pagine scritte a risvegliare il senso della vita, a commuovere un lettore mai sazio di ritrovarsi bimbo, indifeso e avido di belle storie da raccontare. E se una gatta fa le fusa, grazie a questo breve ma possente racconto di Clarissa Catti, da oggi saprò spiegarne l’incantesimo.
«Gli uomini inventano storie e scrivono con il loro dono frasi bellissime, piene di significato. Sempre di arte si tratta.»
“Cosa sappiamo sulla vita, sulla morte e sui dolci amici domestici che accompagnano i passaggi più importanti delle nostre vite? L’autrice ci prende per mano portandoci a scoprire un mondo diverso, o meglio, il nostro mondo, le nostre realtà, ma viste con occhi diversi e da prospettive inimmaginabili. Un viaggio introspettivo profondo, raccontato con la leggerezza di un linguaggio coinvolgente e fruibile a tutti, quasi fosse una fiaba. Età di lettura: da 6 anni.”
Le stelle non si incontrano si consumano. Questo è quello che vuole Erri, ho pensato sull’ultima frase letta a pagina 123.
“Nessuno lo ha chiamato papà. Agì da padre anche se non lo era. Negli abissi del disumano, il semplice umano abbaglia la raffica di un lampo.”
Una volta ancora, ho ringraziato lo Stato di aver letto e discusso “Se questo è un uomo” di Primo Levi a dodici anni nella mia scuola media di allora. Oggi non è più così? è molto peggio, lo scrive Erri nella sua premessa: “Da noi si cresce più facilmente in direzione conforme”, senza più sapienza.
Ecco, non è affato elegante cominciare dalla fine, devo iniziare dalla Premessa che Feltrinelli ha fatto iniziare a pagina 11. Come se uno scrittore come Erri dovesse premettere qualcosa? Ebbene sì, la premessa di Erri è l’opera, è la sua vita, il suo respiro profondo di esistenza, di ragione e sentimento. È un testamento. È nato nel 1950, poteva anzi è mio padre.
Un compagno come Erri non si discute eppure io oso farlo, devo farlo, devo consumare la sua stella inghiottendone luce e calore, oltre al vino, libro da libro e montagne che non conosco.
Una deliziosa intervista di Abel Wakaam mi ha spinto a prendere in libreria una copia di questo libro nuovo; dopo tanti, troppi anni, ho letto pagine errideluchiane, saranno i nuovi occhiali, saranno le sincronizzazioni celesti, ma oggi posso dire che il vero delitto lo commette il lettore che fa passare il tempo senza leggere le opere di Erri, eppure lui scrive:
“Uno scrittore sta anche da imputato di fronte al lettore. Fattispecie del reato è lospreco del suo tempo. Da qui la domanda indiscreta sul perché di un libro. Abbozzo una spiegazione relativa a questo.”
“Non sono padre. Il mio seme s’inaridisce con me, non ha trovato una via per diventare.”
Possibile? Chiarisce prima, nelle righe precedenti, sente il bisogno di giustificarsi per rispondere:
“Capita di ricevere l’insolubile domanda sul perché si scrive un libro.”
La tua opera? è un malinteso compenso? Ma che dici Erri? Chi sono quelli che malintendono pensando ai compensi? I compagni? quelli che si definiscono veri compagni con il sangue più rosso degli altri animali, nemmeno, forse solo umani?
Ho immaginato Erri De Luca come il contadino appeso alla speranza di un tempo clemente per un buon raccolto a fine stagione, anno per anno da stagione in stagione:
“Per un malinteso compenso, ho piantato molti semi in terra, minuscoli granelli sprofondati sotto una compatta massa. Come hanno saputo da che parte dirigere il germoglio? Sepolto come sotto una valanga, il seme sa la più diretta linea di salita per affiorare all’aria. Ha iscritta in sé la notizia della legge di gravità e per contrasto cresce in direzione opposta. C’è in noi la sua sapienza? Se esiste non la riconosco. Da noi si cresce più facilmente in direzione conforme.”
Erri non usa parole a vanvera, la valanga usata a pagina 11 è la valanga di pagina 88, o almeno io credo, voglio credere, ho bisogno di credere, bramo e desidero che sia così.
“Ci s’innamora anche così, sùbito, e pure a dire sùbito si perde la velocità di quell’istante. Si era caricato molto prima, accumulato come una valanga su un pendio. Uno sguardo scambiato la distacca, la fa precipitare. Ci s’innamora in discesa, a capofitto.”
La gravità, come legge e come misura, la direzione opposta come sentimento e come ragione, la valanga come forza genitrice e come forza distruttrice, come montagna da scalare per arrivare all’aria, il senso della vita, in superfice “dove la penitenza più profonda è averne solo un’ora, basta da sola a dire che le altre ventrité sono asfissia.“
Siamo solo a pagina 14, ancora nella premessa, e ho saltato la giustifica madre, il movente padre, le “storie estreme di genitori e figli.”
“Il vocabolario è la mia macchina per attraversare il tempo.”
Imputato dal lettore, imputato dai tribunali, imputato dalla generazione che ha accompagnato e trascinato, imputato dalle generazioni che hanno e continuano a lucrare sulle generazioni in lotta permanente, oltre gli anni formidabili che io posso solo vivere nei racconti, anni belli e funesti che non ho vissuto per limiti d’età, ma anche il lucro è questione di nasi capaci di scansarne il sudicio.
“Oggi si dice di vecchie lire, ma allora erano govani. Il denaro non si distingue in base alla sua età, ma tra pulito e sporco. Si vuole invece che non abbia odore, “pecunia non olet”, il denaro non puzza, dicevano i Romani. È questione di nasi. Esistono persone con fiuto sviluppato che permette loro di annusarne l’origine e scansarlo.”
La premessa termina a pagina 16 con tutto l’orgoglio e il rispetto che si deve ad un padre nel ricordarne l’esempio, la costruzione delle fondamenta che danno stabilità e forza alla nostra esistenza di figli: la decenza dell’onesta!
Se mi permette, dottor De Luca, qui state peccando di superbia.
Se mi permette, io la chiamo decenza.
Dopo l’orgoglio, il vuoto, l’ignoranza che da il senso profondo all’opera, la grandezza naturale come misura fisica del nodo che tiene insieme cime destinate a separarsi, ma il nodo dell’esistenza, dei salti di generazione è la metafora che non scioglie dubbi ma ci lega per sempre all’eternità, oltre questa vita, oltre questa morte sempre pronta a rapirci la coscienza del presente.
… e ora tenetevi forte, cari naviganti, ecco una valanga gentile:
“uno spreco di fiato gli anni che ho passato in paragone questa vita a questa morte”
sono le ultime parole cantate da Angelo Branduardi… è la fine, ma dovete arrivarci alla fine di questo libro mirabile; l’ultima citazione di Erri De Luca è in inglese, non altra lingua, è moderna non antica, la lingua imperiale del mondo moderno, l’ultima citazione a pagina 123 è di William Butler Yeats: “In balance with this life, this death.” … una lirica del poeta irlandese (1865-1939) tradotta in italiano e suonata e cantata da Angelo, eccola: un volo sospeso nell’eternità di ognuno di noi.
Un compagno si discute sempre, a maggior ragione quando i suoi germogli rendono fioriti prati immensi, e fattene una ragione carissimo Erri, come i marinai consumano tutti i porti del mondo, tu hai infiniti figli dispersi per città, foreste, campagne e montagne, magari illegittimi, irresponsabili, predicatori e praticatori di direzioni opposte, inconcludenti, deboli, fragili, magari solo lettori e spettatori, o magari mai nati, legati, immobili, teneramente sempre bambini, ma tutti ribelli e sognatori che si sentiranno sempre figli tuoi, e io, solo uno di loro. Grazie di delinquere ancora, i tuoi scritti sono seme divino e fonte umana in terra. Gli atti processuali sfameranno gli storici di domani, i malintesi compensi sfioriranno per concimare nuova terra da seminare.
All’inizio di questo mio personale cammino di formazione alla lettura, non potevo immaginare che un giorno avrei potuto associare un romanzo alle montagne russe, si, proprio quelle, le terribili e strabilianti giostre che salgono e scendono a mille all’ora, quelle che ti travolgono con un pugno nello stomaco quando precipiti giù, quelle che ti fanno respirare nella scalata lenta verso la cima, quelle giostre vorticose che in pochi secondi rendono l’adrenalina regina in un corpo legato, costretto a seguire una macchina pensata per il divertimento, quelle giostre che a testa in giù ti fanno pensare che tutto il mondo è rovesciato quando stai con i piedi a terra. Questo romanzo si legge in poche ore o meglio, ti travolge con un flusso veloce di storie che intrecciano l’esistenza nei suoi aspetti più densi e profondi. Quando sono arrivato all’ultimo giorno di lavoro di un vigile del fuoco, l’eroe per antonomasia della società civile, mentre i sui colleghi lo vogliono festeggiare, ho toccato, con il suo racconto segreto, il tormento estremo di una società che corre a vuoto, marcia sul posto, nel suo ombellico viscerale che non è il centro ma un vortice di anime solitarie, non è il centro ma un insieme convergente senza dimensioni:
“È il nuovo giorno che sostituisce il vecchio: il ritmo incessante della vita che si ripete ottuso.” – questa frase di qualche pagina prima, esplode tutto il suo significato nella confessione del pompiere, da quel giorno in pensione, i colleghi gli chiedono il giorno più bello, lui racconta: “Non ho mai più provato quella sensazione allo stomaco. Mai.” e di cose brutte, un vigile del fuoco ne vive anche troppe.
In questo meraviglioso romanzo ho trovato una sola parola difficile per me, una parola che però spiega il fascino intenso dell’intero romanzo: aoristo.
sostantivo maschile – Categoria del verbo, particolarmente vitale in greco, che indica l’azione pura e semplice, prescindendo dalle categorie del tempo e della durata: gnôthi seautón (‘conosci te stesso’) è in greco, diversamente dall’italiano, un aoristo, perché valido nel presente, nel passato, nel futuro.
Storie ordinarie, storie comuni, storie che ogni lettore vive e rivive nelle esperienze quotidiane, del passato, del presente, nei desideri del futuro, anche se non si è stati al liceo, anche se hanno abolito il latino nella scuola media, anche se la strada e il sogno di diventare campioni si è infranto nell’utopia della gioventù, la prigione di una sedia a rotelle, la prigione di un corpo inerte che non può decidere se vivere o morire… il rumore dei pensieri, leggendo Acari si fa assordante, l’ho sentito forte:
“Barbara me l’ha detto una volta, mentre la guardavo in silenzio:«Mario! Si sente il rumore del tuo cervello che sta sempre a pensare».”
Le cime e le valli, mai una distesa pianeggiante, mai la pace se non alla fine con il racconto dell’amore di Mario, alla fine, ma bisogna arrivarci all’uscita dalla giostra dei racconti di Rugo, racconti che la quarta di copertina riassume come una “sinfonia polifonica orchestrata magistralmente“, giusto ma non c’è solo una musica fatta bene, c’è la vita vera, con le sue vertigini, i suoi conati di vomito e la sua verità più lucida:
“Un milione e mezzo di turisti invadono ogni estate la riviera romagnola. Un milone e mezzo di culi producono milioni di chili di merda che si riversano nel mare in cui la mattina dopo lo stesso milione e mezzo si farà il bagno. Mi trovo a cesenatico a lavorare come assitente socio sanitario, anche il mio culo quest’anno sta dando il suo piccolo contributo.”
Le emozioni non si possono contenere, nemmeno un libro penso possa farlo, anzi un libro bello come questo, le amplificano e le rendono meravigliose come un giro su una montagna russa che ancora non si conosce.
“Dal bidone dell’immondizia arriva un odore nauseabondo di pannoloni sporchi. Non che me ne vengano in mente di buoni, ma questo è davvero un posto di merda per morire.“
La morte e la vita ci sfiorano, ci accarezzano, ci sfuggono, come la notizia per me tristissima della scomparsa, proprio in queste ore di un mio vecchio compagno di scuola: carissimo Pasquale, che la terra ti sia lieve.
“Quando per mestiere o per vocazione si è molto riflettuto sull’uomo, accade che si provi nostalgia per i primati. Loro se non altro, non hanno pensieri reconditi.”
Camus scrive questa frase nel suo, breve ma vasto e feroce romanzo La caduta, l’anno prima di ricevere il Nobel per la letteratura, nel 1956, quando la rivoluzione ungherese è soffocata dai carri armati russi, quando scrittori come Italo Calvino e Elio Vittorini seguendo Ignazio Silone, abbandonano il più grande partito comunista dell’Europa occidentale: il PCI di Togliatti, colui che costringe Giuseppe Di Vittorio, sindacalista contadino, non operaio, ad abiurare le posizioni di pubblica condanna dell’invasione sovietica, riportando la CGIL alla linea del partito, spegnendo così la minoranza socialista interna; la maggioranza socialista è già uscita fondando la UIL nel 1950: le cinghie di trasmissione sono ben consolidate, i cattolici della CILS ovviamente tirano la DC… sono passati 70 anni ma un buon avvocato serve sempre!
Che cosa ci azzecca con La caduta di Camus? Una mazza! ovvio! o forse no?
Quattro anni dopo Albert Camus muore a soli 47 anni, il 4 gennaio 1960, in un misterioso incidente d’auto insieme al suo editore, ma queste sono altre storie, fatto sta che Albert non è simpatico nè agli americani perchè comunista, nè ai russi perchè anti comunista, e per la verità anche a casa sua viene trattato una schifezza: dalla pubblicazione de L’uomo in rivolta nel 1951, la sinistra intellettuale francese, capitanata da Jean-Paul Sartre lo emargina, definendo il suo approccio borghese e passivo. Già molti anni prima è bollato come troskista ed espulso dal partito comunista, per riassumere sarà per sempre un anarchico viscerale, del pensiero, delle genti, dell’assurdo.
Perché uso la parola feroce? Ovvio! la grandiosità, l’immortalità e la devastante forza di questo libro sono dovute alla ferocia del monologo del protagonista, ferocia sadica e cinica, scatenata con chirugica fermezza contro chi sta distruggendo il suo sole dell’avvenire. Non contro l’umanità ma contro chi l’avrebbe potuta dominare e sottomettere; in quel tempo si era in piena guerra fredda e il comunismo poteva ancora essere vincente, come invece non sarà che evidente solo nel 1989 con la caduta del muro di Berlino, e come forse lo potrà ancora essere oggi nel nostro XXI secolo, sebbene cinese, sicuramente già economico… ma anche queste sono altre storie.
Non conoscevo Camus, ma dopo aver letto e riletto La caduta non ho resistito, non è sempre così, anzi l’ignoranza è una bestia incatenata che riposa in pace fino a quando, sveglia e affamata non rompe l’argine dell’indifferenza, non ho resistito a conoscere l’uomo che ha descritto con chiarezza allucinante non una caduta ma la potenza dell’uomo di cancellare l’umanità di una intera società di esseri pensanti. Per me il protagonista è lui, la risata che lo perseguita è quella della sua coscienza rimasta insieme agli ex compagni che lo deridono mentre, la donna che si suicida sul ponte gettandosi nella Senna di Parigi è l’idea ideale di una società che non ha salvato e che solo alla fine, scopriremo, non potrà mai più salvare perché ha scelto un’altra strada, un altro modello di determinazione politica delle masse.
Sono categorico e definitivo, al momento, non essere minimamente influencer è una grande fortuna, e lo devo all’ignoranza, all’ingordigia di sapere e comprendere la profondità di chi ha combattuto il nazismo riproverando poi negli anni ai suoi compagni, ai suoi governi, le stesse crudeltà che credeva ormai cancellate da ogni prospettiva futura, invece non gli resta che la fuga e diventare lui il dominatore dell’umanità affinché questa possa specchiarsi con la testa decapitata del suo dominatore. Ci mette tutti al muro ma ci salva con una visione materialista della confessione, non per essere perdonati ma per sopravvivere a se stessi.
Prima però costruisce l’arma che spoglia l’ipocrisia, che riga le certezze, ferisce le ovvietà, scortica le convinzioni più salde, uccide le credenze laiche e religiose. La costruzione letteraria del monologo trascende ogni ricostruzione storica o attesa pedante, è l’avvocato delle cause perse perché con queste sviscera le budella di ogni lettore, mai il peccato e i peccatori, ma il giudizio è la morte vera e allora il giudice penitente diventa il predicatore del suo tempo. Rileggiamo insieme alcuni estratti.
Infine la diverto, il che non per vantarmi ma indica che è dotato di una certa apertura mentale. Sicchè, lei è più o meno… Ma che importanza ha? Le professioni mi interessano meno delle sette. Mi permetta di farle due domande e risponda soltanto se non le reputa indiscrete. Possiede delle ricchezze? Qualcuna? Bene. Le ha divise con i poveri? No. Lei è dunque quello che io chiamo un suddaceo. Se non ha frequentato le Scritture, riconosco che questo non le dirà molto. Le dice qualcosa? Sicchè conosce le Scritture? Decisamente, lei mi interessa.
Ecco da dove si parte, dai suddacei: una minoranza, una élite di intellettuali del primo secolo (oggi ne viviamo il ventunesimo) spazzata via per aver collaborato con i romani, invasori e dominatori di quel mondo antico, una fazione collaborazionista di ebrei cancellata da ebrei. La domanda non è retorica: iniziamo a contare i suddacei?
Ma, per tornare a noi, stavo dalla parte giusta e questo bastava a farmi sentire la coscienza a posto. La consapevolezza del diritto, la soddisfazione di avere ragione, la gioia di provare stima per se stessi, caro signore, sono motori potenti per tenerci in piedi o per farci andare avanti. Se invece queste cose agli uomini le togli, li trasformi in cani rabbiosi.
avvocato dalla parte giusta…
Infine non mi sono mai fatto pagare dai poveri e non l’ho mai gridato ai quattro venti. Non creda, caro signore, che di tutto ciò voglia vantarmi. Non avevo alcun merito: l’avidità, che nella società odierna tiene luogo dell’ambizione, a me ha sempre fatto ridere. Io miravo più in alto; vedrà che per quel che mi riguarda non c’è espressione più appropriata.
l’onestà e la dignità di andare più in alto
Provavo, anzi, un tale piacere nel dare che detestavo esservi costretto. La precisione nelle questioni di denaro mi annoiavo a morte e vi acconsentivo solo di malavoglia. Dovevo essere padrone delle mie liberalità.
... mi creda caro signore, tutto ciò significa ergersi più in alto del volgare arrivista e giungere a quel culmine in cui la virtù si nutre ormai solo di se stessa.
Ad ogni ora del giorno, in me stesso e fra gli altri, mi ergevo in alto, accendevo fuochi ben visibili, e un gioioso saluto si levava verso di me. Così, quando meno, mi godevo la vita e la mia superiorità.
I giudici punivano, gli accusati espiavano e io, libero da qualunque obbligo, sottratto al giudizio come alla sanzione, regnavo, liberamente, in una luce edenica.
… un lavoro paradisiaco, la beatitudine in terra di servire il popolo
Ero di origini oscure (mio padre era ufficiale), ancorché oneste, e tuttavia certe mattine, lo confesso umilmente, mi sentivo figlio di re, o roveto ardente. Si trattava, badi bene, di qualcosa di diverso dalla certezza che avevo di essere il più intelligente di tutti. Questa certezza è peraltro di poco conto, essendo condivisa da tanti imbecilli.
… essere dio
Così correvo, sempre appagato, mai soddisfatto, senza sapere dove fermarmi fino al giorno, o meglio fino alla sera in cui la musica si è fermata, in cui le luci si sono spente. la festa in cui ero stato felice…
il primo presagio della svolta, della morte…
Photo by Renato Danyi
Ma lo sa perché siamo sempre più giusti e più generosi con i morti? Il motivo è semplice! Con loro non ci sono obblighi. Ci lasciano liberi, possiamo prendercela comoda, tovare un posticino per l’omaggio fra il cocktail e una deliziosa amante, e a tempo perso, insomma. Se a qualcosa ci obbligassero, sarebbe alla memoria, e noi abbiamo la memoria corta. No, negli amici vogliamo bene al morto recente, al morto doloroso, alla nostra emozione, a noi stessi per dirla tutta!
la sufficenza per i morti di prima cui non abbiamo rispetto né memoria
Così è l’uomo, duplice: non può amare senza amarsi.
la certezza dell’amore a cominciare da se stessi
In quel periodo ebbi anche qualche piccola magagna di salute. Niente di preciso, diciamo un po’ di esaurimento, come una difficoltà a ritrovare il mio buonumore. Andai da alcuni medici che mi diedero qualcosa per tirarmi su. Tornavo su, e poi ripiombavo giù. La vita mi risultava meno facile: quando il corpo è triste, il cuore langue. Mi sembrava di cominciare a disimparare quello che non avevo mai imparato e che pure sapevo così bene, cioè vivere. Sì, credo proprio che fu allora che tutto cominciò.
la creazione dell’attesa, il continuo annuncio di una svolta
Andavo avanti così, alla superficie della vita, nelle parole in un certo senso, mai nella realtà. Tutti quei libri a malapena letti, quegli amici a malapena amati, quelle città a malapena visitate, quelle donne a malapena possedute! Compivo gesti per noia, o per distrazione. Le persone venivano dietro, volevano agrapparsi, ma non c’era dove farlo, ed era una iattura. Per loro. Quando a me, dimenticavo. Mi sono sempre ricordato solo di me stesso.
nel periodo migliore comunque vive una condizione di precarietà emozionale, ininfluente, dimenticata, senza consapevolezza se non nella condanna di una superficialità cruenta elargita agli intellettuali: “tutti quei libri a malapena letti”
La verità è che qualunque uomo intelligente, lei lo sa meglio di me, sogna di essere un gangster e di dominare la società solo con la violenza.
la verità dell’indole criminale che regna nell’uomo
Scoprivo, quanto meno, che stavo dalla parte dei colpevoli, degli accusati, solo nella misura in cui il loro reato non mi procurava alcun danno. La loro colpevolezza mi rendeva eloquente poichè non ne ero vittima.
la differenza con chi subisce danni, ma lui no, non è mai una vittima
Avevo dei principi, certo, e per esempio che la moglie degli amici era sacra. Semplicemente, qualche giorno prima cessavo, in tutta sincerità, di essere amico dei mariti.
pure stronzo, ovviamente!
Solo con la morte gli uomini si convincono delle tue ragioni, della tua sincerità, e della gravità delle tue pene. Finché sei vivo il tuo caso è dubbio, ti meriti solo il loro scetticismo … Per non essere più un caso dubbio, devi semplicemente cessare di essere.
spiegare una possibile vittoria finale ma solo nella scomparsa materiale dell’essere umano
I martiri, caro amico, devono scegliere se essere dimenticati, scherniti o usati. Capìti mai.
quindi la scelta?
E poi, senza girarci tanto intorno, io amo la vita, è questa la mia vera debolezza. La amo al punto da non riuscire a immaginare altro. Una simile avidità ha qualcosa di plebeo, non trova? La nobiltà è impensabile senza un po’ di distacco rispetto a se stessi e alla propria vita. Uno muore, all’occorrenza, si spezza piuttosto che piegarsi. Io invece mi piego, perché continuo ad amarmi. Dopo tutto quello che le ho raccontato, infatti, cosa crede che abbia provato? Disgusto per me stesso? Ma no, erano soprattutto gli altri a disgustarmi.
Il giorno in cui me ne resi conto, scoprii la lucidità. Ricevetti tutte le ferite in una volta sola e persi di colpo le forze. L’universo intero prese allora a ridere intorno a me.
ma no nessuna scelta, nessun atto di coraggio, disprezzo per gli altri e amore per se stesso e la scoperta della derisione che cresce con la lucidità di divieto alla sincerità
Come potrebbe mai la sincerità essere una condizione dell’amicizia? Il gusto della verità a tutti i costi è una passione che non risparmia niente e a cui nulla resite. È un vizio, a volte una soluzione di comodo, o una forma di egoismo.
Ogni tanto, certo , provavo a prendere la vita sul serio. Ma coglievo ben presto tutta la frivolezza della serietà, e continuavo solo a recitare la mia parte, meglio che potevo. Recitavo la parte dell’uomo attivo, intelligente, virtuoso, civico, indignato, indulgente, solidale, retto… ero assente proprio nel momento in cui occupavo più spazio.
avanti e indietro il racconto è una continua attesa che incolla alle pagine, più la sua fama cresce, più l’intellettuale occupa spazio e più si sente assente
Finché un giorno esplosi. La mia prima reazione fu scomposta. Ero un bugiardo, va bene, e allora l’avrei rivelato gettando in faccia a tutti quegli imbecilli la mia doppiezza prima ancora che la scoprissero. Incalzato alla verità, avrei raccolto la sfida. Per prevenire il riso, immaginai quindi di darmi in pasto alla derisione generale. Si trattava ancora, insomma, di evitare il giudizio.
finalmente ci siamo ecco la verità
Ma la verità, amico caro, è una barba unica.
niente, ancora un rinvio, la cancellazione di un appuntamento per ritornare al punto di partenza, nascondersi nella perdizione
Persa ogni speranza nell’amore e nella castità, alla fine mi resi conto che per rimpiazzare l’amore c’era ancora la vita dissoluta, che mette a tacere le risate, riporta il silenzio e, soprattutto, regala l’immortalità.
Sì, morivo dalla voglia di essere immortale. Mi amavo troppo per non desiderare che il prezioso oggetto del mio amore non scomparisse mai. Visto che da svegli, per poco che ci conosciamo, non scorgiamo motivi validi per cui una scimmia lubrica sia concessa l’immortalità, occorre che qualche succedaneo di questa immortalità ce lo procuriamo noi. Siccome desideravo la vita eterna, andavo a letto con delle puttane e bevevo per notti intere.
L’alcol e le donne, devo ammetterlo, mi hanno fornito l’unico conforto di cui fossi degno. È un segreto che rivelo a lei, caro amico, e ne faccia pure uso. Si accorgerà allora che la vera dissolutezza è liberatoria poichè non crea alcun obbligo. Possiedi solo te stesso, motivo per cui è l’occupazione preferita di coloro che sono innamorati della propria persona.
A volte si vede più chiaro in colui che mente che non in colui che dice il vero. La verità, come la luce, acceca. La menzogna, invece, è un bel crepuscolo, che mette ogni oggetto in risalto.
Così. Secco. In filosofia come in politica, sono quindi favorevole ad ogni teoria che neghi all’uomo l’innocenza e a ogni pratica che lo tratti da colpevole. Lei ha di fronte, mio caro, un sostenitore illuminato della servitù.
Photo by Felix Mittermeier
eccolo il fuoco di difesa e dell’attacco, il vero peccato è la condanna, da condannare è solo la libertà dell’individuo che non può essere un diritto né una conquista, l’essere sociale và comandato
L’essenziale è che tutto diventi semplice, come per il bambino, che ogni gesto sia comandato, che il bene e il male siano designati in maniera arbitraria, cioè inequivocabile.
Ma sui ponti di Parigi ho scoperto di avere anch’io paura della libertà. Quindi viva il padrone, chiunque lui sia, per rimpiazzare la legge del cielo.
Vede, l’essenziale, insomma, è non essere più liberi e obbedire, nel pentimento, a qualcuno più furfante di te. Quando saremo tutti colpevoli, allora ci sarà la democrazia. Senza contare, amico mio, che dobbiamo vendicarci di morire soli.
La morte è solitaria, mentre la servitù è collettiva. Anche gli altri hanno la loro parte, insieme con noi, questa la cosa importante. Tutti riuniti, finalmente, ma in ginocchio, e con la testa china.
sul ponte di Parigi la nobile idea l’hanno suicidata, la scelta è la democrazia non la dittatura del proletariato
Disprezzato, perseguitato, costretto, posso dare il meglio di me, godere di ciò che sono, essere filamente me stesso. Ecco perché, carissimo, dopo aver solennemente accolto la libertà, decisi fra me che bisognava restituirla seduta stante a tutti.
... così diventa predicatore dentro la sua chiesa, il bar Mexico-City, un’anomalia geografica dentro l’operosa Amsterdam, “una capitale di acqua e di nebbie” lontano dalla dissoluta Parigi …
E ogni volta che posso predico nella mia chiesa del Mexico-City, invito il buon popolo a sottomettersi e ad aspirare umilmente agli agi della servitù, che io presento però come la vera libertà. Ma non sono pazzo, mi rendo conro che la schiavitù è di là da venire. Sarà uno dei vantaggi del futuro. Tutto qua.
Allora? Dirà lei. Ebbene, senta qual è il colpo di genio. Ho scoperto che, in attesa dell’avvento dei maestri e delle loro bacchette, per trionfare dovevamo rovesciare il ragionamento, come Copernico. Poiché non potevamo condannare gli altri senza nel contempo giudicare noi stessi, dovevamo infierire su di noi per avere il diritto di giudicare gli altri. Poichè prima o poi ogni giudice finisce penitente, dovevo imboccare il percorso inverso e fare mestiere di penitente per poter finire giudice. Mi segue? bene.
Ho aperto il mio studio in un bar del quartiere dei marinai. La clientela dei porti è molto eterogenea. I poveri non vanno nelle zone eleganti, mentre ha visto che nei luoghi malfamati la gente di rango almeno una volta ci capita. Io tengo d’occhio soprattutto il borghese, e il borghese che si è perso; con lui rendo il massimo. Da lui so trarre, come un vero virtuoso, gli accenti più raffinati.
qui rende evidente la sua platea, il nuovo popolo europeo, uscito dalla guerra e costruttore di un nuovo occidente… la costruzione di un carnevale infinito, una festa danzante e godereccia, servile, comandata! ai suoi detrattori offre lo specchio di ciò che grazie anche alla sua complicità stanno diventando, sordi alle atrocità che si ripetono
la sua “utile professione” è praticare ogni volta che è possibile una confessione pubblica, “Mi accuso in lungo e in largo” dice, tratteggio così un ritratto che è quello di tutti e di nessuno. Una maschera insomma, molto simile a quella di carnevale
Quando il ritratto è finito, come stasera, lo mostro, in preda al più totale sconforto: “Questo, ahimè, è quello che sono.” La requisitoria è conclusa. Intanto, però, il ritratto che porgo ai miei contemporanei diventa uno specchio.
Con il capo coperto di cenere, strappandomi lentamente i capelli, il volto graffiato, ma lo sguardo penetrante, mi ergo difronte all’umanità intera, ricapitolando le mie turpitudini, senza perdere di vista l’effetto che produco, e dicendo: “Ero l’ultimo degli ultimi.” Allor, insensibilmente, passo nel mio discorso dall’“io” al “noi”. Quando arrivo al “ecco che cosa siamo”, il gioco è fatto, posso dir loro la verità in faccia. Io sono come loro, certo, siamo tutti sulla stessa barca. Ma ho un privilegio, io, il fatto di saperlo, che dà il diritto di parlare.
Più mi accusi e più ho il diritto di giudicarla. Meglio ancora, la provoco e giudicarsi da sé, cosa che mi sgrava ulteriormente. Ah! mio caro, siamo strane, misere creature, e se solo guardiamo alle nostre vite, non ci mancheranno le occasioni per stupirci e scandalizzarci.
Ho accettato la duplicità anziché farmene un cruccio. Mi ci sono accomodato, semmai, e in essa ho trovato l’agio che ho cercato per tutta la vita. Sbagliavo, in fondo, a dirle che la cosa fondamentale era evitare il giudizio. La cosa fondamentale è potersi permetere tutto, anche proclamando talora a gran voce la propria indegnità. Mi permetto tutto, di nuovo, e questa volta sul serio. Non ho cambiato vita, continuo ad amare me stesso e a usare gli altri. Ammettendo però le mie colpe, però, posso ricominciare con più leggerezza e godere due volte, prima della mia natura, e poi di un pentimento squisito.
a me sembra chiaro, non ha cambiato un bel niente, la sua vita è la stessa di prima, anzi il pentimento è squisito, è l’annuncio dell’assurdo
Da quando ho trovato la soluzione mi abbandono a tutto, alle donne, all’orgoglio, alla noia, al risentimento, e anche alla febbre che con piacere ora sento salire. Finalmente regno, ma per sempre. Ho trovato un’altra vetta, dove sono l’unico ad arrampicarmi e da cui posso giudicare tutti. A volte, di tanto in tanto, quando la notte è proprio bella, sento una risata lontana e di nuovo sorgono i dubbi. Ma subito anniento tutto, creature e creazioni, sotto il peso della mia infermità, ed eccomi di nuovo in forma.
la sua scelta è compiuta, la risata si è affievolita, lui è in forma e sta scalando una nuova montagna, è predicatore, è chiesa, lavora ad un altro futuro come un dio
Che ebrezza sentirsi il Padreterno e distribuire patenti definitive di vita e costumi reprobi.
Sul volto smarrito, mezzo nascosto da una mano, leggo la tristezza della condizione comune, e la disperazione di non avere scampo, e io compatisco senza assolvere, capisco senza perdonare e soprattutto, ah, sento finalmente di essere adorato.
c’è chi lo ama, chi l’adora, il Nobel l’anno dopo sarà la conferma di quanto già sapeva
Photo by Justin Hamilton
Si, mi agito, come potrei starmene a letto tranquillo? Devo essere più in alto di lei, i pensieri mi sollevano. Quelle notti, o meglio quelle mattine, giacché la caduta avviene all’alba, esco, vado con passo rapido lungo i canali. Nel cielo livido gli strati di piume si diradano un po’, le colombe risalgono appena, un chiarore rosato annuncia, rasente i tetti, un nuovo giorno della mia creazione. Sul Damrak tintinna il campanello del primo tram, che nell’aria umida suona il risveglio della vita ai margini di questa Europa dove nello stesso momento centinaia di milioni di uomini,miei sudditi, si strappano a fatica dal letto, con la bocca amara, per andare verso un lavoro senza gioia. E in quel momento,mentre plano con il pensiero sopra tutto questo continente che senza saperlo mi è sottomesso, mentre bevo la luce d’assenzio che si leva, ubriaco infine di parole malvage sono felice, eccome se sono felice, glielo dico io, le proibisco di non credere ch’io sia felice, felice da morire! Oh! sole, spiagge, e isole battute dagli alisei, giovinezza il cui ricordo è straziante!
non una caduta quindi, ma certe notti all’alba cadute ripetute, sono i dubbi della coscienza, il ricordo straziante di una giovinezza combattuta con le armi in pugno, le armi delle parole che sono esercito
Alla fine, ogni volta arriva la rivelazione, il desiderio di essere arrestato, decapitato con la sua testa in mano al boia, mostrata al popolo riunito affinché tutti vi riconoscano e io di nuovo li domini, esemplare Ogni cosa sarebbe consumata, avrei concluso, come se niente fosse, la mia carriera di falso profeta che grida nel deserto e si rifiuta di uscirne.
Non siamo forse tutti simili, a parlare senza sosta a nessuno, a misurarci sempre con gli stessi interrogativi di cui peraltro conosciamo in anticipo le risposte? Allora mi racconti, la prego, cosa le è successo una sera sul lungo senna e come è riuscito a non mettere mai a repentaglio la sua vita. Pronunci lei stesso le parole che da anni non smettono di riecheggiare nelle mie notti, e che dirò finalmente attraverso la sua bocca: “O ragazza, buttati ancora nell’acqua perchè io abbia una seconda volta la possibilità di salvarci entrambi!”
allora la domanda è a me lettore: tu che non hai mai messo a repentaglio la tua vita, chiamato ad agire, che farai? Seguirai il falso profeta decapitato o allo specchio sceglierai di uscire dal deserto della tua anima e dissetarti alla fonte del raccontarsi?
Una seconda volta eh, che imprudenza! Supponga, caro avvocato, che ci prendano in parola? Ci toccherebbe agire. Brr…! L’acqua è così fredda! Ma possiamo star tranquilli! È troppo tardi, adesso sarà sempre troppo tardi. Per fortuna!
sarà sempre troppo tardi! o meglio, prima che sia troppo tardi, di sicuro! e allora penso che per Parigi quella bella ragazza gira ancora alla ricerca di un nobile cavaliere affamato di armoniosa dissolutezza capace di accompagnarla nella luce di un nuovo giorno.
Ringrazio chi mi ha consigliato questa lettura perché non ha idea del guaio che ha combinato 🙂 liberare una bestia non è mai una buona idea!
…il coraggio lo devo a lui. A Paul Auster devo il coraggio di aver osato pubblicare #ilTerzoLivello. Non credo di riuscire mai più a evadere dalla sua Trilogia di New York, sono imprigionato nei tre racconti che formano un unico romanzo: mi ha stravolto, allucinato, rapito per sempre. Non scherzo, lo confesso e pagherò tutto quello che c’è da pagare. La pistola è carica e pronta a sparare se il mio me stesso dovesse entrare da quella porta: non c’è scampo, non c’è via di fuga, non posso che ritornare indietro all’inizio delle indagini alla ricerca della città di vetro, dei fantasmi e di questa stanza chiusa. L’epilogo è l’inizio.
Certo, posso sbagliarmi. In quel momento non ero in condizione di leggere nulla, e forse il mio giudizio è alterato. Ero lì, scorrevo le parole con gli occhi, e stentavo a credere a quello che vedevo.
– Non puoi sapere cosa è vero o falso. Non lo saprai mai
– Chiamerò la polizia. Sfonderanno la porta e ti porteranno a forza all’ospedale.
– Al primo colpo contro la porta una pallottola mi trapasserà il cranio. Non puoi vincere, è inutile.
Quello che ha abbattuto ogni mia paura di pubblicare cose poco interessanti, o peggio scritte male e insulse, è stato il suo incipit nella Città di vetro:
”La questione è la storia in sé: che abbia significato o meno, non spetta alla storia spiegarlo.”
Cos’è il significato di un racconto, di una vita, di un momento, di un eterno pensiero, della nostra storia dentro la storia di tutti gli altri dentro di noi? Non spetta a chi scrive, spetta a chi legge …
“All’improvviso gliene veniva offerta l’opportunità e adesso, in strada, l’idea di quello che gli si prospettava si ingigantì come un incubo atroce. Pensò alla piccola bara che racchiudeva il corpo del figlio, a come l’aveva vista calare sotto terra il giorno del funerale. Quello era l’isolamento, disse fra sé. Quello era il silenzio. Forse non era un vantaggio che anche suo figlio si fosse chiamato Peter.”
– Veda, signor Quinn… il mondo è in frammenti. E il mio lavoro è ricomporli insieme.
– Be’, è un bell’impegno.
– Me ne rendo conto. Ma io cerco unicamente il principio. Questo è senz’altro alla portata di un uomo solo. Se riesco a porre le fondamenta, altre mani sapranno compiere la riedificazione vera e propria. L’importante è la premessa, il primo gradino teorico.
Perdersi nelle pagine di Paul è fin troppo facile ma non è smarrimento, è anzi un viaggio illuminato:
– Mentire è brutto. Ti fa pentire di essere nato. E non essere nati è una maledizione. Sei condannato a vivere fuori dal tempo. E quando vivi fuori dal tempo, non esistono il giorno e la notte. Non hai nemmeno la possibilità di morire.
– Capisco.
– Una bugia non si cancella mai. Nemmeno con la verità. Io sono un padre, e queste cose le so.
Non servono mappe del tesoro, non è la caccia all’isola che non c’è, è già il coraggio che abbiamo dentro di guardare fuori non per assistere ma per agire:
“Si chiedeva se sarebbe stato capace di scrivere senza penna, o se invece avrebbe imparato a parlare riempendo il buio con la voce, pronunciando le parole nell’aria, nei muri, nella città, anche se la luce non fosse tornata mai più.”
“Su Black, su White, sul lavoro che gli è stato affidato, ora Blue incominciava ad avanzare alcune ipotesi. Scopre che inventare storie, oltre a servirgli a far passare il tempo, può essere un piacere.”
“Pronunciare una condanna a morte era orribile, ma lavorare per un morto non sembrava molto meglio.”
“Amare le parole, investire una parte di sé in quello che è scritto, credere nel potere dei libri: tutto ciò sommerge il resto, e al confronto la propria vita individuale diventa insignificante.”
“Dentro le parole immaginiamo la vera vicenda, e a tal fine ci sostituiamo ai personaggi fingendoci capaci di comprenderli perché comprendiamo noi stessi. È una mistificazione. Noi esistiamo per noi stessi, forse, e talora cogliamo anche un barlume della nostra identità, ma alla fine non siamo mai sicuri, e col passare delle nostre vite diventiamo sempre più opachi al nostro sguardo, più consci della nostra disorganicità. Nessuno può sconfinare in un altro – per il semplice motivo che nessuno può accedere a se stesso.”
“Ora scoprii che quella stanza si trovava nel mio cervello.”
“La conclusione, tuttavia mi è chiara. Non l’ho dimenticata, ed è una fortuna che mi sia rimasta almeno quella. Tutta la storia si restringe al suo epilogo, e se ora quell’epilogo non l’avessi dentro di me, non avrei potuto iniziare questo libro. Lo stesso vale per i due che lo precedono, Città di vetro e Fantasmi. In sostanza, le tre storie sono una storia sola, ma ognuna rappresenta un diverso stadio della mia consapevolezza di essa. Non pretendo di aver risolto nessun problema. Voglio solo segnalare che venne un momento in cui guardare ciò che era successo cessò di spaventarmi. Se le parole seguirono, fu unicamente perché non avevo altra scelta che accettarle, addossarmele e andare dove mi portavano. È tanto tempo ormai che lotto per dire addio a qualcosa, ed è la lotta quello che veramente conta. La storia non è nelle parole: è nella lotta.”
Mancano ancora una ventina di pagine quando Paul firma la sua immortalità nel significato delle cose importanti dell’agire umano.
La storia non è nelle parole: è nella lotta!
ora sai perché #ilterzolivello è diventato un libro che vaga fuori dalla stanza, e per il piacere dei collezionisti, la traccia da seguire è l’incipit non più pubblicato:
Attendevo una telefonata importante che non arrivava mai. Le ossessioni iniziano all’improvviso, inaspettate. Mi tormenta un dolore tutto interiore, un dolore che si ripete e che non so spiegare. Con chiacchiere inutili e conversazioni necessarie, la storia che sto per raccontare potrebbe non avere senso. Paul direbbe che “la questione è la storia in sé: che abbia significato o meno, non spetta alla storia spiegarlo”.
piano piano leggerò anche David Foster Wallace, prima lo scherzo infinito e poi il re pallido … o prima il re pallido e poi Infinite Jest?
La mente funziona così, una gentilissima e colta lettrice mi dice: «Un po’ ti consiglierei di leggere Foster Wallace» e poi mi manda un pdf che divoro voracemente.
L’ultimo discorso di saluto per i nuovi laureati in un college americano di cui ho memoria è quello di Steeve Jobs, si proprio lui, quello di “siate affamati, siate folli!” – pazzia e fame, veramente un grande futuro! 🙂 calmi calmi, lo so’, anche Steeve come David, parlano di pensiero e lo fanno ancora, anzi lo faranno per sempre!
(ma visto che mi trovo, è interessante anche un’altra sua frase storica: “Non è compito dei consumatori sapere quello che vogliono.” quindi dei due chi è l’acqua santa e chi il diavolo?)
Prima di iniziare a leggere il pdf, vedo che è un discorso tradotto da Roberto Natalini e allora mi chiedo: «chi èRoberto Natalini?» Ah, la rete che meraviglia,Roberto Natalini è un accademico, e che accademico!
… condivido i primi 2 link che ho divorato … si fa per dire, gli sforzi degli esami di analisi matematica mi tornano ancora in gola 🙁 … ma la fascinazione no, quella non si controlla …
“Wallace considerava la Matematica come una delle più grandi imprese culturali dell’umanità ed era interessato, a un livello più profondo, alla Matematica come a un linguaggio capace di descrivere e trasmettere idee belle e difficili, una specie di serbatoio capace di fornire dei principi narrativi, a volte nascosti, per le sue narrazioni.”
nello scherzo infinito – “incontriamo delle situazioni narrative che corrispondono ai due infiniti di cui si è parlato sopra. Da una parte abbiamo la ripetizione infinita, a loop, il ripresentarsi continuo di gabbie in cui l’apparente porta di uscita conduce solo ad altre gabbie, il muoversi in modo circolare lungo curve chiuse: la dipendenza dalla droga e dall’alcool (i continui cicli di disintossicazione e di ricaduta), il sesso come esperienza vuota e straniante (uno dei personaggi maschili ha l’abitudine dopo il coito, che a lui non provoca nessun piacere, di tracciare compulsivamente con il dito il simbolo dell’infinito sul fianco nudo della ragazza con cui è appena stato), la ripetizione ossessiva della pratica sportiva nell’accademia di tennis, …” – “Leggendo Wallace sentiamo una voce nella nostra testa che parla, come se fosse un secondo ‘io’ più intelligente e linguisticamente onnisciente, che con noi costruisce un dialogo intenso e pieno di significato.”
ma veniamo all’acqua, potevo annegare ma invece mi sono dissetato …
Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?” I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “ma cosa diavolo è l’acqua?” … È straordinariamente difficile da fare, rimanere coscienti e consapevoli nel mondo adulto, in ogni momento. Questo vuol dire che anche un altro dei grandi luoghi comuni finisce per rivelarsi vero: la vostra educazione è realmente un lavoro che dura tutta la vita. E comincia ora.
Non è più tempo di riassunti, per comprendere il messaggio, il segno e l’augurio di David bisogna leggerlo … per me, prima che sia troppo tardi!
un commento alla nuova pubblicazione 2021 di Einaudi (prima edizione 2001)
Quando ho letto nella prefazione di Domenico Starnone:
‘De Silva forse deve qualcosa soltanto ai piccoli gangster ebrei di C’era una volta in America’
mi sono vergognato di non aver letto questo libro venti anni fa. Ho rimediato con voracità colmando una profonda lacuna che più di ogni altra cosa (è ovviamente un fatto personale di scarsissimo interesse collettivo), mi ha riaperto ferite che pensavo fossero completamente rimarginate. Questo fa la grande letteratura, non scade, non passa di moda, racconta sempre nel presente storie che non finiscono mai. Dall’antichità a oggi, l’uso dei minori nel lavoro che sfrutta gli umani non è affatto un un capitolo chiuso, quando poi è un lavoro sporco e criminale, che ammazza le persone su commissione, i sensi di colpa di appartenere ad una razza animale bastarda come quella umana sono insopportabili. Eppure senza la testimonianza, senza il racconto, senza la conoscenza viva e diretta della realtà ogni vita sarebbe menomata, incapace di scavare nel profondo dell’abisso per riconoscersi diverso e fortunato da chi nasce e cresce già condannato a seguire strade senza ritorno. La produzione e riproduzione della malvagità sono molto meno marginali di quanto si possa immaginare, forse anche solo sperare, ci cammina dentro tanto da rivelarsi in chi invece è chiamato e formato alla tutela della giustizia. È sempre colpa degli adulti e “certi bambini” lo sanno bene e solo per difendersi e sopravvivere devono emularli e prenderne il posto. Dove ci sono regole il più forte le infrange sebbene la sua umanità bollente di tenerezza e amore lo costringa a tormenti indefiniti, anche fisici, senza risposte adeguate.
“Il torpore sparì per qualche secondo e poi tornò peggio di prima, accompagnato da una sensazione di vuoto in mezzo alle cosce, proprio lì, dove teneva la sua ricchezza più importante.”
Rosario non è solo un certo bambino, un rappresentante di una categoria, Rosario è ogni bambino cresciuto in strada in ogni metropoli del mondo e con lui i suoi amici, la sua gente, e l’infamità del suo universo condannato all’inferno sulla terra, l’inferno delle gerarchie, dei deboli sopraffatti dai forti.
“Rosario va a uccidere con la testa piena di ordini e una specie di ignoranza. Sente tutta la responsabilità delle istruzioni ma non del risultato che verrà. Si è addestrato all’ubbidienza fino a sviluppare come un disinteresse per quello che dovrà succedere, fino a pensare all’uomo che ammazzerà come una conseguenza meccanica delle istruzioni, a un fatto, una cosa che lo riguarda solo in quanto prova morente dell’esecuzione.”
Rosario è ogni bambino soldato, arruolato e addomesticato da un esercito, istituzionale o meno non fa differenza, il degrado delle periferie o dei centri storici non fanno differenze, la chiave della svolta è il coraggio e non tutti sono come lui.
“Era così libero dal ricatto della paura, del pericolo, della vita, che il pensiero di morire non gli faceva più niente. Anzi, in un certo senso avvicinare la morte, andare verso di lei in una volta sola, con un atto unico, un sì o un no, la rendeva piccola.”
Che fine ha fatto Rosario? non è la domanda giusta, la domanda interessante è cosa sta facendo il Faraone? che Diego ringraziava allora come ringrazia ancora oggi dopo venti anni, con questa nuova e “miracolosa” ripubblicazione di un libro che bisogna leggere, assolutamente.
“Grazie a Gianfranco Marziano, perché gli devo molte delle cose raccontate in questa storia”
Oh la rete … cercando il Faraone ho trovato questo documentario Rai che non avevo mai visto (spero di essere l’unico) è una puntata di Torre d’Autore su Salerno con Amleto De Silva
In questa puntata di Terre d’autore, lo scrittore e umorista Amleto De Silva ci porta a Salerno, tra i luoghi della sua infanzia e personaggi popolarissimi che hanno contribuito alla sua formazione e alla creazione dei protagonisti del suo romanzo “L’esemplare vicenda di Augusto Germano Poncarè”. Un’occasione per scoprire una Salerno inedita, che sa stare al passo con i tempi pur con le contraddizioni tipiche della città di provincia, che De Silva coglie con senso dell’umorismo, rivelando un grande amore per la sua città.
“più ti vanno male le cose e più sei contento” 🙂 Amleto De Silva
“lì comincia il lungomare dei poveri, quello senza alberi” … si Amleto, proprio dove si cammina con il #ilterzolivello
Il Terzo Livello: ecco la revisione del 4 luglio 2021
così come pubblicato, questo romanzo è una pietra lavorata per incidere sull’evoluzione del presente. Un caso originale di narrazione mutante e divertente nonostante lo spessore a tratti seriosi dei temi trattati. Da leggere e farne discussione con nonni, genitori e figli.
Affrontare i conflitti aiuta a migliorare se stessi e chi vuoi bene.
Un romanzo fatto di legamenti e nodi di contrasto.
SINOSSI – riassunto minimo
A causa di una misteriosa convocazione da parte di un giovane maresciallo dei Carabinieri, Antonio Esposito si sveglia con un incubo da tempo non più ricorrente, è il conflitto padre figlio che ritorna, doloroso. La novità di una giornata diversa dal solito e i dubbi su una convocazione in una caserma militare, portano il protagonista a raccontarsi pensieri scombinati, del presente e del passato, riflessioni, domande e risposte che si accavallano nella sua mente durante il percorso che ha scelto per recarsi all’appuntamento con l’Arma. La passeggiata sul suo lungomare, della sua città, è breve ma percorre tutta la sua esistenza compresa quella dell’oggi come lavoratore e sindacalista, e come anomala spia del terzo livello: costruzione mentale del suo complotto interiore. In caserma, nell’incontro e scontro con il maresciallo Gradone, scoprirà un fatto incredibile che lo coinvolge suo malgrado ad affrontare la risoluzione del racconto che si svolgerà tra colpi di scena e strutture futuribili.
Il Terzo livello è un esperimento creativo di scrittura, essenzialmente un approdo precario, necessario all’autore che affronta in modo originale, un rapporto conflittuale padre figlio, attraverso le confessioni intime di una spia egocentrica, rendendo la storia campo di confronto con il lettore di ogni età. I tre livelli generazionali in cui il protagonista è figlio prima che genitore, si intrecciano con il racconto del suo personalissimo modello sociale a tre livelli, inglobando formazione e maturazione dell’essere con il frastuono incoerente di pensieri che fluiscono su piani paralleli, sospesi tra i rimorsi, necessità e desideri. Il racconto della sua presenza, da bambino, da adolescente, da sportivo, da studente e lavoratore, da spia e sindacalista, è una esplorazione agitata e frenetica, con flashback improvvisi, di relazioni e avvenimenti anche sconnessi tra loro ma che liberano il personaggio da sensi di colpa ingombranti.
Fatti di rilievo come il boom economico degli anni 50/60’, i complotti politici e la “Notte della Repubblica” fanno da collante storico in una esistenza che ha però una bella pretesa: Antonio Esposito è il protagonista della sua vita. Non è un romanzo giallo, ma ci sono le spie, i complotti, c’è il sarcasmo della vita quotidiana e di quella preoccupante di un maresciallo inquisitore. Fatti veri come nei, caratterizzano un racconto di fantasia, ideale ma non troppo. Poi c’è la città, simile alle mille cresciute nei millenni intorno ai porti della gente mediterranea: Salerno è la storia attraverso il luogo che non c’era, quello a sud del fiume Irno, quello che ha sostituito la vecchia zona industriale e commerciale controllata dalla Polveriera dei Borboni. Ci sono le fabbriche abbandonate come simbolo di conflitti dimenticati, il calcio e il tennis, un Macintosh, la radio libera, c’è la droga come in mille quartieri simili nelle mille metropoli del mondo, di ieri e di oggi.
Nell’era di Twitter e di post lampo che scorrono veloci su Facebook, il tempo di leggere storie è limitato, ma il bisogno di consumare e condividere la propria presenza è dominante. Le battute discontinue dei dialoghi, o i monologhi, e la mancanza descrittiva dell’atmosfera dei fatti che accadono intorno ai pochi personaggi che animano la storia, sono scelte che rompono gli schemi essenziali di un romanzo, nel tentativo di crearne una costruzione sceneggiata con strumenti elementari di pseudo poesia per immagini, proprio come avviene sui social, come è però, impossibile da immaginare dentro la reclusione soffocante della pandemia. Il mare come proprietà e come bisogno rende bene l’idea della fuga dalle paure più intime, e così anche il “runner illegale” che corre per la libertà, diventa una scena che non ha bisogno di descrizione.
In piena pandemia 2020, Antonio Esposito brucia i ricordi di una vita che dura il tempo di una passeggiata sul suo lungomare, una andata e un ritorno con sorprese e colpi di scena, con accanto e sullo sfondo la Divina costiera. L’ovvietà di un’impresa paradossale si aggrappa ad una tensione che resta latente fino all’epilogo finale che viene rimandato, pagina dopo pagina per un epilogo che è da scoprire anche se non c’è un cadavere, un delitto: in gioco ci sono le relazioni umane primordiali che prima del sangue chiedono il ragionamento per poi tornare al principio, per poi ripartire. Il bisogno di comunicare è nel DNA di ognuno ma il bisogno di scrivere per lasciare un segno è precedente. Questa genesi ha bisogno di un approdo definitivo, è una sfida lanciata nella rete globale della comunicazione che spetta al lettore raccogliere per navigare sé stessi…
Pornografia dei sentimenti. Quando lo senti in una presentazione dall’autore non ha lo stesso effetto di quanto lo vedi leggendo le sue pagine. Quando poi nelle sue pagine ho trovato l’ardua impresa di fare la rivoluzione con la Poesia per distruggere la “Grande Fabbrica della Merda”, una vertigine fortissima mi ha tramortito. Combattere l’impossibile con la forza e la bellezza della gentilezza, dell’insegnamento, della scoperta, della persuasione, delle visioni dell’arte, è il sogno che diventa realtà. L’eterno mito della lotta del debole che combatte il forte, è messo in scena con la maestria delle parole, in una storia che mi ha acchiappato con frenesia, e mi ha fatto fare il tifo per i cattivi, i delinquenti che rapiscono, sequestrano, poi corrompono l’anima, reclutando la protagonista e il lettore che segue una vicenda appassionante nella sua assurdità, mirabile iperbole della società in cui galleggiamo giorno per giorno.
“Comunicare le proprie ossessioni è bellissimo”
lo dice l’autore in un’intervista e in questo libro si respirano intense le nostre nevrosi quotidiane di consumatori di miserie umane sia quelle nella ricchezza che quelle, nella povertà dell’esistenza.
La rivincita, il progetto, il piano e la sfida al colosso, al paese intero:
“Senza contare che questo prendersi un’ora di diretta in prima serata sa tanto di riappropriazione dei mezzi di produzione”.
Lo dice l’autore, “le differenze di classe sono diventate differenze antropologiche” e quindi si capisce che la scommessa è anche storica:
“… da tutta quella finzione che diventa più vera del vero, iperrealismo, storie addomesticate. Sanno come funziona l’imbroglio televisivo nel più minuscolo dettaglio, ma ne restano comunque stupiti, è un superpotere.”
Per concludere, un’ultima citazione da questo bel libro che vale tutto il tempo che mi ha preso:
“C’è il piccolo sciacallaggio della politica, c’è dispiacere sincero, c’è uno smottamento emotivo. C’è un paese che aspetta. C’è tutto.”
È audace ma con la Poesia si può fare la rivoluzione, anche svegliarsi il giorno dopo è la rivoluzione che non aspetta chi si ferma solo a guardare.
Per festeggiare san Pietro & san Paolo condivido l’ultimo mio esercizio di scrittura del gruppo FB Scrittori e Scrittrici emergenti (SESE).
traccia: scena finale del film “Via col vento” – lunghezza 20 righe
Stiamo chiudendo, finalmente è venerdì, sarei già scappato ma oggi devo fermarmi, gli voglio parlare: «Jenny, hai un minuto per me?»
«Che ci fai ancora qui? siamo a metà mese!» – è sorpresa di vedermi sull’uscio del suo ufficio sempre aperto, nella sua voce la meraviglia diventa curiosità materna: «bellino, tu non me la conti giusta, ti ho osservato tutta la settimana, ancora problemi con la piccola? come sta?» – l’ufficio è quello di una segretaria ma la sua funzione va oltre, Ginevra si preoccupa di tutti ma lo fa con discrezione, mi ha salvato il culo un sacco di volte, sa della malattia di Desy, sa dei casini con la mamma, sa tante cose di me, ci vogliamo bene, è una grande compagna di lavoro, lei sa come mi butterei nel fuoco per lei.
«No Jenny, lei sta bene, te l’avrei detto, sta recuperando alla grande, ha ripreso anche a camminare» Ginevra in questo luogo triste è sprecata, fa tre lavori e a stento quell’amorale di principale gliene paga uno, in una ditta più grande, una seria, una bella, sarebbe la manager del personale, altro che segretaria.
«Ok e allora che ti serve? dai sbrigati devo chiudere i conti, dai si può sapere che vuoi?» – è incredibile come dopo una giornata di lavoro, un venerdì infernale come oggi, lei sia sempre così perfetta, efficiente e sexy da morire: «niente lavoro con lui questo fine settimana?» – prendo tempo perché quello che le devo dire non le piacerà.
«Giovanotto! non sono cazzi tuoi, o entri ti siedi e mi racconti cosa succede o te ne vai di corsa a quel paese, deciditi!» – non funziona, lo sapevo.
«Jenny gli voglio parlare, ne ho bisogno, tu intanto non chiudere ancora la cassa» apriti cielo, Ginevra si incazza di brutto.
«Adesso? a quest’ora? sei un cazzone, va, va, adesso lo sento» – non mi muovo, le sventolo tre bollette scadute che devo pagare con urgenza, lei prende il telefono, lo chiama, confabula agitandosi a gesti verso di me, posa la cornetta, si alza in piedi, mi raggiunge all’orecchio e mi sussurra: «lui ha detto che francamente se ne infischia, io ti dico tra due ore al solito posto poi domani, se ti va penseremo ad un altro giorno».
auguri a tutti/e Pietro, Piera, Pedra, Pierrette, Pétronille, Paolo e Paola del mondo: salute e serenità a festeggianti e festeggiatiper oggi e per tutti gli anni a venire.
Édouard Louis ha vinto il PREMIO SALERNO LIBRO D’EUROPA 2021
Anche con il mio voto ha vinto un piccolo grande libro che merita di essere studiato nelle scuole primarie.
“Non accetto che vengano dimenticati. Voglio che siano conosciuti ora e per sempre, ovunque, in Laos, in Siberia e in Cina, in Congo, in america, ovunque da una sponda all’altra degli oceani, in ogni continente, al di là di tutte le frontiere.”
“Non c’è fierezza senza vergogna: eri fiero di non essere un fannullone perché temevi di essere uno di quelli da designare con questa parola. Il termine fannullone è una minaccia per te, un’umiliazione. Questo tipo di umiliazione venute dai dominanti ti fanno chinare la schiena ancora di più.”
“Sei cambiato da un giorno all’altro, uno dei miei amici dice che sono i figli che trasformeranno i genitori e non il contrario.”
… lo so, è il disgustoso egocentrismo di un fantasma che tenta di stabilire contatti con la realtà del passato, ma i complimenti e gli incoraggiamenti di chi ha letto il #ilterzolivello mi rendono ancora più incosciente
questo video, troppo lento, troppo grezzo e troppo lungo, contiene i tre salti generazionali di ognuno, i salti della città che non c’era, come in ogni porto del mar Mediterraneo, quartiere di una metropoli diffusa del nostro XXI secolo, come sulle sponde di ogni mare del mondo globalizzato, perché
“Pè mare nun ce stanno taverne” diceva papà!
… le oltre 500 visualizzazioni uniche, ridono ancora con me, come quel moccioso in braccio alla madre fiera del suo monello, genitrice e sguardo severo, di sfida, immortale anima senza tempo …
Tempi eccitanti di Naoise Dolan, Atlantide edizioni (Irlanda)
Chi ha ucciso mio padre di Édouard Louis, Bompiani ( Francia)
Il mare è rotondo di Elvis Malaj, Rizzoli (Albania/Italia)
finalisti premio salerno
Tenersi tutto dentro non è mai una buona idea, anche esternare tutto non è proprio salutare: si commettono errori ma solo sbagliando si impara, e prenderne coscienza non sarà mai troppo tardi o forse no? Forse non è mai un luogo comune. Questi tre finalisti del “Premio Salerno Libro d’Europa” ne sono la conferma, abbiamo bisogno di letteratura giovane, fresca, europea per sentirci più europei, per scoprire a fondo le terre e i popoli dell’Europa per desiderarci meglio come cittadini di un mondo senza barriere, frontiere, muri o recinti escludenti. Per scoprirci e desiderarci dobbiamo scavare nelle nostre crepe, fratture sociali, politiche e psicologiche, le storie che eravamo, le storie che siamo e quelle che vivremo. Il personale e la comunità sono temi ampiamente esplorati da questi meravigliosi finalisti e quindi complimenti agli organizzatori, ideatori, progettisti, curatori, accademici, etc … (e finanziatori perché no!) del Salerno Letteratura Festival. Di letteratura, di cultura non ce ne sarà mai abbastanza! È la solita congiunzione astrale, misteriosa convergenza degli eventi, magnifica opportunità della scoperta: tre libri fantastici in cui 2 belle storie, importanti, e un capolavoro, hanno segnato con forza le mie ultime settimane di normale quotidianità illuminata con la luce intensa di scritture brillanti.
“Non c’è fierezza senza vergogna: eri fiero di non essere un fannullone perché temevi di essere uno di quelli da designare con questa parola. Il termine fannullone è una minaccia per te, un’umiliazione. Questo tipo di umiliazione venute dai dominanti ti fanno chinare la schiena ancora di più.”
“Non accetto che vengano dimenticati. Voglio che siano conosciuti ora e per sempre, ovunque, in Laos, in Siberia e in Cina, in Congo, in America, ovunque da una sponda all’altra degli oceani, in ogni continente, al di là di tutte le frontiere.”
Ecco, anche grande letteratura che grida dall’Europa per tutto il mondo, per per tutte le terre abitate da anime umane, per tutti i popoli della Terra, per oggi e per il futuro.
“Sei cambiato da un giorno all’altro, uno dei miei amici dice che sono i figli che trasformeranno i genitori e non il contrario.”
“Non riuscivo mai a capire se anche le altre persone avevano fantasie altrettanto vivide rispetto alle mie, e facevano solo tutti finta di non essere così.”
Ecco, anche grande letteratura che entra con prepotenza nella sfera intima di figli e genitori, maschi e femmine, amanti e amati. Sono tre libri da leggere e far leggere di e per giovani chiamati a vivere un futuro geneticamente e moralmente più lungo di chi ha più anni, capelli bianchi e rughe, ormai già in cassaforte.
“Mi piaceva stare per conto mio, mi dava modo di pensare. E poi c’era il treno dei pendolari all’ora di punta per sentirmi in compagnia. Mi sistemavo sotto l’ascella di un uomo, sentivo la borchia della borsa di una donna che mi affondava nella pelle e pensavo: sono parte di qualcosa.”
Ovviamente non racconterò il mio voto ma chi ha già letto questi tre titoli o li leggerà nel prossimo futuro, comprenderà bene quale sia per me il vincitore. Essere un giurato accettato a valutare letteratura è un privilegio impagabile nonché un onore che da entusiasmo al lavoro di massa più bello del mondo, quello che secondo me dovrebbe essere il più diffuso, il meglio pagato, il più retribuito di tutti: leggere.
“Irena osservava divertita il disordine che si lasciavano alle spalle.”
Hello, goodbye, edito da Baldini+Castoldi nel 2021, è un evento formativo di grande spessore narrativo, almeno per me, giovane lettore con pochi capelli imbiancati che sopravvivono.
Claudio è un insegnante e con questa opera dimostra come essere maestri sia una vocazione fondamentale, una piacevole scoperta per un affamato di racconti, quale sono io in queste ultime settimane.
La storia raccontata è avvincente, coinvolge e tiene incollati alle pagine come un ottimo noir deve fare e come illustri recensioni continueranno a confermare.
La cosa che fa un maestro è affascinare, è aprire domande alimentando nuove curiosità ignorate, far vibrare corde ferme capaci di riempire vuoti inesplorati. Il libro che sta leggendo il protagonista Angelo è una carabina di precisione che nella notte buia alimenta il coraggio di prendere decisioni e di agire:
“Conoscerai un grande dolore e nel dolore sarai felice. Eccoti il mio insegnamento: nel dolore cerca la felicità.”
Un fucile sulle spalle, non per sparare ma portato a tracolla come compagno fedele che dà sicurezza e coraggio.
Quindi leggere e rileggere Fëdor Michajlovič Dostoevskij come un bisogno, come una necessità, arriva al lettore richiamandolo a pulsioni che una volta innescate, non si fermano più.
Questo fa un maestro, innesca desideri oltre le visioni:
“Avrei voluto essere altrove, come mi capitava sempre, qualsiasi cosa stessi facendo e dovunque mi trovassi. A meno che non fossi immerso in un libro. Solo la lettura aveva la capacità di trascinarmi via da tutto, lontano da me stesso. Ma era una parte di me a pensarla così, l’altra era consumata dal fuoco delle mie ossessioni, …”.
Allo stesso tempo, nel tempo della storia le tracce del racconto non permettono distrazioni, perché le tracce dell’autore fanno presa, sono cemento rapido:
“Stamattina, sulla spiaggia, pensavo a come in fondo le storie si assomiglino tutte. Se si gratta la scorza, ecco che compare una bella sofferenza, un male fresco o una tragedia antica che torna sempre a galla, c’è in ognuno qualcosa che gli dilania la vita e che in qualche modo ne dirige i comportamenti.”
I personaggi vivono intensamente nelle pagine di Grattacaso, le poche tracce e appuntamenti che cito sono da scoprire, da divorare con furia:
“Ci si adatta a tutto. Ai soprusi, a un’esistenza piatta, a giornate fatte di incomprensioni, a lavori mortificanti. A tutto, ma non ai tradimenti, glielo assicuro.”
I personaggi di Claudio vibrano con ardore:
“Mi baciò. Sentii la sua lingua fondersi con la mia, e mi sembrò di sciogliermi, ero una candela di cera e Zena il fuoco che mi consumava.”
La scommessa non è mai vinta veramente, vince sempre il rilancio, per scalare le montagne bisogna scavare la terra e allora si capisce meglio l’abisso e la redenzione che c’è in “Hello, goodbye” con altre parole di Dostoevskij che, il giorno dopo, ho desiderato scoprire in altri libri:
“Che cosa è la madre di Dio secondo te?”
“La gran madre – rispondo – è la speranza del genere umano”.
“Sì – dice – la madre di Dio è la gran madre umida terra e in ciò è racchiusa una gran gioia per l’uomo. E ogni angoscia terrena e ogni lacrima terrena è gioia per noi e quando avrai imbevuto con le tue lacrime la terra sotto di te fino a un mezzo arsin di profondità, allora subito ti rallegrerai per tutto. E non avrai più nessuna – mi dice – sventura, tale – mi dice – è la profezia”.
Per quanti riti possiamo immaginare le profezie assolute vorticano nell’aria e quando vicino c’è l’acqua del mare e quello della pioggia insieme, l’atmosfera non è solo scena è essa stessa disperazione che alimenta l’istinto alla sopravvivenza prima che alla felicità.
Un grande scoperta e riscoperta che devo tutto a questo grande autore che mi vergogno a dire non conoscevo, questo fa un maestro, con l’esempio apre le tante porte delle case della conoscenza, detto con le parole di Fëdor è così:
“Non vi auguro troppa felicità, vi verrebbe a noia; non vi auguro nemmeno del male, ma secondo la filosofia popolare vi ripeto semplicemente «Vivete quanto più potete» e cercate in qualche modo di non annoiarvi troppo; questo vano augurio lo aggiungo da parte mia. Be’, addio, addio sul serio. Ma non restate vicino alla mia porta, non aprirò.
”Hello, goodbye inizia così:
“La rossa aveva chiesto di me.”
L’attesa è subito insopportabile: non esiste un maschio o una femmina che non abbia una rossa nel cuore.
Tenersi tutto dentro non è mai una buona idea, anche esternare tutto non è proprio salutare: si commettono errori ma solo sbagliando si impara, e prenderne coscienza non sarà mai troppo tardi o forse no? Forse non è mai un luogo comune. Questi tre finalisti del “Premio Salerno Libro d’Europa” ne sono la conferma, abbiamo bisogno di letteratura giovane, fresca, europea per sentirci più europei, per scoprire a fondo le terre e i popoli dell’Europa per desiderarci meglio come cittadini di un mondo senza barriere, frontiere, muri o recinti escludenti. Per scoprirci e desiderarci dobbiamo scavare nelle nostre crepe, fratture sociali, politiche e psicologiche, le storie che eravamo, le storie che siamo e quelle che vivremo. Il personale e la comunità sono temi ampiamente esplorati da questi meravigliosi finalisti e quindi complimenti agli organizzatori, ideatori, progettisti, curatori, accademici, etc … (e finanziatori perché no!) del Salerno Letteratura Festival. Di letteratura, di cultura non ce ne sarà mai abbastanza! È la solita congiunzione astrale, misteriosa convergenza degli eventi, magnifica opportunità della scoperta: tre libri fantastici in cui 2 belle storie, importanti, e un capolavoro, hanno segnato con forza le mie ultime settimane di normale quotidianità illuminata con la luce intensa di scritture brillanti.
“Non c’è fierezza senza vergogna: eri fiero di non essere un fannullone perché temevi di essere uno di quelli da designare con questa parola. Il termine fannullone è una minaccia per te, un’umiliazione. Questo tipo di umiliazione venute dai dominanti ti fanno chinare la schiena ancora di più.”
“Non accetto che vengano dimenticati. Voglio che siano conosciuti ora e per sempre, ovunque, in Laos, in Siberia e in Cina, in Congo, in america, ovunque da una sponda all’altra degli oceani, in ogni continente, al di là di tutte le frontiere.”
Ecco, anche grande letteratura che grida dall’Europa per tutto il mondo, per per tutte le terre abitate da anime umane, per tutti i popoli della Terra, per oggi e per il futuro.
“Sei cambiato da un giorno all’altro, uno dei miei amici dice che sono i figli che trasformeranno i genitori e non il contrario.”
“Non riuscivo mai a capire se anche le altre persone avevano fantasie altrettanto vivide rispetto alle mie, e facevano solo tutti finta di non essere così.”
Ecco, anche grande letteratura che entra con prepotenza nella sfera intima di figli e genitori, maschi e femmine, amanti e amati. Sono tre libri da leggere e far leggere di e per giovani chiamati a vivere un futuro geneticamente e moralmente più lungo di chi ha più anni, capelli bianchi e rughe, ormai già in cassaforte.
“Mi piaceva stare per conto mio, mi dava modo di pensare. E poi c’era il treno dei pendolari all’ora di punta per sentirmi in compagnia. Mi sistemavo sotto l’ascella di un uomo, sentivo la borchia della borsa di una donna che mi affondava nella pelle e pensavo: sono parte di qualcosa.”
Ovviamente non racconterò il mio voto ma chi ha già letto questi tre titoli o li leggerà nel prossimo futuro, comprenderà bene quale sia per me il vincitore. Essere un giurato accettato a valutare letteratura è un privilegio impagabile nonché un onore che da entusiasmo al lavoro di massa più bello del mondo, quello che secondo me dovrebbe essere il più diffuso, il meglio pagato, il più retribuito di tutti: leggere.
“Irena osservava divertita il disordine che si lasciavano alle spalle.”
Classico? Che abuso se ne fa di questa parola. Classico nel senso di appartenente alla classe? Nel senso di evergreen? Nel senso di raffinato? Nel senso di normale? Per carità la normalità no.
La normalità è una media. Siamo tutti delle divergenze che non si possono mediare.
Veronica Roth ne ha fatto una saga di successo. Mi sono piaciuti anche i film, anche se nei libri avevo vissuto altre storie e i personaggi che ho immaginato erano diversi. Punto, è la solita storia, difficilmente un film rende merito ad un grande romanzo stampato su carta.
Durante la corsa mattutina, avevo notato al Grand Hotel di Salerno, l’apparato viaggiante di uno staff cinematografico di alto livello, il camper della sartoria, quello degli attori, etc. Come mi ha confermato un brillante giovanotto che, al sole di giugno, ha soddisfatto la domanda di un runner sudato e curioso: “stanno girando Malinconico di Diego De Silva, una fiction per RAIUNO”.
Ho conosciuto Diego molto prima del suo “Non avevo capito niente” che mi era piaciuto tantissimo (…e vedi tu, nel 2007 Premio Napoli e finalista al premio Strega). Quando ci lasciammo, ricordo che era molto incazxxxx con me. Questo non è ovviamente interessante. Ricordo i primi iMac colorati del fantasmagorico ritorno di Steve Jobs alla Apple, archeologia tecnologica oggi ma da sempre scelta distintiva di un artista o di un professionista.
Veniamo a oggi. Stanno girando al tribunale ma non ho chiesto se nel nuovo o nel vecchio tribunale, comunque, l’idea di vedere Malinconico nell’esercizio delle sue funzioni è desiderio puro. Non ho resistito a ritrovare tra le mie cose “Mia suocera beve”, edito da Giulio Einaudi nel 2010, ne avevo un ricordo lucido di ammirazione. Devo ritrovare gli altri ma oggi questo mi basta e avanza:
«Se c’è una cosa che non bisognerebbe assolutamente fare quando una storia d’amore comincia ad annuvolarsi, è chiedere alla propria donna cosa c’è che non va»
ed infatti dall’incipit al racconto “Quando ti svegli e capisci d’essere morto nel sonno” pag.294, racconto comparso sulla rivista Rolling Stone nel febbraio 2008, dall’inizio alla fine dunque, per me è stato più di una conferma nel lontano 2010, Malinconico mi è sempre piaciuto anche se spesso e volentieri fa e dice cose che non avrei mai il coraggio o la crudeltà di fare o dire.
“Io, quando polemizzo via sms, non faccio che pestare merde. E avendone pestate per iscritto, mi rimangono come prova documentale a carico.”
Oggi facebook o whatsApp è lo stesso, Malinconico è avanti a tutto e a tutti, come avvocato semi disoccupato, semi divorziato semi felice e come filosofo autodidatta ed involontario. Non è l’eroe men che meno il super eroe, non è nemmeno lo sfigato che vuole raccontarsi, è un personaggio next già nel futuro e quindi comprendo bene come sia possibile che la letteratura di De Silva possa approdare al cinema ai giorni nostri per riempire un vuoto di modelli e di insegnamenti a “vivere” nella complessità di una società che decennio dopo decennio, non migliora anzi decade nello sfruttamento della precarietà anche culturale.
Avere in carne ed ossa Malinconico come amico nella difesa dei propri problemi, fosse anche come avvocato d’ufficio, è salvarsi il culo dalle sconfitte e dalle cadute, dal dileggio e dalla vergogna, Malinconico è un salvatore concreto e materiale eternamente in fuga ma facilmente consultabile nelle pagine di Diego:
“… com’è curioso che uno che si sente guasto nel profondo possa ancora valere l’amore di qualcuno”.
Non mi sembra vero Malinconico è qui a Salerno, nell’antico o nel nuovo tribunale futurista della città d’Europa, non è importante, sono felice che finalmente sia uscito dalle pagine di vari libri e vaghi, tormentato, ovviamente, per strade della mia città tornata in serie A, un quartiere occidentale della metropoli diffusa che bagna il Mediterraneo come dice un’altra persona che ammiro, un professore dell’università.
Sarà uno spasso, se non lo conoscete, leggetelo, Malinconico è uno spasso che aiuta a campare con un sorriso.
La serie Malinconico di Diego De Silva: Non avevo capito niente (2007), Mia suocera beve (2010), Sono contrario alle emozioni (2011), Divorziare con stile (2017), I valori che contano – avrei preferito non scoprirli – (2020).