C’è un prima e un dopo Calvino. Leggere questo testo è come nascere in un altro mondo. Forse quello vero e non la bolla in cui mi sento come un pesciolino rosso che si esprime muto in un fantasmagorico acquario esistenziale. Parlare senza suono come scrivere senza significati interessanti, credo sia in fondo l’ossessione di morte dell’individuo social di oggi. Ecco l’effetto su di me di questo mio primo Calvino, la vergogna, l’oscenità di parole gratuite prive d’emozione.
C’è un prima e un dopo come quando nuove lenti da vista rimettono a fuoco le parole sulla carta, come quando nel centro del fuoco di legna che arde, vedo la materia trasformarsi in luce, calore e cenere inutile.
Il prima è l’intera storia umana che si trasforma in nuovi significati, il dopo diventa la mia città che nemmeno sognavo di vivere. L’incubo che diventa sogno e la paura, desiderio. Calvino mi ha trasformato, forse plasmato, mi ha reso viaggiatore nel tempo e insieme dall’altro lato della scacchiera, sovrano dominatore del tempo che smette d’andare, a consumare partite di tensione duale tra abitante e abitato, tra spettatore e attore, viaggiatore che arriva e che parte, in perenne fuga dall’ovvio, dall’insostenibile pesantezza della noia.
Una dopo l’altra, Calvino svela tutte le città non del mondo ma dell’intero universo, umano mai divino, materiale mai etereo, reale come meta di un miraggio e polvere magica come lavorazione di pietre preziose:
Adesso capisco bene perché “Le città invisibili” di Italo Calvino sia considerato un capolavoro letterario e una delle opere più significative del Novecento.
Leggendo sono stato oggetto di uno spettacolare gioco onirico ad occhi aperti, parte in causa in temi complessi legati alla natura delle città, alla percezione e all’immaginazione.
Calvino crea un mondo letterario in cui l’immaginazione si fonde con la realtà, portando il lettore ad affogare nella complessità e nell’effimero delle città, così come nella vastità dell’esperienza umana. Affogare per poi meravigliarsi di respirare ancora per ogni piccola luce d’umanità che nessuno può spegnere.
Attraverso le descrizioni di città fantastiche, ognuna con le proprie peculiarità e simbolismi, Calvino esplora concetti filosofici, sociologici e umani, eccitando la mente con viaggi tra mondi immaginari per scoprire nuove prospettive sulla vita e sul significato delle città.
La prosa di Calvino è poetica (lo dice anche Pasolini), e il racconto in cui intreccia le diverse storie delle città invisibili è per me ubriacante. Questo libro può essere letto in molti modi: come una meditazione sulla natura mutevole delle città, come un’esplorazione della condizione umana o semplicemente come un’avventura letteraria straordinaria.
“Le città invisibili” è un viaggio intellettuale senza confini, un percorso sensuale denso di realtà e desideri che sfuggono al ragionamento tanto da diventare emozione diretta della propria residenza, forse casa, quartiere o metropoli ma allo stesso tempo, è l’odepòrico dello straniero in cerca di conoscenza, in un eterno viaggiare a cercare risposte dall’invisibilità dei pensieri.
Purtroppo il progresso tecnologico porta anche tanta distruzione e oggi nel 2023 ci sono città orribili come Arlit e chissà se Italo aggiungerebbe queste alle sue invisibili.
“Arlit è la mia città, è lì che estraiamo la ricchezza del paese. Si chiama ‘Piccola Parigi’. Vorrei davvero che fosse così! Si ha l’impressione che sia circondata da montagne, come quelle vicino alle quali i Tuareg si stabiliscono per proteggersi dal vento del deserto. Ma queste montagne sono state create da zero. Infatti, sono formate dall’accumulo delle scorie radioattive derivanti dall’estrazione dell’uranio”…
Prima e dopo Calvino? Adesso ho finito e ho voglia di ricominciare, ma il viaggio deve continuare.
Questo scrivevo a metà lettura il primo luglio 2023…
C’è meraviglia e meraviglia, scappare dalla città, correre in città, un’altra e un’altra ancora, ingabbiati e soffocati, liberi e al sicuro, coccolati… perché deve essere così? Così sarà sempre, vertigini e affanno, la scoperta, la conoscenza. Manca l’aria mai respirata, manca l’acqua mai assaporata.
Ad occhi aperti leggendo mi vibra dentro Anastasia, come un’orchestra di musica e cori possenti, come nel vicolo del silenzio, centro storico che dorme, un calcio alla lattina abbandonata, accartocciata, fa vibrare le mura antiche che cadono in frantumi, nel silenzio del mio centro storico, parole e polvere, e rovine mai viste.
Sono nemmeno a metà… braccato in questo buco di culo di un corpo meraviglioso che con le ali tocca a nord, Positano e a sud Sapri, provinciale, magari non fessura ma cuore, motore d’emozione.
“Tale potere, che ora dicono maligno ora benigno, ha Anastasia, città ingannatrice: se per otto ore al giorno tu lavori come tagliatore d’agate onici crisopazi, la tua fatica che dà forma al desiderio prende dal desiderio la sua forma, e tu credi di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo.”
È il mio primo romanzo di De Marco, e visto come mi è piaciuto e oltre la decade che ha già pubblicato con successo, non sarà l’unico. Dopo le prime pagine ho pensato: prende come il super attak, quella colla leader nel mercato degli adesivi. Contrario alle intenzioni della fredda razionalità, la storia si attacca nella mente in modo inevitabile, proprio come quella colla sulle dita anche se ogni volta sono altre le cose che vuoi tenere insieme. Nel racconto, l’intreccio dei personaggi e dei fatti è elegantemente fitto e potente, poi alla fine il doppio finale fa decollare questo testo oltre i confini che definiscono categorie precise: è quindi un romanzo che trascende il giallo noir per estendersi su una letteratura più vasta ed universale. Per un neofita come me, la lettura di uno scrittore che scrive di uno scrittore mi ha riportato nelle atmosfere psichiche ricamate da Stephen King nel suo Billy Summers e questo già mi sembrava grandioso. Stessa fluidità e coinvolgimento nella continua azione dei fatti e dei personaggi. Finanche il sesso e i sentimenti sono grovigli da dipanare tra passato, presente e il futuro delle pagine che mancano alla risoluzione del racconto. Ma, come dicevo, il finale che è raddoppiato in poche pagine, ha rimesso tutto in discussione e mi ha donato la descrizione plastica della mia precarietà inconfessabile: una vita fatta da tante verità e bugie che colgo ogni giorno nelle relazioni umane. Interazioni intorno a me come fili di una marionetta sbattuta di qua e di là, relazioni visibili ed invisibili che i sensi e il ragionamento stentano a razionalizzare: mai o sempre sono solo tempi patologici. Quindi oltre l’elegante godibilità come ho detto della scrittura, la profondità dello scavo nella psiche umana che la copertina centra in modo assolutamente preciso, è la cifra del piacere che ho provato in questa lettura: una continua visione mozzafiato dal promontorio dell’esistenza, sotto i piedi il baratro a strapiombo della morte, l’angoscia della paura, ma davanti negli occhi il panorama affascinante della vita. Beh, rendere luminose le scene buie, accendere le ombre con il fuoco del thriller, sono guizzi che De Marco fa con estrema efficacia ed efficienza. Le parole dentro le frasi costruite con arte, non solo funzionano ma sono quelle strettamente necessarie allo scopo di tenere alta la tensione da un colpo di scena all’altro. Inizio a capire, c’è del metodo, ma su tutto è la storia ad essere sorprendente. Brutale e tenera come un pestaggio e un’esplosione di coccole. Schiaffi e carezze. È una storia che non lascia indifferente non tanto per la sua drammaticità ma per l’orrore del male che prima di compiersi è nel pensiero.
“Mattia stava leggendo un romanzo che lo irritava moltissimo. Vi trovava, ogni volta, soluzioni narrative e linguistiche più eleganti e colte delle sue da procurargli una profonda sensazione d’inferiorità.”
romanzo di Gian Paolo Serino, 2016 Baldini&Castodi
“… il successo è solo il participio passato del verbo succedere…” ma che ne sai tu di un campo di grano? Sono ore, poi giorni, nei ritagli del tempo libero dai doveri, che leggo nella rete cosa scrivono di lui e del suo primo romanzo. Cribbio e che romanzo!
Storie vere dice Serino, e lo dice con una bibliografia finale per accademici ingrippati, perché è così: questo romanzo ti grippa il cervello, e se mai vuoi studiarti bene origini e significati, e sei un’operatore accademico della letteratura o di ogni altra scienza sociale, Serino ti fornisce indirizzi e recapiti dove andare a sbattere la testa. Così, tanto per scolpire nella roccia della conoscenza lo scheletro della realtà dell’altrove storico, credo sia un testamento osseo che si fa capolavoro, perché la verità è la polvere di cui sono fatte le stelle.
È proprio dalla fine che voglio partire, da quando il romanzo finisce e i neuroni vanno in tilt, dopo che per duecento pagine le sue frasi nella mia mente hanno vibrato, furiose, elettriche e magnetiche come le onde della luce. E se alla fine la luce ti prende e non ti abbaglia, cioè ti cattura e non ti respinge, è perché diventa materia ogni singolo fotone che raggiunge i tuoi occhi diventando polvere, lacrima senza pianto, emozione. Alla fine, queste magnifiche storie si intrecciano e si fondono in un’unica visione, semplice ma complessa come la parola cielo che ha dentro sé tutte le stelle del firmamento.
Io l’ho visto Serino sulla collina delle anime libere e sotto di lui tutto il reame.
Il reame vacuo cui appartiene Morgan, sì quello,un “brillante fallito di successo”, uno tra i tanti istrioni “che si vantano di lottare contro un regime quando non si accorgono di vivere in un reame…”
Io l’ho visto Gian Paolo con il medio teso in faccia ai sudditi in festa, zombi alla ricerca di accondiscendenze critiche e fremiti artistici, in faccia al reame di prostituzione gerarchica popolata da ingordi mediocri del niente, e ho immaginato un dito come quello gigante di Cattelan in piazza degli affari di Milano.
L’opera che l’artista ha chiamato LOVE: “libertà, odio, vendetta, eternità”.
Nel mondo che vedo io, allucinogeno agglomerato d’umanità lacerata, quei quintali di marmo di Carrara, quei due metri di fallico vaffanculo agli schiavi adoranti, sono libertà, odio, vendetta, eternità di classe, vomitate in faccia al popolo nel cortile del gioco a somma zero dell’alta finanza, che brucia e crea miliardi di capitalizzazioni con la velocità del vento. Mi penso padrone del Palazzo, capitalista dei capitalisti, e vedo il mio dito medio che mostro al popolo. La grandezza è solo una misura di un punto di vista, e la classe non è acqua ma dominio.
Forse l’artista pensava altro ma su quella collina di anime libere io l’ho visto, il dito medio al cielo di Serino mostrare la luna a gente con lo sguardo per terra che, boriosa e senza vergogna, affoga nel fango della propria irrilevanza. Io l’ho visto, questo gigante di uomo, incazzato e triste, affranto da tanto reame sprecato.
Se ti sfugge la connessione Serino/Cattelan, la polvere e le stelle, non l’hai letto questo romanzo, non puoi sapere della madre che si fa puttana per il bene della figlia e sentire l’umanità come fiamma bruciarti d’emozione. È quello che ha fatto a me, e così adesso mi sento, arso a mirare quanto sono vere le stelle che brillano eterne.
“Camminando a passi sempre più veloci K. fu sopraffatto da quel solito stato d’animo che non era né gioia né tristezza, né felicità né dolore, semplicemente non era niente, come una specie di gelida atarassia, di noia insuperabile. Tutte le volte che questo stato d’animo si insinuava dentro di lui, K. reagiva, perché ormai conosceva benissimo la ricerca per affrontarlo: doveva incontrare altre persone. Ma questo si scontrava con il desiderio di non essere visto, di non parlare, di non esserci. E allora doveva sforzarsi, spingersi fra la gente e non provare disgusto nel farlo.”
Non so perché, non so per come ma la copertina è tutta una profezia. Una visione di futuro sconnesso dal presente, diviso e frammentato, in fuga abbracciato al passato, per qualche motivo magari divino, ma incredibilmente vivo è il desiderio eterno di un bacio ancora, e ancora, in attesa di gettare via la maschera che ci fa sentire protetti, forse da noi stessi, forse dalla paura che ci fa coraggiosi.
L’incipit è un brivido, l’ho già detto per un altro grande romanzo però questa volta non è ipnosi ma emozione viscerale. Alla scrittura di Antonio Lanzetta non ci si abitua anzi, ogni volta si resta folgorati. Sono un lettore modesto, per nulla esigente, eppure ci sono letture che mi passano addosso come ottimo intrattenimento, altre come le opere di Lanzetta che lasciano un segno feroce come ferite che stentano a rimarginare. Questa storia di Michele e di Teschio non mi ha fatto sconti, è adesso l’ennesima e sublime cicatrice che mi porto dentro. Per farmi capire meglio, è come quella cicatrice che mi porto nel cuore da quando, adolescente, lessi SE QUESTO È UN UOMO di Primo Levi. La grandezza della letteratura non si misura un tot al chilo ma, credo, in quante generazioni di lettori lascia il segno, cicatrici che si riproducono grazie alla sua eternità, infinita magia tra le arti umane.
Ecco, cosa significa uccidere con il cuore: è colpire e lasciare un segno indelebile nell’anima del lettore. Non a caso, prima dell’inizio del romanzo, il tributo a King è l’epilogo di tutta la storia di Michele e di Teschio, è la missione compiuta con successo da Lanzetta: riprodurre la potenza immanente del bene che fa giustizia.
Oltre la storia avvincente che scorre fluida e accelera con ripetute scosse crescenti di pura adrenalina, è la bellezza e la crudezza delle scene che rendono reale la fantasia più drammatica, materiale le visioni più inquietanti. Riporto solo due passaggi come esempio, ma tutto il romanzo è così, orribilmente e meravigliosamente bello.
“Seguii gli schizzi di sangue con lo sguardo fino a quel baratro. Le tracce si perdevano nel nulla, nel silenzio della morte e in occhi vuoti puntati verso il cielo. La ragazza giaceva scomposta sulle pietre come una bambola spezzata, il cranio sfondato e i capelli che galleggiavano simili ad alghe in una pozzanghera di sangue accumulatasi dietro la nuca. Rimasi a fissarla mentre il tempo mi scivolava addosso, simile a gocce di sudore. Una parte di me mi diceva di andare via da quel posto, ma quando distolsi lo sguardo mi parve di vedere mio padre fermo sull’altro lato del dirupo.”
“Sollevai il capo e all’improvviso mi resi conto di non essere in casa, ma in un campo. Il vento spirava tra i cespugli, sollevando una strana polvere viola. Spore che mi vorticavano intorno mentre il cielo era animato da deflagrazioni di luce indaco, simili a fratture nella notte. Le stelle si stavano disintegrando, scontrandosi tra di loro e disegnando nel vuoto creature informi e facce urlanti.”
Non la faccio lunga anche perché, se sono un lettore modesto figuriamoci la difficoltà che ho nel tramutare in parole i miei pensieri. L’ultimo commento è come una volta ancora Antonio Lanzetta fa insegnamento della sua passione con le sue opere, istruzione a chi come me sente urgenza affamata di grande letteratura, e adesso devo leggere anche qualcosa di Jim Thompson per lenire “il crepitio di vetri nello stomaco”.
“Ancora oggi, seduto nella poltrona sformata del salotto di casa, cullo mia figlia nel silenzio della notte, con un libro di Jim Thompson sulle ginocchia e una tazza di tè tiepido sul tavolino. Guardo la pioggia graffiare i vetri della finestra e provo a convincermi che le cose che ho visto quella notte nei boschi intorno alla casa della vedova siano accadute realmente. Avevo subito un forte trauma, mi sono ripetuto. In fondo, ero solo un ragazzo a cui avevano impiccato la madre. Un ragazzo che voleva riabbracciare il padre.”
L’incipit è un brivido. Uomo o donna? Mi sono chiesto. Il prologo è una lettera, un vortice di sentimenti che trascina senza scampo verso una spumeggiante cascata di domande. Giù verso le rapide turbolente di un fiume agitato da scene avvolgenti: avvinghiata la mente, questa scrittura ipnotica mi ha sbalzato fuori dai gorghi frenetici della vita quotidiana, per avvincermi dentro un flusso impetuoso di fatti e personaggi che alla fine mostrano come all’origine di ogni decadenza umana ci sia il male e la menzogna. Ciò che più mi ha colpito è come, con sferzante eleganza, le vicende narrate dei singoli personaggi, diventino un insieme rappresentativo di un’intera società. Se per i fanciulli la purezza briosa della gioventù muore con la fine dell’innocenza, la purezza dell’impeto costitutivo della repubblica, muore con la fine dell’onestà. Segreti, ricatti e compromessi intrecciano singole esistenze e la pluralità di un’intera organizzazione sociale: la decadenza è un processo che divora da dentro, e il conto si paga solo alla fine con la morte che svela colpe e tormenti nascosti per una vita intera.
“Piangi. Io sono il tuo castigo.”
Dopo aver scoperto con UNA FAVOLOSA ESTATE DI MORTE e NERO LUCANO, un intricato e appassionante personaggio come Viola, l’affascinante anatomopatologa di Piera Carlomagno, l’attesa di un’altra sua avvincente storia mi era così insopportabile da rivoltare sotto sopra tutte le priorità di quella giornata. Ricordo come fosse ieri: trenta settembre 2022, nel primo giorno dell’uscita nelle librerie italiane, la prima presentazione alla Feltrinelli di Salerno, e il fondamentale Angelo Cennamo dire: «Il taglio freddo della luna è il romanzo borghese del XXI secolo.»
Secondo una mia sensazione strettamente personale, questa avvincente cronaca romanzata dei giorni che vanno da giovedì 26 agosto con la luna calante visibile all’87%, a martedì 7 settembre del 2021 con luna nuova che inizia a crescere, è la dimostrazione di come una produzione letteraria di fantasia possa diventare un potente strumento di denuncia e critica storica di un’intera società, quella italiana, o meglio di una sua “classe”, la borghesia, che meriterebbe la condanna della memoria.
«… noi siamo rifiuti tossici da seppellire per sempre, siamo buoni per la Fossa Irreversibile, siamo la terra del non ritorno. Noi… meritiamo la damnatio memoriae»
Sicuramente esagero, come è esagerata ogni generalizzazione di categorie che più le analizzi e più si frantumano in eccezioni. Ma d’altronde alla fine della lettura e rilettura di questo romanzo, il libro tra le mani scotta come una bomba inesplosa e per troppi anni sotterrata. Questa la mia sensazione dopo la lettura dei due articoli che seguono e che mostrano come laFossa Irreversibile sia vera e non fantasia; è spaventosamente reale a Rotondella di Matera, in terra lucana, in Italia.
Nel 2019 avviene una sorta di riesumazione di un cadavere vivente, pericoloso sì ma che il genio umano intende riciclare. Poi uno si meraviglia che la realtà possa superare ogni assurda fantasia. Urca che tema di estrema attualità, il nucleare, in queste ore che gli idioti sapiens fanno la guerra lungo il fiume Dnepr, intorno ai sei reattori atomici della centrale di Zaporižžja.
“Negli anni Sessanta i rifiuti nucleari si cementavano e si mettevano sotto terra, in quelle che all’epoca venivano chiamate “fosse irreversibili”, proprio perché sarebbero rimaste lì per sempre.”
Quei rifiuti erano americani e noi abbiamo fatto di pezzi incontaminati della nostra meravigliosa terra una loro pattumiera…
«… noi siamo rifiuti tossici da seppellire per sempre, siamo buoni per la Fossa Irreversibile, siamo la terra del non ritorno. Noi… meritiamo la damnatio memoriae»
Cos’altro potrebbero meritare quelle generazioni che hanno permesso al nostro paese di diventare una discarica geopolitica? Più di una metafora, una condanna eterna. Ecco la potenza dell’intelletto cui la Carlomagno ci ha abituato, il viaggio su binari inseparabili, la bellezza della terra e il suo saccheggio, ma questa volta, il salto è trascendente, dal sudiciume materiale del petrolio e dei poteri massonici essenzialmente locali, passa a trattare il mostro invisibile, la contaminazione nucleare e poteri di dominio geopolitici.
«Quelle urla non le dimenticherò mai, anche se le ho ricacciate in fondo a ogni pensiero e sentimento, giù, nel punto più profondo di quell’abisso che è la mia anima.»
Uso alcuni dialoghi a ritroso partendo dalla fine del giallo per dare consistenza a questi miei commenti da lettore ipnotizzato. Sono commenti che cercano di provare quanto profondo e affascinante in questo romanzo sia l’intreccio sociale della storia di un paese con quella dei loro protagonisti, anima e identità, passato e presente, singolare e plurale.
«… Fu in quell’attimo che acquistò l’antitodo contro il veleno dei veleni: la disuguaglianza. Fu in quell’attimo che pensò di riscattarsi anche per il futuro, lui, la sua famiglia e la mamma infelice… »
La storia di uno diventa la storia di una classe smarrita che diventa soggetto sconfitto, singolare e plurale, elevato e decadente, per sé e di sé, prigioniero dell’evoluzione dei veleni materiali, sedotto e corrotto nel labirinto senza uscite di teorie e pratiche di speranza che quelli bravi hanno chiamato la fine della storia. Ma come la fossa dei rifiuti nucleari, la Storia dimostra che di irreversibile c’è solo la morte, e forse nemmeno più quella, almeno per chi sopravvive. In fondo il progresso, la modernità, le colpe che non possono ricadere sui figli, dimostrano che di giorno in giorno, diventa possibile quello che ieri era impossibile. Ecco la dualità umana in eterna contraddizione: bellezza e mostruosità.
«Siamo capaci di convivere con qualsiasi colpa» disse Viola. «Del resto siamo tutti mostri capaci di convivere con l’idea della nostra stessa morte… »
Dall’ultima alla prima pagina è Viola la guida, come il Virgilio di Dante ci accompagna oltre le righe dei fatti, oltre l’inferno e il purgatorio delle anime dei personaggi che lei riesce a sventrare da vivi, risuscitando anche quelle dei morti. Viola Guarino è la luce che scopre le ombre tra le piaghe dolorose delle verità nascoste e di quelle che sfuggono anche se in bella vista nel presente. La magia della letteratura gialla è anche questa, l’abilità della scrittrice di porre in bella mostra quelle evidenze che sono indizi che con lo scorrere delle pagine diventano certezze. Ma con la scrittura della Carlomagno si va oltre, si vola veloci come pipistrelli nelle grotte oscure dell’eterna lotta di classe. All’improvviso un sorriso e un pensiero: accecante e assoluta ineluttabilità della linfa vitale della grande letteratura, degli ultimi che resteranno per sempre ultimi, e che, nonostante i compromessi sociali della convivenza, restano fieri di esserlo, ultimi continuando a lottare per una comune identità di classe e di estraneità, forse nemmeno ultimi, diversi, esclusi ma colti.
Sorrise pensando a quelli che portavano stampata su magliette o borse di pezza appese dietro la schiena, la protesta a quel ciclone passato sulle loro teste senza coinvolgerli: «Pure io sono un povero cristo». E il cordone ombelicale con Levi non si taglia, non si tagli.
Poi ci sono i sentimenti e i desideri di Viola, i sogni erotici e gli incubi della maledizione arcaica dei tormenti che si fanno umanità inquieta, ci sono le voglie di scorticarsi addosso l’essenza emozionale del corpo e del pensiero, sentimenti e desideri che non trovano pace, che si intrecciano senza legarsi mai, e anzi ne fanno una danzatrice alla ricerca di quell’equilibrio impossibile di chi è sempre in fuga.
«La luna non muore mai» osservò Loris. «Si rigenera.»
«Certo, come tutti dopo le delusioni.»
Non c’è niente di semplice e scontato in questo grande romanzo, proprio come è la complessità della vita che nelle sfumature e negli attimi si fa preziosa, proprio come un diamante, inutile e spento senza una luce che lo attraversi. Così ci sono un paio di pagine in cui Viola e Loris si parlano, si sfiorano e si allontanano, un paio di pagine che da sole riscaldano il cuore e lo stordiscono, mettendo a nudo le differenze della donna dall’uomo, della femmina dal maschio, differenze della ragione dal sentimento.
«… Non ci si abitua a tutto, se si presenta l’occasione si saldano conti vecchi che si credevano dimenticati. E invece no, non si dimentica niente, tutto resta ferocemente piantato nelle nostre coscienze.»
Le scene e i dialoghi sono talmente vividi che saltano dalla pagina e arrivano, a volte come pugni in faccia improvvisi, a volte come carezze di una ragnatela di parole in cui i personaggi restano impigliati in attesa di essere svelati.
Ma non ricordare non è possibile, finché si è in vita, rimuginava Bepi e forse questa è la chiave di tutto. Sono i ricordi che rendono le persone pericolose e consapevoli che ciò che è stato potrà essere ancora; chiunque sia vivo continua a rimestare nei simulacri che occulta, che lo voglia o no, ed è tutta qua la complessità e la contraddizione dell’umano.
Eccola la scrittura ipnotica che salta tra passato e presente, con storie intrecciate come i rami di un bosco fitto e misterioso che mi ha ricordato il groviglio dell’adolescenza, le paure e le follie, ignoto e oscenità, vertigini e cadute, le colpe, l’ebrezza della potenza e lo sconforto della sconfitta, i rimpianti e gli occultamenti della vergogna. Ci sono conti che non si chiuderanno mai e tra questi, la conoscenza di questo personaggio grandioso che è la Viola di Piera, dopo tre romanzi è solo all’inizio. È una conoscenza parziale e ancora sfuggente, fatta di numerose curiosità irrisolte mentre nell’attesa di una prossima inchiesta, immagino lei correre come un fulmine bianco che non tocca mai terra.
… entrava nella morgue con l’aiuto di un rapporto ancestrale con la morte e si avvicinava ai corpi con la speranza di incontrarne l’anima.
la socia di Viola è bianca: Ducati multistrada 950
L’insostenibile desiderio alla disconnessione credo sia una delle mie personali risposte immunitarie che mi salveranno dall’affogare nella melma connettiva di questo XXI secolo, epoca tanto malata quanto ricca di bisogni antichi ma eterni.
La cura, o meglio la fuga dal virus nocivo della stressante frenesia moderna, è il romanzo, uno meraviglioso come IL FIORE DI MINERVA, per esempio.
Questa lettura è stata per me una violenta terapia d’urto, benefica e deliziosa, sorprendente nonostante quello che potevo aspettarmi dopo aver goduto dell maestria dell’autore nel romanzo precedente, Hotel d’Angleterre.
La scrittura minuziosa, erudita ma leggera, aulica ma a tratti travolgente nell’azione e, capace di emozionare, ne fanno un toccasana senza tempo, per ogni stagione, per ogni malanno dell’anima.
Romanzo storico? È una categoria forse troppo limitante per questa magnifica storia, che oltre ad essere l’ennesimo tributo ad una città troppo spesso sminuita e cannibale di sé stessa, ha il respiro della magia e della scienza umana che sperimenta e costruisce intrugli miracolosi. Con gli eventi, gli intrecci mirabolanti, e personaggi più vivi di quelli che ci circondano ogni giorno per strada, al lavoro, in TV e sui social, l’autore sembra essere diventato lui stesso la speziale che racconta, alla ricerca di quella verità superiore, distillata ad ogni fremito del pensiero, verità recondita ai desideri più materiali e tormentati dell’animo umano, quella verità madre di bellezza e amore, la verità che trionfa sulle miserie e le violenze dell’uomo, la verità che si fa giustizia umana, terrena.
Questo romanzo è una pozione magica, è un concentrato di ingredienti antichi ma eterni, sostanze che rendono significativa l’esistenza di ognuno. Questo romanzo, come dicevo è un toccasana, ma non è solo un prodotto definito, contiene la ricerca e la spiegazione, le domande e le risposte, più di una ricetta da provare, ha in sé la mirabile capacità di trascinare il lettore con coinvolgimento crescente al desiderio di distruggere il male dentro e fuori di sé. La denuncia della violenza sulle bambine e il conseguente obbligo alla prostituzione, allora come oggi, insieme alla sottomissione della donna all’uomo, sono aberranti e purtroppo fatti che ci fanno pensare a come il male si riproduca senza freni, secolo dopo secolo, a come quest’epoca sia ancora tanto medioevale, altro che moderna.
Devo dire che alle tante brutture raccontate, tanto indispensabili e vere come le ossa del nostro scheletro che ci sorregge, a trionfare sono l’immensità della poesia e la bellezza tutt’altro che esteriore che mi è permeata nel profondo, con tutta l’intensità della carne dei muscoli e dei nervi di cui siamo fatti.
IL FIORE DI MINERVA è viaggio nell’essenza umana tanto vasta quanto terribile, tanto intricata quanto meravigliosa, è una settimana del 1551, un attimo nella storia, un momento di conoscenza approfondita, senza confini di spazio e di tempo, fatto di brividi che scuotono, di carezze che ammaliano, di Héctor e di Costanza, personaggi eterni di passione, riscatto e sogno.
«Certe cose sfuggono, quando non si sa cosa cercare.»
Ci risiamo, un altro grande romanzo, breve, intenso, appassionante. Dopo aver letto Hello, goodbye di Claudio Grattacaso non ho resistito, dovevo leggerne ancora, altro ancora, e così ho conosciuto Raffaele e la famiglia Cherubini che di questa storia sono l’essenza.
È proprio vero, i romanzi, quelli belli, scritti bene, non scadono, anzi, è a distanza di tempo che dimostrano la loro bontà. Un lustro non è tanto ma con la pandemia e la guerra in Ucraina di oggi che ci soffoca i pensieri, gli anni prima sembrano confusi e indistinti. Ciò che più mi è piaciuto in questa storia è l’introspezione pulsante del protagonista, e con la sua voce l’esplosione del fermento interiore promesso con l’incipit, il prologo, il fuoco.
Non posso né voglio svelare niente, quello che posso dire è che il racconto in prima persona diventa archetipico dell’umanità che ci circonda in tutte le sue forme più aberranti e stereotipate, quelle del potere come quelle delle vite sfibrate, deluse, lacerate. Chi non ha di questi momenti assurdi in cui la voglia più ovvia e convita è schizzare via all’improvviso, scappare, volare fuori, preferire il niente?
Bene, dal fuoco l’incendio, brucia di dolore e di passione questo romanzo, pagina dopo pagina, tocca le corde più oscure dell’animo umano e mi ha messo allo specchio, nella penombra di sentimenti contrastanti: inconfessabili come solo il dolore e la redenzione possono svelare.
Non è l’eroe e nemmeno l’antieroe, forse uso termini a sproposito ma Raffaele Apostolico, filosofo mancato, autista di fiducia, protagonista oscuro e luminoso allo stesso tempo, è uno straordinario affresco tridimensionale della società che viviamo in tutto il suo grigiore corrotto, granuloso, asfissiante e maledetto. Le corde di uno strumento scordato danno suoni fuori scala armonica e così il racconto prende per l’oggettiva crudezza e fastidio, depista la logica cui ognuno soccombe con il senno di poi ma che durante gli eventi ci mettono alla prova giorno dopo giorno, pagina dopo pagina. Se non l’hai letto non sai che ti perdi. Tra le parole anche una canzone mai sentita che parla delle solite cose.
Una delizia. Lo devo scrivere: questo intrigo è un romanzo delizioso. Provo a spiegartene il perché? Beh sì mio caro Diario, altrimenti che autocoscienza saresti?
Le vicende umane che si intrecciano nella trama sono come cupole soffici di pan di spagna, hai presente la consistenza di un dolce strutturato? Una delizia lo è. Poi, dentro lo spazio esistenziale dei personaggi ci sono cuori farciti come in un mix di crema pasticcera, e di agrumidiversi tra loro, con punte di dolce e di aspro come la granulosità dei sentimenti e il sapore delle passioni più intense. Una delizia quindi, ma non è finita perché l’insieme è bagnato da un calore alcolico e profumato come quello di unlimoncello, un liquore mai uguale che scalda le personalità rappresentative della commedia dell’arte napoletana. La scrittrice rincorre le maschere eterne della vita e le supera con l’efficacia di un racconto perennemente in equilibrio tra la classicità del passato e la modernità del presente.
Allora, per rendere credibile questo commento ricomincio dal principio, perché l’inizio dell’intrigo è una delicata glassa profumata che l’avvolge, che sa di Napoli e delle sue isole immortali, Ischia tra queste. I luoghi, le tradizioni, la cronaca e le discendenze umane, si attorcigliano prima e si sciolgono dopo, come quando il palato incontra la pasta raffaioli non un semplice pan di spagna. Quindi per chiudere il discorso, se il dolce chiamato delizia è una poesia per le papille gustative, così la lettura di questa storia napoletana mi ha portato in estasi la mente, cullata dalle pagine ordinate in un romanzo delizioso, appunto.
“La vita prosegue tra inquietudine e illusione, facendo perdere sempre di più la distanza dalla realtà, finché se ne è posseduti.”
Dal “prezioso kefir messo a fermentare” alle viscere di Napoli, INTRIGO A ISCHIA è un giallo delizioso, intrigato, intrigante… oh che darei per vedere recitate sullo schermo le battute di donna Flora e quelle della Polizia che indaga sui fantasmi incalzati da una brillante, mai doma giornalista, Annaluce, e poi Patrizia, Bianca… donne, donne, tante donne… Non credo sia banale, penso sia stato detto mille e mille volte e quindi lo scrivo: l’intrigo è donna e più se ne legge e più se ne desidera…
La dolce astrazione che ho raggiunto con questo romanzo, a parte l’innalzamento della glicemia di cui dovrò discutere con la mia dietologa, è andata dove solo la bella letteratura può andare: con la giusta dose di misteri e di colpi di scena infarciti di momenti divertenti, sensuali e anche di spettacolare normalità, il giallo non si risolve facilmente anzi, la complessità e la tensione degli eventi ne fanno una delizia tutta da scoprire.
Non parlava, non piangeva, non ricordava niente. Aveva riposto la sua vita passata come in un cassetto di biancheria mai usata, rigida e ingiallita. Monosillabi, movimenti della testa, lo sguardo a terra e solo ogni tanto un segno di ribellione: «Basta, iatevenne mo’»
Raffaele La Capria, Mondadori 2021, Oscar Moderni CULT
Prefazione di Sandro Veronesi
Allora, e mo’ che scrivo? Solo la prefazione di Sandro Veronesi merita un commento spaziale, nel senso tempo e spazio, oppure spazio e tempo, e non è la stessa cosa. Ma chi è Sandro Veronesi? Grande scrittore leggo, ho visto e amato il film con Nanni Moretti solo attore, CAOS CALMO, regia di Antonello Grimaldi. Questo film è l’adattamento cinematografico del romanzo di Sandro Veronesi, ah rieccolo, e cosa leggo: “Caos Calmo è stato il primo libro multimediale in Italia per la piattaforma iPad, iPod Touch e iPhone. L’App conteneva il libro di Veronesi come piattaforma multimediale dove leggere il romanzo e visionare le clip del film riferibili direttamente al libro.” Che fine hanno fatto i libri multimediali? No mercato no party!
Azz, 2005 e io cosa facevo nel 2005? E chi se ne frega dell’io, Caos calmo è un romanzo dello scrittore pratese Sandro Veronesi, pubblicato nel 2005 dalla Bompiani. Nel 2006 il libro ha vinto il Premio Strega e nel 2008 ha vinto il Premio Mediterraneo per stranieri. Riporto i link tanto per rendere merito alle fonti.
Quindi… dicevo, una prefazione di Sandro Veronesi è un po’ come un vangelo che parla di Gesù, una cosa sacra insomma. Infatti se di giovinezza ferita a morte, si tratta, Veronesi che nel 1995 firma un editoriale sull’Unità dal titolo “Ma smettetela di chiamarci giovani scrittori”, menziona ad uno a uno con l’età tra parentesi, giovani protagonisti di una esperienza intellettuale ineguagliabile, se lo fa dicevo, questa benedetta giovinezza non è forse più sacra di una intera fede religiosa? Altro che spigola di 10 chili che poi li avanti a te, lenta e regale andando con un fucile tra le mani, come cazzo fai a mancarla? La grande occasione mancata, la scena, la bionda coda di cavallo oscillante e gli amici intorno che ridono, t’immagini le facce?
Ma che anni erano? Dalla scelta degli italiani della Repubblica VS Monarchia in poi, che buona parte (tutti?) gli intellettuali dopo la guerra fossero forzatamente comunisti a prescindere, un po’ me ne sto facendo una ragione. Ma che anni erano? Nel 1995, caduto il muro di Berlino, perché quello se lo ricordano tutti ma proprio tutti, stampare un grido intellettuale come editoriale in prima pagina del quotidiano fondato da Antonio Gramsci non sulla giovinezza ma sull’aparthaid degli scrittori in quanto giovani, deve essere stata un momento di passionale scelta redazionale. Mi prude la testa e anche i piedi prudono, e le dita tremano sulla tastiera zozza di cose inutili che sto scrivendo. Sfido io che poi è arrivato Caos calmo, la maturità, il premio strega come a La Capria nel 1961.
Ma che anni erano?
Quelli del romanzo di Raffaele sembrano simili a quelli che stanno vivendo i ragazzi della spiaggia di Odessa, meravigliosa spiaggia in guerra, a rifugiarsi nelle grotte, a fare l’amore, le prime volte. Caro Veronesi ho fatto come hai detto, ho subito riletto il primo capitolo dopo la fine del romanzo e per la verità, sono alla terza rilettura, sai com’è? Già solo prima e terza persona che si intrecciano mi hanno mandato al manicomio, sì, difficile e complicato. Certo che faccio come mi pare, sono un lettore libero io, mica condizionato dalla stampa di regime, libero di capire e scegliermi quello che voglio, e sapendo che insieme la luna e il sole vanno nel cielo di mezzogiorno, che il mare è senza avventura, che il tempo passa e sale con l’acqua sulle mura del palazzo, e un giorno, tra mille e mille anni uguale a questo, oggi è una bella giornata, dirà un raggio sulla parete. «No, non vengo» messaggio non raccolto – Massimo non risponde.
Oggi è S. Matteo, Matteo Renzi, Matteo Salvini, Matteo Messina Denaro, ma mo’ chi è questo Massimo che non risponde?
Caro mastro Raffaele, dovevi morire per entrare nella mia conoscenza letteraria, ma no diciamo che doveva essere il centesimo anno dalla tua nascita, comunque è come tu hai scritto, i lettori continuano ad arrivare e io tra questi, dovrò scoprire cos’altro hai scritto oltre questo mirabile, complicato, infinito cha-cha-cha, non so niente ma credo che anche tu sia stato un po’ comunista, socialista sicuro, quel lusso, la povertà, non la mancanza di un relativo benessere ma il non avere altra distrazione, nessuno di quei divertimenti e diaframmi che ovattano le esistenze borghesi, niente, nessuna ricchezza che ci separi dal lusso del mondo naturale.
Non ho copiato virgolette e caporali e lo stile delle tue parole così come si leggono sulla carta, chissà a chi stavi mandando messaggi e a chi e cosa menzionavi nella tua lettera ai lettori per il cinquantesimo anniversario di Ferito a morte nel 2011.
Una volta, in fondo a una raffinata caverna, fermo a guardare un cha-cha-cha come la danza rituale di una setta sconosciuta, pensando: come fai a parlare, a stabilire un’intesa con loro, se non conosci il linguaggio, il segreto dei gesti e le movenze?
So com’è ballare un cha-cha-cha con la persona che ami, va beh, lo dico proprio a te?
Ok è tardi e ho anche annoiato troppo, faccio come ho visto fare in alcune recensioni, ecco il tuo incipit, si continuerà a studiare per decenni, spero secoli, passo e chiudo.
La spigola, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro, avanza verso di lui e pare immobile, sospesa, come una fortezza volante quando la vedevi arrivare ancora silenziosa nel cerchio tranquillo del mattino. L’occhio fisso, di celluloide, il rilievo delle squame, la testa corrucciata di una maschera cinese – è vicina, vicinissima, a tiro – La Grande Occasione. L’aletta dell’arpione fa da mirino sulla linea smagliante del fucile, lo sguardo segue un punto tra le branchie e le pinne dorsali. Sta per tirare – sarà più di dieci chili, attento non si può sbagliare! – e la Cosa Temuta si ripete: una pigrizia maledetta che costringe il corpo a disobbedire, la vita che nel momento decisivo ti abbandona. Luccica lì, sul fondo di sabbia, la freccia inutile. La spigola passa lenta, come se lui non ci fosse, quasi potrebbe toccarla, e scompare in una zona d’ombra, nel buio degli scogli. Adesso sta inseguendo la Grande Occasione Mancata. Per lunghi oscuri corridoi sottomarini, ombre come alghe viola, e gelo in tutto il corpo. Man mano che si abitua a quel morto chiarore distingue le poltrone del salotto, il lungo tavolo di legno scuro, il paralume verde, il divano, la macchia di caffè sul cuscino giallo. La spigola dev’essere scomparsa in qualche angolo buio, dietro quel cassettone o nella stanza di là, sotto il letto dove lui ora sta dormendo. Ma non importa più, ormai ci siamo, eccola La Scena. Si ripresenta sempre identica: lo sguardo di Carla che splende come un mattino tutto luce in fondo al mare, e lei così vicina – anche il battito del cuore! – vicina, con l’occhio marino aspettando. E poi offesa? stupita? incredula? prontamente disinvolta comunque, eccola di nuovo seduta sul letto pettinandosi, per sempre lontanissima, che tenta di superare l’imbarazzo. Lui la guarda mentre lei si pettina i capelli raccolti sulla nuca, bionda coda di cavallo oscillante – luminosi come sulla spiaggia nella notte di Capodanno! – lui senza vita e un sorriso umiliato che copre il desiderio di morire. E i ragazzi, t’immagini le facce? le risate? le chiacchiere, se sapessero. Lui, solo, con la Grande Occasione Mancata, e tutti i loro occhi aperti sulla Scena.
Impunito? Spero di non essere mai denunciato per questa opera di vaneggiante diffusione di parole e immagini, non è una testata giornalistica, non è niente, non credo ci sia qualcuno che voglia condividere ma nel caso non c’è bisogno di chiedere permessi, come ha scritto Veronesi, facciamo come ci pare 🙂
Ognuno è responsabile delle proprie azioni, a me sembra cosa buona e giusta ma se sbaglio qualcosa, se me lo fate notare vi dovrò un favore, con piacere, un favore.
Disegno di vendetta per l’ispettore Castaldi, Rocco Papa, 2017 Runa Editrice
È un giallo avvincente, con intrecci intriganti e talmente radicati e vivi nella mia esperienza quotidiana di cittadino, da farne uno strumento di studio per comprendere meglio una città come Salerno, perennemente sull’orlo del baratro come sull’uscio di un paradiso. Non voglio essere frainteso, non è una storia locale, anzi è una storia universale che diventa rappresentativa di ogni città moderna e nemmeno semplicemente italiana. Sono i personaggi a renderla tale, e tra questi un ispettore che per i suoi tormenti e la sua forza di ribellarsi alla “becera” gerarchia delle funzioni e delle istituzioni, rende l’inchiesta raccontata non solo piacevole e avvincente, come ho già detto, ma addirittura desiderio di nuovi episodi, perché alla fine dell’ispettore Castaldi si sente il bisogno di sapere di più.
Ho letto BRICIOLE in estate, in questa estate 2022 che per fortuna non sembra finire, tanto calda ed inquieta lunga estate. È impressionante come la lettura dell’autunno come descritto dall’autore, sia stato materialmente una benedizione, un viaggio, avvincente, come ho già detto, verso l’esplorazione intima del male e del bene con sullo sfondo, dietro l’angolo, l’inverno dei sentimenti. Briciole preziose come gemme, fredde e luminose come le verità più nascoste, quelle che fanno male e che richiedono vendetta, nessuna assoluzione. Avevo già letto di Rocco Papa IMPREVISTI PERICOLOSI, e posso solo dire che il suo protagonista non solo è vero e reale, addirittura con questa opera, il suo ispettore Castaldi si erge a modello di eroe che vorrei avere come amico quando sono costretto a comporre il 112. Non so se la realtà debba riflettersi nella fantasia o sia la fantasia a doversi specchiare nella realtà, so che la bella letteratura ti entra dentro e cominci a desiderare di viverla. Forse anche questo è un bisogno che soddisfo con la lettura di un buon libro, rendere colorata la grigia quotidianità. Ancora una volta, anche con BRICIOLE di Rocco Papa, il miracolo si è ripetuto, il sangue è sciolto.
“La vita è una festa e le feste non durano per sempre.”
No tranquilli non è il finale di questo romanzo, ennesimo grande romanzo del grande scrittore King a quanto dicono, per me il primo, e chi se ne frega, attenti che vi sento. È ovvio che scrivo per me e per i tanti che come me ignorano King. Da oggi però, sono iscritto al club di quelli che almeno un King lo hanno letto nella loro vita anche se per la verità questo è il secondo… OnWriting lo tengo segreto, lo sto studiando, attenti vi vedo che state sorridendo: leggere e studiare sono cose diverse… Diciamo la differenza che passa tra godere e soffrire? No scherzo. Un fatto però è certo, un King ti eleva, ti mostra la via esclusiva verso la trascendenza letteraria. Billy Summers è un killer che fa lo scrittore e leggere uno scrittore che racconta un killer che fa lo scrittore, come lo fa Stephen King, è una magia stampata su carta, 545 pagine di pura libidine.
Pare che il capo del World Economic Forum, Klaus Schwab abbia scritto nel suo libro “The Great Reset” (il bestseller dei complottisti a cui mi onoro di appartenere) che la quarta rivoluzione industriale “porterà a una fusione della nostra identità fisica, digitale e biologica”, cioè un microchip impiantabile nel nostro corpo in grado anche di leggere i nostri pensieri. Allora, vi evito il fastidio, se proprio ci tenente, continuate a leggere questo diario. La verità è che se STEPHEN KING con la sua scrittura riesce a farti amare un personaggio come Billy Summers, significa solo che i pensieri umani sono pronti a migrare via digitale da un cervello ad un altro: lo fa la letteratura in modo analogico da quando l’uomo è caduto su questa terra perché la serpe ha convinto con le parole Eva a prendere Adamo per la gola tanto da farsi buttare a calci fuori dall’Eden.
Siamo pronti a tutto, visto che a quanto pare, durante l’incontro degli elitari globali di Davos di quest’anno, il CEO di Pfizer Albert Bourla ha spiegato che presto ci saranno le “pillole ingeribili”, una pillola con un minuscolo chip a microchip che invierebbe un segnale wireless alle autorità competenti quando il farmaco è stato consumato. Ora, in attesa dei microchip nel cervello degli studenti per promuovere l’intelligenza e la memoria, dico che siamo fortunati a disporre di romanzi così belli, veri e possenti tanto da sperare in menti lucide finché sapranno ancora leggere.
Caro diario, oggi inizio a scriverti con le parole di Cristò, non ho scelta.
Succede che il mondo si sgetola e non sai se ti sgretolerai con lui o cambiarai tutto per rimanere intero. Il modo di parlare, il modo di vestire, la musica che ascolti, i pensieri, le azioni, le certezze, le paure.
Tutto o niente.
Perché sei finito insieme al tuo mondo e l’unico che può sopravvivere è un altro con la tua stessa faccia.
Ci sono momenti nella vita che attraverso come la pallina che gira nella roulette, quei momenti vorticosi e veloci finiscono per cadere in un romanzo e così mi sento come un croupier con il farfallino di un grande casinò ad annunciare l’uscita di un nuovo numero cui sono legate sventure e avventure di giocatori ingordi o semplici astanti annoiati. Il banco vince e lo champagne intorno corre a fiumi. Cosa può essere un mio commento se non l’apostrofo lilla tra la parola sogno e quella desiderio? Beh, devo dire che questo romanzo soddisfa proprio ciò: il mio desiderio di sognarmi in una nuova dimensione, rapito dalla lettura. Questa volta però l’incanto è diventata ipnosi totale. Sconvolgente e totale. Un numero fortunato, il mio, senza scommessa o azzardo se non la sorpresa di vedersi guardato dentro da una valle allagata di occhi vivi come luce di brillanti al sole. La sorpresa di toccare con mano gli zombi intorno e dentro e dirsi fortunato a sopravvivere. I deboli di cuore ma anche i forti, lo troveranno sconcertante, emozionante e commovente come è successo a me, ipnotizzato da una scrittura che diventa una cima di salvataggio ad ogni svolta pericolosa, in ogni trama della storia, in ogni anfratto della psiche dove provavo a rifugiarmi per non annegare in questo mare meraviglioso di parole che è CARNE. Il ribrezzo del vomito da sbronza e il desiderio di continuare a ubriacarsi con le pagine successive. Breve ma in lunghezza ma infinito in altezza: in fondo è l’intensità di un momento a renderlo unico.
E alla fine, il sentirmi privilegiato per essermi nutrito di CARNE, è l’ennesimo mai scontato desiderio di sogno soddisfatto, e 1, 10, 100, 1000 romanzi per provare a riempire tutto l’umano che abbiamo dentro prima di diventare zombi per le strade di questo strano mondo.
Sai cos’è il crepitio di vetri nello stomaco? Sai cos’è la conseguenza del male che rimane dentro e trasforma l’essere umano? Sai come si raccontano in modo vivido e coinvolgente momenti distanti nello stesso tempo di un romanzo, come adolescenza e maturità di un gruppo di personaggi tutti protagonisti in primo piano anche nelle scene dove sono assenti? Se lo sai allora hai letto IL BUIO DENTRO altrimenti leggilo e ne sarai rapito come è successo a me. La mia fortuna, ancora una volta, è stata scoprire l’ovvio di chi invece ha seguito l’evoluzione temporale dello scrittore, e attraverso le sue pubblicazioni, il segno indelebile lasciato negli anni. Io no, prima l’ultimo, L’UOMO SENZA SONNOe poi a ritroso questo grande romanzo in gara oggi, negli ALL STARS di sempre quando nel 2017 il Sunday Times lo ha definito uno dei migliori cinque thriller non inglesi di quell’anno.
Ecco la mia fortuna: la scoperta di Antonio Lanzetta nell’anno 2022 ad annodare nella stessa estate, fili intricati in una corda ruvida, tensione letteraria in un cappio che uccide, risolve, ogni dubbio o domanda su personaggi universali, la morte e la rinascita di un lettore che vive di nuovi desideri di conoscenza. L’intreccio armonioso e quell’ovvietà del bello a me ignota, di “scritture” salernitane immense ormai note e riconosciute nella letteratura moderna di questo complicato XXI secolo.
Il Cilento è salernitano, lo è in città, in provincia e nel mondo, puro, sporco, vergine, amato e desiderato, sfruttato e stuprato, regale, nobile e proletario, infettante ma anche curativo, medicina e veleno, come tutte le cose meravigliose, un desiderio continuo. Sì la terra, il cielo e il mare ma l’anima è l’umano che lo vive come un sogno e come un incubo, da quando Ulisse sentiva le sirene, da tanto prima e per tanto ancora finché saremo capaci di sopravvivere al male distruttivo di cui, come specie umana, siamo capaci. I conflitti come trionfo del bene sul male non sono un’opzione ma la necessità oltre il perdono, oltre la vendetta.
Nessun ostaggio credo possa mai raccontare pienamente il suo rapimento e così credo che ogni lettore può solo menzionare in parte le emozioni vissute nelle pagine di Antonio Lanzetta, ringraziandolo di poter raggiungere dall’interno, la quarta di copertina, e così la fine di un viaggio avvincente per tenerezza e tormento. La fine non si esaurisce con la conclusione della storia di cui si ha smania vivendola dentro i personaggi allo stesso tempo giovani e adulti. No, con la fine della storia inizia il desiderio della prossima, perché se il male nasce dal buio dentro, o il buio dentro ne è conseguenza, questo grande scrittore è la luce che lo rivela al mondo. Lo fanno anche altri grandi, ma come lui nessuno, almeno per me e solo chi lo ha letto mi può contestare, non altri.
In Cilento, Castellaccio, Agropoli, c’è Flavio, Claudia e lo Sciacallo quando era giovane, siamo tra oggi e l’estate del 1985…
Non la trama che puoi trovare ovunque in rete, né uno spot gratuito di riverenza, anche se di soggezione non me ne mancherà mai poca, ma questo è un commento, come gli altri, per una nuova pagina del diario di letture che cresce con i desideri di un lettore che non c’era, un fantasma, finché vive.
Caro diario, non avercela con me, il tempo scorre senza mai sputare per terra, bastardo. Ne mancano ancora alcuni (anche qualche femmina) ma quello che mi preoccupa è lo psichiatra De Rosa. Questi salernitani, anche maschi, hanno preso il sopravvento, prima i salernitani appunto, è una questione di sovranità. No scherzo, se anche si fermasse a sputare per terra, l’unico modo di salvare il tempo, sarebbe quello di dilatarlo all’infinito e non è nemmeno tanto difficile, basta mettersi in viaggio alla velocità della luce. Sì, perdonami questa è un’altra storia. Mica tanto, se ci pensi bene: mentre fantasticavo parole giuste, l’algoritmo del meta verso ha colpito, è stato un attimo, un post, un click, le 22 pagine di UN SILENZIO DI CENERE, e un commento, “Attenzione: crea dipendenza”. Nemmeno sapevo della maledizione del medico Pietro Barliario da Salerno. Altro che pandemia.
“La mamma gli aveva spiegato che Barliario era un alchimista, una specie di mago vissuto a Salerno più di mille anni prima del morbo.”
Ritardato non ritardatario, mi sono detto di me stesso, basta una scossa, alla velocità della luce appunto, per lasciarci la pelle, la reputazione, la credibilità, la serietà. Caro diario, non avercela con me, i salti temporali da una pagine all’altra, da una lettura all’altra, sono ormai fuori controllo mentre sento le risate di DFW che mi deride dal suo eterno paradiso: «Non ce la farai a leggermi tutto». Una sfida, ancora una sfida è il motore della macchina del tempo.
L’UOMO SENZA SONNO è sconvolgente, io a dormire dormo, ma il sangue tormentato del mondo esce dalle ferite vive del protagonista Bruno, mi mancano le parole, mi manca il respiro, affogato come mi sento da tanto dolore. E quello di donna Pia?
“Bruno chiuse gli occhi e aspettò che l’alba bagnasse di sangue il giorno”
La tensione, il ritmo, la scrittura sopraffina, elegante e poetica da sogno, sono costituenti , lo so e maledico la mia povertà di strumenti all’altezza di questo grande romanzo, per scolpirne un benché minimo commento degno. L’incontro, la scoperta, la conoscenza, di una scrittura così avvolgente e sospesa nella durezza dell’esistenza, mi ha lasciato senza fiato, l’ho già detto? Dovrò ripeterlo bene per pulire al meglio la ruggine che mi consuma i pensieri. Ho letto bellissime recensioni, eccone alcune, ma non hanno dentro il segno profondo che Bruno mi ha lasciato.
L’UOMO SENZA SONNO non è solo una storia thriller, è un bagno di verità nel più profondo, angosciante e meraviglioso intreccio dell’esistenza umana. L’ingiustizia, la crudeltà, non hanno spiegazione se non nel riflesso tortuoso del male, il serpente viscido dalle mille teste, dei mille sonagli. Mettere a nudo quello che non si traveste, colui che striscia e non cammina è l’arte di Antonio Lanzetta, perché mentre lo leggi, ti fa sentire sulla pelle, il viscido, il brivido, prima ancora di entrare nella scena che segue. La dimensione mentale e fisica del dolore mi è entrata dentro, o forse è il buco nero che attrae e non da scampo come nello spazio fa per la luce. Distaccarsi è lacerante, continuare a bagnarsi è sublime, ecco perché attenzione provoca dipendenza è un invito non un avvertimento.
un commento al romanzo di Marco Martucci, 2021 Morellini Editore
Amaro. Hai presente quell’ottimo liquore a chiudere un pasto veramente gradito? Non uno di quelli striminziti anche se stellati, ma uno abbondante che ti sazia spirito e pancia? È esattamente il finale di questo romanzo, amaro ma melodico, a tratti poetico, e a tratti semplicemente realista delle nostre crude verità.
A firma di Andrea Tarabbia, nella quarta di copertina si legge: “Insomma: è una storia dove la perfezione non la si trova quasi mai. È per questo che La perfezione somiglia così tanto alle vite di tutti noi.”
Il filo (casuale?) tirato dall’immenso fuso della rete internet che mi ha portato ad ordinare il romanzo di Marco, si è trascinato con sé anche quello di Andrea, l’ultimo disponibile al momento dell’acquisto, “Madrigale senza suono” che sto iniziando adesso…
Quando uno scrittore ne tira un’altro, non è marketing è riproduzione del bello.
Un nodo misterioso li ha intrecciati e fatti arrivare a me, insieme in primavera, poi lo scorrere degli eventi li hanno fatti diventare cibo succulento sotto Natale, ma questa è un’altra storia.
Lo so, è scorretto, usare pezzi d’opera senza chiedere permessi e licenze, è deplorevole. Il mio fine, non disperdere il sacro tempo della lettura e magari interessare chi ancora non ne ha condiviso il piacere, mi giustifica oltremodo ad affollare di paginette l’immenso web. Replico frasi che mi hanno lasciato un segno mischiando i personaggi e i tempi, per pubblicare commenti di un lettore nuovo, aggiuntosi agli altri, e che nelle intenzioni ne vuole condividere il sapore con altri ancora.
”In quel locale orrendo servivano una schifosa birra chiara e si esibivano le peggiori cover band esistenti, eppure il subbuglio nei petti aveva inventato colori dove tutto era grigio.”
Napoli e Bologna sono le città di questa bella storia che riempie, capitolo dopo capitolo, uno spazio tanto familiare quanto avvincente: mi ha afferrato l’intimo più profondo. Quando si tratta di amore, da quello impetuoso della gioventù a quello tormentato della maturità, l’intimo di se stessi è come una pagina appallottolata che vuoi rimettere stesa sulla scrivania. Le pieghe e gli strappi non tornano stirati mai.
“Se avesse continuato a pensare, gli schemi imposti per saldare la vita perfetta, l’ambizione coniugale, sarebbero crollati malamente.”
Seguendo la tensione di questa storia, un intrigo abilmente intarsiato tra figure molto avvincenti oltre gli amori protagonisti, ci si imbatte in anime superiori, quelle di sempre, su tutte Lady Marian, un’altra adorabile figlia, come la Venere di De Silva. Insopportabili per un genitore ma essenzialmente la conferma del miracolo riproduttivo della bellezza. Oltre dicevo, ci si aspetta altro e invece la fine, una volta svelato l’intrigo antico come il mondo, è la perfezione amara della vita che riparte uguale a se stessa quando le priorità sono invertite dalla tempesta interiore che, incontrollabile, rompe ogni ovvia certezza del presente. E allora tutto deve cambiare, anche al proibito, messo a nudo, non si può resiste.
Qualche intellettuale tribale maschio direbbe: « è sempre colpa di quella zoccola di Eva» aggiungendo amaramente poi: «sì, però è quello stronzo di Adamo ad averla seguita…». Quale sarebbe stata l’alternativa? Il paradiso per sempre? Sai che noia!
“La ragazza era così appassionata e femmina e scaltra che si sarebbe presa quel che voleva.”
Cosa sono le fragilità umane e i sogni infranti? Il rimpianto non è sterile ma determina azione, cos’è se non perfezione riprendersi ciò che si è messo da parte, nel cassetto dimenticato?
“Si era perso troppo, aveva buttato via il sogno mentre lo stava realizzando, e si era rinchiuso in una relazione che sarebbe esplosa inevitabilmente prima o poi, perché nessuno può stare bene in eterno dentro un ruolo che non gli appartiene.”
«I vivi se ne fottono del fegato spappolato e continuano a divertirsi.»
Vittorio e Diego, amici da sempre, sanno l’uno dell’altro il necessario ma si nascondono l’essenziale con cui smetterebbero di essere amici, con l’uno e l’altro questo romanzo poggia la sua costruzione su pilastri difformi ma strutturalmente complementari per il loro spessore di protagonisti senza tempo nelle consuete tragedie esistenziali, dentro le solite e definite categorie di maschi alpha accerchiati, succhiati da comprimari ingordi del loro successo. Lo star system, che sia politico o musicale, nazionale o locale, si nutre di fascino, di occasioni, di quei desideri sciacalli, di quella perfezione abbagliante che attrae come l’occhio di un ciclone.
“Si era scordato moglie e figli, adesso se ne rendeva conto davvero, da un po’ li aveva mollati in una posizione sconsiderata lungo l’ordine delle priorità, e là stavano ancora.”
Ma a mio parere, però sono le donne a brillare, a dare luce definitiva su tutto il romanzo, fatto di storie ed emozioni che si intrecciano alla perfezione.
“E seppure davanti a ogni decisione presa si era sentita forte, adesso doveva ammettere che il passato non le si era assolutamente arrestato alle spalle, ma in un moto ondoso e rapido stava risalendo in riva.”
“Era diventata così perché lo aveva scelto, perché si era circondato di filtri che trattenevano l’imprevedibile. Eppure in un tempo lontano era stata un’istintiva, disposta a stravolgere le consuetudini più solide per soddisfare l’istinto, per andare incontro alle possibilità sconosciute.”
Le città sono uno sfondo, ma ben distinto e disegnato con i particolari necessari ad un rapido quanto immortale riconoscimento. Non è il racconto delle città né quello dei protagonisti, strumenti usati con sapienza certosina da Marco, è l’immersione in apnea dentro l’intimo, l’irruenza affannosa dei ricordi nella precarietà del presente a fare la differenza, a chiedere il rimescolamento repentino di quanto sembra perfetto, è la perfezione dell’essere imperfetti, come credo di aver scritto da qualche altra parte, ad avermi tramortito e saziato, fino al finale, amaro, ma di quello buono, di quello che completa la sazietà non un alcolico qualsiasi che aiuta a digerire. Arrivati alla fine, ciò che sembra scontato è l’onda lunga del desiderio che si è appagato, soddisfatto.
“E poi , nelle vene di ogni musicista, l’imprevedibile si fa plausibile scorrendo.”
La rete cattura, uccide e fa nascere, è pericolosa, vischiosa a strascico distrugge un fondale, ma online è talmente imprevedibile da portare a galla delizie, magari tanto deliziose quanto piccole e affascinanti. Così è stato l’incontro casuale con la gatta Matilde di Clarissa Catti: un caso fortunato, e come molte scoperte sanno essere, ho trovato un grande personaggio di un romanzo geniale. Come puoi raccontare la morte a un bambino? E come puoi farla immaginare ad un adulto?
«Matilde voglio vedere tanta arte, mi ci porti?»
Sarà che sto invecchiando male con terribili involuzioni puberali, sarà che la lettura invernale, durante una tormenta di vento e pioggia senza precedenti, è in modo struggente, un rifugio caldo e rassicurante, sarà quello che sarà, non posso non condividere il piacere sentito grazie a questa fiaba, tanto semplice quanto potente. Pensando agli occhioni di un bimbo che ascolta e ti guarda quando parla la gatta Matilde, l’idea che la Morte diventi un’amica che ti accompagna per boschi, città, teatri e ospedali, è una storia avvincente senza tempo oltre quello che può sembrare un momento fantastico della fantasia. Dare la morte , prendere la vita!
«Il dolore è quando senti dentro te qualcosa che fa male, ti pesa proprio addosso e non riesci a togliertelo. Basta il solo pensiero di una cosa che provoca dispiacere e senti questo macigno che non ti fa respirare, devi fare per forza lunghi sospiri per sentirti ancora vivo.»
Non di trama né di stile oso scrivere, ma di emozioni quelle sì, quando arrivano dirette e possenti, posso dire di respirarne a polmoni pieni.
«Sì, lo è, ma pochissimi sanno essere felici. Oggi andremo alla ricerca della felicità, ma prima devi prepararti perché dovrò farti vedere altre cose brutte.»
Non sarà un pensiero condiviso ma credo che questo racconto sia un tocco prezioso anche per un’anima adulta, forse, solo forse sottolineo, l’autrice ha sotto valutano i grandi e sopravvalutato i piccoli, ma sarà mai pronta l’umanità quando arriva a farle visita sorella morte?
«Tu non dormi, Morte?»
Chi si misura con la lettura e la scrittura ha scheletri danzati nell’armadio dei pensieri, tanto privi di carne quanto densi di follia, eppure l’eternità di parole come gelosia, invidia, odio, bellezza, cattiveria, ignoranza, intelligenza, rabbia, gioia, felicità e amore, è una dimensione sensibile all’umore del momento, ci calpesta, ci opprime, ci manda in estasi con la stessa facilità con cui l’oblio ci spegne la luce. Anche nel buio più profondo, demoni e angeli, urlano da pagine scritte a risvegliare il senso della vita, a commuovere un lettore mai sazio di ritrovarsi bimbo, indifeso e avido di belle storie da raccontare. E se una gatta fa le fusa, grazie a questo breve ma possente racconto di Clarissa Catti, da oggi saprò spiegarne l’incantesimo.
«Gli uomini inventano storie e scrivono con il loro dono frasi bellissime, piene di significato. Sempre di arte si tratta.»
“Cosa sappiamo sulla vita, sulla morte e sui dolci amici domestici che accompagnano i passaggi più importanti delle nostre vite? L’autrice ci prende per mano portandoci a scoprire un mondo diverso, o meglio, il nostro mondo, le nostre realtà, ma viste con occhi diversi e da prospettive inimmaginabili. Un viaggio introspettivo profondo, raccontato con la leggerezza di un linguaggio coinvolgente e fruibile a tutti, quasi fosse una fiaba. Età di lettura: da 6 anni.”
Perché Antonella Cilento è una maestra e questo suo NON LEGGERAI ne è una magistrale conferma, perché quel diavolo di scrittore è un suo allievo, ecco perché, per osmosi mi ha portato a questo romanzo; noi usiamo FB per socializzare, Antonella nel romanzo lo ha chiamato WT (tempo perso)… GENIALE!
Antonella è una maestra di scrittura, un’accademica delle emozioni raccontate, che partono dalle parole e arrivano direttamente all’anima del lettore. L’Istituto Onnicomprensivo Pino Daniele, le Scuole Riassunto, sono un futuro tanto possente da essere reale già oggi; quella scuola, le protagoniste Help Sommella e Farenàit Lopez, i Mondi Occidentali, la società futura raccontata da Antonella, è quanto di più visionario e “reale” si possa immaginare. Questo romanzo è un trip, un prodotto stupefacente che mi ha rapito prima e sconvolto durante e dopo… tanto che l’ho riletto più volte. Sembra assurdo ma è così, poco tempo per tutto, ma una dipendenza ti porta a ripetere i percorsi del piacere, è un desiderio, diventa una necessità. L’amore per i ragazzi, per la scuola, per la letteratura, per i libri che finiscono nascosti in una bara, per le passioni umane, per una speranza quotidiana che non è l’ultima a morire ma il cibo prelibato ad ogni colazione di ogni giorno… Roba forte, fortissima. I libri come e meglio della droga, vietati, banditi, distrutti, perseguiti, desiderati, un reato, una colpa.
NON LEGGERAI
NON VEDRAI I MORTI
NON AMERAI SENZA SCOPO
Ho molto timore nel riprodurre pezzi di pagine che vanno lette tutte insieme in un solo respiro. Ho paura di sciuparne la magia, l’incantesimo, rovinare questa grande lezione di vita, di preveggenza onirica, di antropologia essenziale che per me, mette al bando ogni futurismo della competizione e della velocità, che indica la strada del ritorno alla lentezza del gusto e accompagna alla profondità del pensiero, e così, svela la nostra natura veramente umana contro la bestialità dell’animale che abbiamo dentro. Un monito, un manifesto alla vita degna, ma allo stesso tempo un insegnamento. Un regalo vero!
«Come è stato possibile?»
«A volte basta concentrarsi solo su se stessi, credere di essere soli. Così soli che non c’è più bisogno di conoscersi, di conoscere gli altri, di mettersi alla prova, di dubitare. Una società che vive stando allo specchio muore.»
pagina 39 – NON LEGGERAI – Antonella Cilento – 2019 Giunti Editore
Per non morire di noia e tempo perso, leggi NON LEGGERAI di Antonella, e gli occhi ti si riapriranno sulla vita che ti aspetta a braccia aperte… Ingorda di te l’emozione di essere, ti rapirà…
un commento al romanzo UNA FAVOLOSA ESTATE DI MORTE di Piera Carlomagno, pubblicato da Rizzoli nel 2019 per Mondadori Libri
Non ci sono alibi, chi ha letto di Viola Guarino con #NeroLucano non può che desiderarne l’esordio raccontato dall’autrice nel romanzo una “Favolosa estate di morte”. A tutti quelli che ancora non conoscono questo intricato e complicato personaggio che nella vita fa l’anatomopatologa, posso dire di non rimandarne l’incontro perché è uno di quei protagonisti dei sogni che aiuta a curare ogni inquietitudine. Scienziata e strega, fragile e forte, passionale e fredda, desiderabile e respingente, severa ma umana oltre l’umano. Viola aiuta a comprendere la complessità dell’esistenza invisibile che ci accompagna, e lo fa attraverso le sue vicende che sono intricati percorsi emozionali, sensitivi e psicologici, che legano il reale di chi deve affrontare il dolore della perditadell’ammazzato, con l’essenza spirituale dei cadaveri con cui intrattiene dialoghi risolutori. Quei corpi e ciò che sopravvive alle autopsie, le parlano oltre la morte districando matasse attorcigliate di sospetti, moventi e volontà segrete fino ad arrivare alla scoperta di ciò che li rendeva protagonisti di una vita intensa ma bruscamente interrotta. I cadaveri sono due, abbracciati nella morte, più amanti tra loro che nella stessa vita. Il prima e il dopo hanno reso il percorso narrativo un viaggio che mi ha ipnotizzato come lettore. La Viola Guarino di Piera è essa stessa il romanzo di cui si desidera la continuazione, e così si capisce l’attesa per #NeroLucano, e la bramosia per un terzo episodio dove cercare le risposte a domande ancora aperte su questo personaggio incredibile.
La scena in cui Viola conosce la moglie di Loris è un piccolo capolavoro per la sua semplicità, per la sua tensione, per una straordinaria e travolgente ordinarietà che sbatte il lettore dentro l’intimo più realistico e normale della vita quotidiana di ognuno. L’amore di Viola e Loris è una scoperta lenta, si gusta con piacere crescente passando da questo romanzo a #NeroLucano, ma resta una storia irrisolta che diventa la trama di una serie di cui già fortemente si sente il bisogno, magari una trilogia lucana o magari l’esplorazione di nuove terre vicine con popoli e personaggi che aspettano, dietro l’angolo, di nascere in pagine nuove della Carlomagno.
“Sentiva il desiderio di mordere il nuovo sostituto procuratore.
E quel sobbalzo, quello di lui, non le era sfuggito, ed era coinciso perfettamente con il tuffo del suo cuore. Uno scatto contemporaneo nella testa di tutti e due. Sarebbero stati guai, lo sentiva.”
Per me l’attesa è la magia di un giallo. Il ritrovamento nelle pagine di segreti, indizi e prove, con lo svelarsi dei personaggi vivi con quelli morti ammazzati, è la verve, il brio del romanzo, l’estro dell’autrice ne fa un cocktail alcolico di cui la Carlomagno è ormai maestra, ma su questo vi rimando a due recensioni di prestigio, ecco i link:
«Mannaggia! Maledizione! È finito.» È la terza volta che mi succede. Con Hotel d’Angleterredi Mari, mi ha preso esattamente la stessa delusione vissuta con Nero Lucanodi Carlomagno e con Hello, goodbye di Grattacaso. Essere rapito nella storia che l’autore racconta, è una magia che si è ripetuta con questo bellissimo romanzo ambientato nella Salerno del 1911. Non è mai scontato ribadirlo: è la scrittura di Carmine, come quella di Piera e di Claudio che hanno dato vita all’incantesimo. Arrivato nelle ultime trenta/quaranta pagine, la voglia di restare nella storia è questa magia che cerco di dire. Il caso non è risolto, anzi si infittisce di segreti, mi vengono in mente varie ipotesi, mi chiedo cosa stanno facendo i personaggi della storia mentre non ne sto leggendo. Mi chiedo cosa succederà domani, e allora per non fermare la magia ne rimando la conclusione, beh, forse esagero, ma è come rinunciare all’amplesso del finale per aumentare il tempo del piacere. È forse anche questo uno dei motivi di successo dei romanzi gialli, nelle loro diverse varianti che vanno dal noir alla spy story. Poi ci si mette l’allineamento degli astri e una città va in serie A con il pallone e i suoi scrittori più creativi ed affermati, nell’Anno Domini 2021.
Le prime cento pagine di Hotel d’Angleterre , mi hanno trascinato dentro una bella storia raccontata con accattivante fluidità densa di particolari mai superflui, anzi proprio questa densità è una delle ricchezze di questo libro. La ricerca storica è di spessore elevato ma non sovrasta il racconto, anzi lo permea con raffinata essenza. Sì, proprio come quei profumi delicati che senti, apprezzi, ma che con discrezione sono pressoché assenti. La storia è molto intrigante, costruita con arguzia e maestria, parte da Roma per poi approdare in provincia. Il periodo a me completamente ignoto, mi ha incuriosito in modo crescente pagina dopo pagina; poi il fascino dei luoghi del racconto, me ne hanno amplificato il desiderio di una conoscenza più diretta e approfondita.
Davidson era in giro a visitare un po’ la città. A dire il vero, non è che ci fosse molto da vedere, a parte la cattedrale e qualche chiesetta medievale. La parte storica cadeva a pezzi, e un po’ me ne vergognavo. Eppure ce n’erano edifici belli, interessanti da un punto di vista architettonico, testimonianze di un passato illustre, di una Salerno che mille anni addietro era stata capitale di un vasto ducato longobardo e poi normanno, ma nessuno faceva niente per rimetterli a posto. Credo che i cittadini che la abitano non sappiano un cavolo del luogo dove vivono.
La seconda e terza di copertina sono un extra di pregio: Salerno e l’eleganza ad inizio secolo, così come rappresentate attraverso una cartolina e manifesti pubblicitari, attraggono la mente in capitoli che scorrono veloci, e così mi sono trovato immerso in un viaggio unico ad occhi aperti, nel primo Novecento di questa città.
Per esempio: il tram giallo che nel 1911 univa Salerno a Pompei:
”C’erano voluti tre anni per costruire i trenta chilometri con binari tipo Phoenix, a partire dal giorno del rilascio della concessione governativa, fino all’inaugurazione della tratta. A tal scopo era stata fondata la Società Anonima dei Tramvai Elettrici della Provincia di Salerno, con sede a Bruxelles, dotata di un capitale sociale di tutto rispetto: ventimila azioni di cento lire ciascuna, per un totale di due milioni di lire. Le vetture – pesanti tredici tonnellate e lunghe più di otto metri, con una potenza di cento cavalli – erano state acquistate a Philadelfia, presso la The J.B. Brill Company. Avevano attraversato l’oceano nella stiva di una nave ed erano state montate sul posto.”
Niente di strano se fosse un trasporto di oggi. Solo qualche cointainer tra migliaia di quelli che arrivano nel porto, e allora? Ho sentito l’infernale stridore di una frenata su quelle rotaie di ferro, ho sentito un baccano enorme nel cervello pensando a quante fabbriche sono state impiantate e poi dismesse da allora, da quando compravamo i tram in America. Ho visto le scintille del primo capitalismo mettere le radici nella città a sud della capitale dei Borboni. In quella foto non c’è il lungomare di oggi rubato al mare di allora. Non lo sapevo, non avrei mai immaginato niente di tutto questo, se l’autore non mi avesse portato sul quel tram insieme all’avvenente “mademoiselle” ingorda, ospite in quei giorni all’Angleterre. O meglio, lo sapevo ma viverlo con le azioni dei personaggi, è tutta un’altra storia. La beatitudine che mi avvolge quando una lacuna di ignoranza viene riempita, ha un gusto prezioso, è un attimo di pausa nella fame che divora, è il sapore sopraffino della buona letteratura, lo svago necessario che insegna alla mente come liberarsi dall’ignoto. Un incantesimo: la vera fondazione di conoscenza.
La magia nelle pagine di Carmine Mari è fatta di carne e di sudore, di cazzotti e di piombo, di ambizioni e sentimenti, di passione, sesso e amore, di donne operaie che alzano la testa e si organizzano, vogliono il voto, vogliono il rispetto, affermano una dignità rivoluzionaria senza tempo, femminista ma non solo, una dignità violata anche se si appartiene ad una classe padrona. La lotta di genere all’interno della lotta di classe è un conflitto irrisolto e Mari ha la capacità di riportarci nel 1911, dimostrando in fondo che i viaggi nel tempo sono lo specchio del presente, nell’epoca in cui la nostra azione si può svolgere per risolvere le questioni ancora aperte.
Edoardo Scannapieco, giornalista emergente, testimone implicato nel mistero degli avvenimenti, è protagonista nella vita di quelle donne e delle altre, quelle che lo coccolano e lo amano: la mamma, zia Tina, e la gelosa Agnisetta. Raccontando questa storia, in prima persona, Eduardo ci regala un mondo affatto semplice e retrò, anzi, modernissimo e difficile, attuale con azioni e traumi esemplari della gioventù che ci portiamo dentro, in ogni epoca, in ogni città. Il governo, la polizia, i criminali, il lavoro e lo sfruttamento, gli intrighi e le spie, gli omicidi, la guerra lontana e vicina, la guerra dentro, illegale, senza giustizia, le differenze di classe persistenti, l’odio e l’amore nei conflitti della quotidianità impietosa del passato, avida di futuro.
È una storia, una magia che non volevo finisse mai.
… non ci hai mai preso a schiaffi, e venerava sua moglie. Credo sia stato lui a trasferirmi quel senso di profondo rispetto che ho verso le donne. Avranno pure tanti difetti, le loro idee e i comportamenti sono spesso contraddittori, ma un uomo che alza le mani su di loro è solo un pover’uomo.
Qual era la mia verità? Che l’amore è un’avventura terribile per chi corre più veloce della realtà a cavallo dei desideri. Io volevo quella lì, ma avevo fatto male i conti.
Da quando ho letto la Caduta di Camus, cerco avvocati penitenti ovunque. Un buon avvocato serve sempre, ti apre la mente e ti evita i guai, è una sorta di difesa cautelativa alla sfiga. Almeno tenerseli buoni è una grande idea, perchè se si incacchiano “Con la bocca allappata di bile e le mani che sudano” sono capaci di tutto. Con Vincenzo Malinconico di Diego si va da tutt’altra parte, con Oreste Ferrajoli di Pippo ci si scassa dalle risate per quello che fa ai suoi clienti con una gang di primo ordine. Leggere questo libro che ho trovato delizioso, è stato comunque non solo divertente, la scrittura è fluida, rilassante; leggere questa bella storia, per quanto anche tragica e nera, è stato molto istruttivo, si scoprono personaggi e una Napoli diversa, si riflette sull’arrivismo e sulle sfide della vita.
La passione per gli insetti che dialogano con il protagonista sono metafore dell’io interiore, ma come li racconta Pippo, appaiono necessari dentro una forma vitale fuori da noi, con tanto di zampette e ali colorate. Lo aiutano e lo divorano, lui sembra padrone assoluto ma l’epilogo in una pagina e otto righe messe all’inizio, sono un artificio di incipit napoletano che avvertono subito il lettore: in gioco la cifra è alta, non è una scommessa da niente. Infatti la storia ti prende e ti accompagna alla fine, desiderando quanto prima di scoprire il vero epilogo che aspetta all’ultima pagina.
Si leggono tante storie e storielle ma “La prostituta svuota la sua borsa di clinex sporchi sulla plastica nera che copre per metà quel che resta di…” un cadavere, in pieno giorno, in un mercato affollato, è una scena che nella tensione del racconto accende l’attenzione e ti fa andare avanti veloce con interesse perché in ogni pagina succede qualcosa di verosimilmente fuori dalla normalità, quella piatta e noiosa che ci tocca vivere giorno per giorno.
Ecco perchè è un romanzo delizioso, mi ha fatto evadere e convincere di essere più forte di ogni raggiro, capace di sviare ogni marachella truffaldina: a me è venuto in mente Pacco, doppio pacco e contropaccotto del grande regista Nanny Loy, correva l’anno 1993.
Ovviamente la Napoli di Pippo Zarrella è un’altra città, eppure l’avvocatoFerrajoli con la sua gang e la Napoli di Nanni sono un tutt’uno sospeso nel tempo, in uno spazio in cui anche le trasformazioni sociali rendono evidenti l’eternità dei vizi, delle arti, e dei mestieri che si fanno una pippa alla salute del progresso tecnologico, irridono, immortali, la tragedia anche comica dell’esistenza umana.
«Iamm’ bell’. Mettiamoci a lavoro, chiudo la discussione.
un commento alla nuova edizione 2021 di Mondadori con la traduzione di Silvia Pareschi.
Non c’è niente da fare, ogni rilettura è preziosa perché l’evoluzione personale di ogni lettore è continua come il fluire dei giorni, indisciplinata, mutevole, sempre nuova. I classici sono un dovere talmente piacevole e maledetto da bestemmiare ogni spreco di tempo che ci resta, del giorno, della notte, della vita. Si rimanda ma quando poi ti rapisce, una storia come quella del vecchio e il mare, ti porta dentro la tempesta della lotta anche se tutt’intorno è immobile, l’uragano di empatia per la sofferenza dello sforzo sovrumano di vincere battaglie ormai perse, con l’enorme pesce più grande della barca, con gli squali affamati dalle stesse motivazioni dell’uomo, nel riposo che non arriva mai se non nella sconfitta finale che ti salva l’esistenza. È la gloria che si deve ai vecchi, ostinati, solitari, invincibili, desiderosi di compagnia, desiderosi di trasferire la sapienza, l’essenza dell’esperienza umana. La barca e la capanna, il mare e la terra ferma, la povertà, e la lotta come unica grandezza della forza di ogni uomo.
Questa ultima edizione è preziosa come prodotto editoriale perché contiene foto in bianco e nero molto speciali, e una raccolta di articoli sulla pesca che Hemingway scrisse tra il 1920 e il 1949, tra questi c’è Sull’acqua blu: una lettera dalla corrente del golfo del 1936: è una corrispondenza con cui accenna, ben sedici anni prima, alla storia da cui nascerà Il vecchio e il mare. Inoltre l’extra imperdibile è il racconto inedito La ricerca come felicità che da solo vale tutto il libro, dove Ernest racconta della sua passione per la pesca, per i suoi uomini d’equipaggio e di come tutti insieme, distribuivano il pescato, enormi e meravigliosi grandi pesci, a tutti coloro che ne avevano bisogno, ai morti di fame, poveri e manganellati, in quella Cuba che solo dal 26 luglio del 1953 al primo gennaio del 1959, vede realizzata la rivoluzione di Fidel Castro e di Ernesto Che Guevara, quando ormai Hemingway è già una stella planetaria.
Copertina Life di Hemingway
A rendere unica e imperdibile questa edizione è ovviamente la traduzione di Silvia Pareschi che nell’epilogo del libro, ci descrive l’iceberg che ha dovuto affrontare, i sette ottavi della montagna Hemingway che sono sott’acqua, cioè quel metodo dell’iceberg che è un caposaldo della scrittura di Hemingway come lui stesso enunciò per la prima volta in Morte nel pomeriggio:
“Se un prosatore sa bene di cosa sta scrivendo, può omettere le cose che sa, e il lettore, se lo scrittore scrive con abbastanza verità, può avere la sensazione di esse con la stessa forza che se lo scrittore le avesse descritte. Il movimento dignitoso di un iceberg è dovuto al fatto che soltanto un ottavo della sua mole sporge dall’acqua. Uno scrittore che omette le cose perché non le conosce, non fa che lasciare dei vuoti nel suo scritto.” (traduzione di Fernanda Pivano).
Già la traduzione! Solo come accenno alle differenze tra quella di Fernanda e quella di Silvia, riporto l’inizio dell’incipit nelle due differenti edizioni, sono le prime parole di Ernest che nella scansione in bianco a nero dell’originale regalano a questo libro un fascino veramente superlativo; l’ultima foto allegata poi mette insieme i grandi pesci da macellare e una normale famiglia di turisti americani.
Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce. Nei primi quaranta giorni lo aveva accompagnato un ragazzo, ma dopo quaranta giorni passati senza che prendesse neanche un pesce, i genitori del ragazzo gli avevano detto che il vecchio ormai era decisamente e definitivamente salao, che è la peggior forma di sfortuna, e il ragazzo li aveva ubbiditi andando in un’altra barca che prese tre bei pesci nella prima settimana. Era triste per il ragazzo veder arrivare ogni giorno il vecchio con la barca vuota e scendeva sempre ad aiutarlo a trasportare o le lenze addugliate o la gaffa e la fiocina e la vela serrata all’albero. (Traduzione di Fernanda Pivano)
Era un vecchio che pescava da solo su una piccola barca nella corrente del Golfo e ormai da ottantaquattro giorni non prendeva un pesce. Nei primi quaranta giorni con lui c’era stato un ragazzo. Ma dopo quaranta giorni senza neppure un pesce i genitori del ragazzo gli avevano detto che il vecchio era ormai sicuramente e definitivamente salao, cioè uno sfortunato della peggior specie, e per loro ordine il ragazzo era andato su un’altra barca che aveva preso tre bei pesci nella prima settimana. Il ragazzo si rattristava nel vedere il vecchio rientrare ogni giorno con la barca vuota e andava sempre ad aiutarlo a trasportare le matasse di lenze o il raffio e l’arpione e la vela avvolta intorno all’albero. (Traduzione di Silvia Pareschi)
che dire? sono felice e commosso: infiniti GRAZIE!!! al Direttore Nicola Nigro: conserverò questo suo articolo tra le tante cose straordinarie della mia vita, perchè vero, sentito, inaspettato, fulminante come un lampo in un cielo senza nuvole nell’agosto più torrido di sempre… non scherzo, ho fatto una doccia gelata per riprendermi dal rovente abbraccio di emozioni con cui, il suo articolo, le sue parole, mi hanno travolto. Ancora uno: GRAZIE!!!
un commento a “I valori che contano (avrei preferito non scoprirli) di Diego De Silva, Einaudi, 2020
Questa volta prima di scrivere questo commento, ho letto diverse recensioni, ormai più di un anno è passato dall’uscita dell’ultima puntata delle avventure dell’avvocato Malinconico che finalmente vedremo in una fiction RAI in TV, era ora, aggiungo.
Scevra da recensioni e analisi, la lettura di questo libro è stata più interessante del solito e lo posso dire, ragionando con il senno di poi: a non sapere prima cosa c’è dentro rende ogni pagina più godibile e sorprendente a chi, come me, già conosceva l’avvocato – di gemito, più che di grido.
Allora, tornando a noi, e non tanto per dare un contributo minimamente originale (cioè quel pizzico di sale che serve a dare sapidità), ma per trasmettere la mia ennesima meraviglia trovata nella lettura di un bel libro, posso affermare di aver scoperto un personaggio eccezionale: la Venere di Diego è straordinaria, tanto che… no questo non lo posso scrivere, non è elegante! e su Venere, ci torno dopo.
Sebbene, intimamente, sia un semplice ma preziosissimo coglione a scatenare l’inferno e il paradiso delle emozioni, oltre I VALORI CHE CONTANO che danno complessità e immortalità alla narrativa di De Silva, la forza del protagonista Malinconico si amplifica sullo spessore dei personaggi che gli riempiono la vita. Tralasciando quelli delle puntate precedenti (lo so, anche questo non è elegante!) e prima di affronatre la visione della Venere di Diego, dico che Benny Lacalamita può essere un Peppino di Totò e forse anche di più. Non confondo gli attori con i personaggi, provo a riferirmi alla forza dei personaggi impressa da interpretazioni irripetibili.
Forse esagero, forse sono colpevolmente irriverente verso indiscutibili mostri sacri, forse no! la trasposizione o meglio la respirazione di quanto succede nella società italiana a me è arrivata diretta anche se Benny a tratti è più vicino ai personaggi interpretati dal grande Aldo Fabrizi insieme a Totò, non spalle ma giganti. Ecco perchè l’attesa della fiction di Malinconico è per me densa di aspettative. Le pagine, così come io le ho lette, richiedono personaggi veri prima che interpretazioni di personaggi immaginati. Vedremo!
Da qualche mese, ogni volta che da sud entro a Salerno anche la tangenziale mi ricorda Benny
– Cristo, Benny, qualche volta sforzati di non prendere tutto alla lettera. Le parole non sono istruzioni per l’uso, sono anche allusive, imprecise, improprie. Mi rendo conto che per te non è facile arrivarci, ma sono le parole improprie che cambiano la vita delle persone.
«I titoli di coda della vita in comune» è la frase di Malinconico che riempie la prima parte non solo come artificio letterario, come il ferro dentro i pilastri di una costruzione narrativa, è una frase dura e permeabile come il legno di una croce su cui vanno a morire tutte le storie, è il lievito che permette a De Silva di far crescere nel lettore la consapevolezza di quanto possenti possono essere le parole; usate come un’arma, impropria appunto, sono capaci di mettere fine e dare nuovo inizio ai capitoli della vita di un essere umano. Suo malgrado Malinconico è un vincente che bastona colleghi, giudici e clienti, ma di più se stesso e continuamente lo fa con ragionamenti veloci e potenti come fa una mazza di baseball prima di un fuori campo.
I capitoli come Eyes Wide Shut de noialtri e Sommarie informazioni, scorrono veloci e ci portano alla Venere di Diego che è il ’68 portato nel XXI secolo, la ribellione e la saggezza dei giovani che sbaragliano il vecchio e stantio status-quo: ecco perchè questo personaggio mi ha fatto impazzire. Citando alcune frasi provo a rendere omaggio al racconto, oggi, di un astro umano dirompente come Venere.
– C’è di male che non sono una bambina, nel caso non te ne fossi accorto. E se non arrivi a capire che prevaricando tua figlia in questo modo l’autorizzi a disprezzarti, vuol dire che hai il quoziente intellettivo di un cavallo a dondolo.
… poi …
La scusi, avvocato; anzi ci scusi. io e Venere siamo facili al battibecco, come può vedere, – interviene Dasporto in sua difesa; e lei lo guarda con un guizzo di riconoscenza che subito reprime. – È che vogliamo sempre l’ultima parola. Siamo molto simili, alla fine, – aggiunge.
– Questo è vero. Ci prostituiamo entrambi, – fa lei.
… poi …
– Ma tu vedi che figura di merda, – sbotta la figlia. – Sei davvero un cafone oltre che uno stronzo, papà. Può anche fare lo spiritoso, avvocato, – mi risponde il padre bypassando gli insulti filiali. – Ma il fatto che non sia laureato non vuol dire che sia ignorante in materia. Non foss’altro perché potrei essermi consultato con professionisti ben più quotati.
Mi alzo. – Benissmo. Allora porti sua figlia dai suoi ben più quotati legali e non m’infastidisca oltre. La porta è lì.
– Io non vado da nessuna parte, – sancisce Venere. – Se ne va lui, piuttosto.
«Ben detto», penso. Ma ce n’è anche per me, subito dopo.
E anche tu Vincenzo, «Porti sua figlia dai suoi ben più quotati legali»: ma mi hai preso per una minorenne telecomandata?
Ovviamente, solo leggendo tutte le pagine, dalla prima all’ultima, si può godere della grandezza di questo personaggio con cui nessun genitore avrebbe voglia di misurarsi, ma che invece ha dentro di se tutti gli aspetti più veri e nascosti di qualsisi adolescente. Il caso Venere è il cardine su cui gira tutto il romanzo, il personaggio rende tutto coinvolgente fino alla risoluzione, le sue relazioni con Malinconico ovviamente mettono a nudo e illuminano, se pure ce ne fosse stato bisogno, le relazioni e sentimenti più intimi del protagonista, ecco Venere non è una stella che cade o una cometa che passa, è la luce che ci aiuta a mettere a fuocoI VALORI CHE CONTANO.
Venere mi rivolge un sorriso sornione, poi solleva i pollici e li rivolta contro. – E la puttana sarei io, – dice.
Così la misura con se stessi, attivata con la vita fuori degli altri, diventa invito generale a tutti i lettori di approfondire e toccare con mano le proprie relazioni, quelle con i propri figli per arrivare a nuove conquiste non scontate:
Più in generale, credo che la pratica di parlare di qualsiasi cosa con i figli sia un modo di portarli in detrazione, di scaricare (su di loro) le spese dei problemi che padri e madri non sanno risolvere da sé. Se vogliamo dei figli liberi, penso, dobbiamo liberali da noi.
L’ordine delle priorità cambia con l’ingresso di avvenimenti non previsti eppure sono vissuti dal protagonista all’interno di uno spazio sconosciuto con naturale approssimazione in un percorso che ogni lettore conosce per esperienze dirette:
Perchè per vivere di più bisogna fare soste brevi, e ripartire subito.
L’empatia con il protagonista, per quanto a tratti anche antipatico e presuntuoso, raggiunge vette di ordinaria umanità nelle relazioni non programmate ma non per questo meno struggenti:
Succede, quando ci si conosce così. La commozione di un compagno di stanza che ti saluta quando lasci l’ospedale ha dentro lo sforzo di dirti, senza usare le parole, che non devi sentirti in colpa se tu vai e lui resta.
Tutte le recensioni che ho letto sono concordi, questa è l’opera della maturità del personaggio e del suo autore, gli effetti spettacolari sono un contorno, ne aumentano il valore finale per la capacità globale di rendere dolcissima e unica, anche l’eterna sfida di leggere dell’amore:
Mi guarda. È così triste. Così indifesa. Sarò patetico, ma mi sento felice, in questo momento. Quando l’amore si semplifica, quando diventa debolezza e timore, di più: paura di non rivedersi, smarrimento, raggiunge quello stato di purezza in cui non c’è più nulla che lo nutre. Non il sesso, non il bisogno (comunque lo s’intenda), non l’abitudine (che pure conta, altro che chiacchiere), non il tempo passato insieme e nemmeno i figli, se ce ne sono: no, l’amore in quei momenti è il bene dell’altro che vuoi e senti in pericolo. Quello, e quello solo.
«Che cos’è la luna?», mi chiede Alagia una mattina che l’accompagno all’asilo. Passa qualche lungo secondo, prima che le risponda. «Una lampada che la notte si accende senza schiacciare l’interruttore», dico. E lei, chissà perché, mi stringe forte la mano. Dovessi indicare il momento in cui mi sono sentito suo padre per la prima volta, direi quello.
un commento al romanzo breve L’invito, edizioni e-stories 2020, finalista al Premio Garfagnana in giallo sezione ebook 2016
“A volte per ritrovare se stessi è necessario perdersi, ma quanto può essere pericoloso?“ – sulla quarta di copertina la scrittrice Piera Carlomagno, porge il suo invito alla lettura con estrema chiarezza, bianco su fucsia patinato, accenna “di come un accecante, seducente miraggio possa condurre nel baratro più profondo.”
Il titolo dato a questo romanzo, è tutta altra cosa, è un piano diabolico, è la vendetta necessaria di un’anima diventata nera per amore, accecata da gelosia primordiale.
Ciò che più mi ha coinvolto è il racconto in prima persona della protagonista Mirella che diventa Greta e poi rinasce in una nuova Mirella, è la formazione dell’insoddisfazione umana prima che femmina, che vive in ben tre personalità, le pulsioni fatte carne e desiderio che rendono il racconto non solo intrigante ed avvincente, ma anche capace di scavare nelle profondità dei meccanismi mentali sottesi alla scelta delle maschere, delle bugie, degli inganni, delle menzogne, della passione nel vivere nascondendosi a se stessi.
“Per poche, ora lo so, pochissime persone, succede a volte che il non vissuto esca fuori dal cono d’ombra dell’immaginazione e metta le mani intorno al collo della verità”
La trama sembra semplice e scorrevole ma si afferra con soddisfazione solo alla fine, come deve essere è vero, ma senza essere scontata: è padronanza di stile.
“Non si accorse che a un certo punto ero morta. Morta di piacere e di desiderio, che mi aveva stretta, poi sciolta, poi rubata e aveva fermato il sangue nelle vene, che mi aveva avvolto i pensieri in un morso di felicità tanto improvvisa quanto assassina.”
Il bene e il male si aggrovigliano tanto che ogni piccolo capitolo è premessa per una attesa insopportabile, un risvolto che ogni lettore deve scoprire.
“L’amore quella notte fu incredibile. Felino e devastante. Spazzò via quello che c’era rimasto di me. Lasciò in piedi un simulacro di donna, una identità a cui erano state dilaniate le carni, ma soprattutto un corpo a cui era stata strappata l’anima.”
Dipendevo da lei, come prima ero stata schiava di lui.
L’intreccio dei sessi, il nemico che diventa alleato e l’odio che sale prendendo il controllo della mente, sono più che suspence o artificio letterario: è fame di antropologia criminale.
“… mi sento come il sole che tramonta nel mare e la mia angoscia si spande in tutto il corpo e nei pensieri.”
Se state pensando che può essere una lettura da fare sotto l’ombrellone, sappiate che va bene per una mattinata o un pomeriggio, si divora in poche ore, poi ogni uomo guarderà negli occhi la propria donna con paure tutte nuove, una donna così non mangia l’anima, divora tutta l’esistenza lasciando niente, anche ai figli.
“Però la tregua era terminata. Il cervello aveva cominciato a lavorare. C’è una reazione, c’è un fondo del dolore, c’è il momento in cui le mani prendono qualcosa che fa resistenza e tirano fino a strappare, accada quel che accada.”
Le stelle non si incontrano si consumano. Questo è quello che vuole Erri, ho pensato sull’ultima frase letta a pagina 123.
“Nessuno lo ha chiamato papà. Agì da padre anche se non lo era. Negli abissi del disumano, il semplice umano abbaglia la raffica di un lampo.”
Una volta ancora, ho ringraziato lo Stato di aver letto e discusso “Se questo è un uomo” di Primo Levi a dodici anni nella mia scuola media di allora. Oggi non è più così? è molto peggio, lo scrive Erri nella sua premessa: “Da noi si cresce più facilmente in direzione conforme”, senza più sapienza.
Ecco, non è affato elegante cominciare dalla fine, devo iniziare dalla Premessa che Feltrinelli ha fatto iniziare a pagina 11. Come se uno scrittore come Erri dovesse premettere qualcosa? Ebbene sì, la premessa di Erri è l’opera, è la sua vita, il suo respiro profondo di esistenza, di ragione e sentimento. È un testamento. È nato nel 1950, poteva anzi è mio padre.
Un compagno come Erri non si discute eppure io oso farlo, devo farlo, devo consumare la sua stella inghiottendone luce e calore, oltre al vino, libro da libro e montagne che non conosco.
Una deliziosa intervista di Abel Wakaam mi ha spinto a prendere in libreria una copia di questo libro nuovo; dopo tanti, troppi anni, ho letto pagine errideluchiane, saranno i nuovi occhiali, saranno le sincronizzazioni celesti, ma oggi posso dire che il vero delitto lo commette il lettore che fa passare il tempo senza leggere le opere di Erri, eppure lui scrive:
“Uno scrittore sta anche da imputato di fronte al lettore. Fattispecie del reato è lospreco del suo tempo. Da qui la domanda indiscreta sul perché di un libro. Abbozzo una spiegazione relativa a questo.”
“Non sono padre. Il mio seme s’inaridisce con me, non ha trovato una via per diventare.”
Possibile? Chiarisce prima, nelle righe precedenti, sente il bisogno di giustificarsi per rispondere:
“Capita di ricevere l’insolubile domanda sul perché si scrive un libro.”
La tua opera? è un malinteso compenso? Ma che dici Erri? Chi sono quelli che malintendono pensando ai compensi? I compagni? quelli che si definiscono veri compagni con il sangue più rosso degli altri animali, nemmeno, forse solo umani?
Ho immaginato Erri De Luca come il contadino appeso alla speranza di un tempo clemente per un buon raccolto a fine stagione, anno per anno da stagione in stagione:
“Per un malinteso compenso, ho piantato molti semi in terra, minuscoli granelli sprofondati sotto una compatta massa. Come hanno saputo da che parte dirigere il germoglio? Sepolto come sotto una valanga, il seme sa la più diretta linea di salita per affiorare all’aria. Ha iscritta in sé la notizia della legge di gravità e per contrasto cresce in direzione opposta. C’è in noi la sua sapienza? Se esiste non la riconosco. Da noi si cresce più facilmente in direzione conforme.”
Erri non usa parole a vanvera, la valanga usata a pagina 11 è la valanga di pagina 88, o almeno io credo, voglio credere, ho bisogno di credere, bramo e desidero che sia così.
“Ci s’innamora anche così, sùbito, e pure a dire sùbito si perde la velocità di quell’istante. Si era caricato molto prima, accumulato come una valanga su un pendio. Uno sguardo scambiato la distacca, la fa precipitare. Ci s’innamora in discesa, a capofitto.”
La gravità, come legge e come misura, la direzione opposta come sentimento e come ragione, la valanga come forza genitrice e come forza distruttrice, come montagna da scalare per arrivare all’aria, il senso della vita, in superfice “dove la penitenza più profonda è averne solo un’ora, basta da sola a dire che le altre ventrité sono asfissia.“
Siamo solo a pagina 14, ancora nella premessa, e ho saltato la giustifica madre, il movente padre, le “storie estreme di genitori e figli.”
“Il vocabolario è la mia macchina per attraversare il tempo.”
Imputato dal lettore, imputato dai tribunali, imputato dalla generazione che ha accompagnato e trascinato, imputato dalle generazioni che hanno e continuano a lucrare sulle generazioni in lotta permanente, oltre gli anni formidabili che io posso solo vivere nei racconti, anni belli e funesti che non ho vissuto per limiti d’età, ma anche il lucro è questione di nasi capaci di scansarne il sudicio.
“Oggi si dice di vecchie lire, ma allora erano govani. Il denaro non si distingue in base alla sua età, ma tra pulito e sporco. Si vuole invece che non abbia odore, “pecunia non olet”, il denaro non puzza, dicevano i Romani. È questione di nasi. Esistono persone con fiuto sviluppato che permette loro di annusarne l’origine e scansarlo.”
La premessa termina a pagina 16 con tutto l’orgoglio e il rispetto che si deve ad un padre nel ricordarne l’esempio, la costruzione delle fondamenta che danno stabilità e forza alla nostra esistenza di figli: la decenza dell’onesta!
Se mi permette, dottor De Luca, qui state peccando di superbia.
Se mi permette, io la chiamo decenza.
Dopo l’orgoglio, il vuoto, l’ignoranza che da il senso profondo all’opera, la grandezza naturale come misura fisica del nodo che tiene insieme cime destinate a separarsi, ma il nodo dell’esistenza, dei salti di generazione è la metafora che non scioglie dubbi ma ci lega per sempre all’eternità, oltre questa vita, oltre questa morte sempre pronta a rapirci la coscienza del presente.
… e ora tenetevi forte, cari naviganti, ecco una valanga gentile:
“uno spreco di fiato gli anni che ho passato in paragone questa vita a questa morte”
sono le ultime parole cantate da Angelo Branduardi… è la fine, ma dovete arrivarci alla fine di questo libro mirabile; l’ultima citazione di Erri De Luca è in inglese, non altra lingua, è moderna non antica, la lingua imperiale del mondo moderno, l’ultima citazione a pagina 123 è di William Butler Yeats: “In balance with this life, this death.” … una lirica del poeta irlandese (1865-1939) tradotta in italiano e suonata e cantata da Angelo, eccola: un volo sospeso nell’eternità di ognuno di noi.
Un compagno si discute sempre, a maggior ragione quando i suoi germogli rendono fioriti prati immensi, e fattene una ragione carissimo Erri, come i marinai consumano tutti i porti del mondo, tu hai infiniti figli dispersi per città, foreste, campagne e montagne, magari illegittimi, irresponsabili, predicatori e praticatori di direzioni opposte, inconcludenti, deboli, fragili, magari solo lettori e spettatori, o magari mai nati, legati, immobili, teneramente sempre bambini, ma tutti ribelli e sognatori che si sentiranno sempre figli tuoi, e io, solo uno di loro. Grazie di delinquere ancora, i tuoi scritti sono seme divino e fonte umana in terra. Gli atti processuali sfameranno gli storici di domani, i malintesi compensi sfioriranno per concimare nuova terra da seminare.
All’inizio di questo mio personale cammino di formazione alla lettura, non potevo immaginare che un giorno avrei potuto associare un romanzo alle montagne russe, si, proprio quelle, le terribili e strabilianti giostre che salgono e scendono a mille all’ora, quelle che ti travolgono con un pugno nello stomaco quando precipiti giù, quelle che ti fanno respirare nella scalata lenta verso la cima, quelle giostre vorticose che in pochi secondi rendono l’adrenalina regina in un corpo legato, costretto a seguire una macchina pensata per il divertimento, quelle giostre che a testa in giù ti fanno pensare che tutto il mondo è rovesciato quando stai con i piedi a terra. Questo romanzo si legge in poche ore o meglio, ti travolge con un flusso veloce di storie che intrecciano l’esistenza nei suoi aspetti più densi e profondi. Quando sono arrivato all’ultimo giorno di lavoro di un vigile del fuoco, l’eroe per antonomasia della società civile, mentre i sui colleghi lo vogliono festeggiare, ho toccato, con il suo racconto segreto, il tormento estremo di una società che corre a vuoto, marcia sul posto, nel suo ombellico viscerale che non è il centro ma un vortice di anime solitarie, non è il centro ma un insieme convergente senza dimensioni:
“È il nuovo giorno che sostituisce il vecchio: il ritmo incessante della vita che si ripete ottuso.” – questa frase di qualche pagina prima, esplode tutto il suo significato nella confessione del pompiere, da quel giorno in pensione, i colleghi gli chiedono il giorno più bello, lui racconta: “Non ho mai più provato quella sensazione allo stomaco. Mai.” e di cose brutte, un vigile del fuoco ne vive anche troppe.
In questo meraviglioso romanzo ho trovato una sola parola difficile per me, una parola che però spiega il fascino intenso dell’intero romanzo: aoristo.
sostantivo maschile – Categoria del verbo, particolarmente vitale in greco, che indica l’azione pura e semplice, prescindendo dalle categorie del tempo e della durata: gnôthi seautón (‘conosci te stesso’) è in greco, diversamente dall’italiano, un aoristo, perché valido nel presente, nel passato, nel futuro.
Storie ordinarie, storie comuni, storie che ogni lettore vive e rivive nelle esperienze quotidiane, del passato, del presente, nei desideri del futuro, anche se non si è stati al liceo, anche se hanno abolito il latino nella scuola media, anche se la strada e il sogno di diventare campioni si è infranto nell’utopia della gioventù, la prigione di una sedia a rotelle, la prigione di un corpo inerte che non può decidere se vivere o morire… il rumore dei pensieri, leggendo Acari si fa assordante, l’ho sentito forte:
“Barbara me l’ha detto una volta, mentre la guardavo in silenzio:«Mario! Si sente il rumore del tuo cervello che sta sempre a pensare».”
Le cime e le valli, mai una distesa pianeggiante, mai la pace se non alla fine con il racconto dell’amore di Mario, alla fine, ma bisogna arrivarci all’uscita dalla giostra dei racconti di Rugo, racconti che la quarta di copertina riassume come una “sinfonia polifonica orchestrata magistralmente“, giusto ma non c’è solo una musica fatta bene, c’è la vita vera, con le sue vertigini, i suoi conati di vomito e la sua verità più lucida:
“Un milione e mezzo di turisti invadono ogni estate la riviera romagnola. Un milone e mezzo di culi producono milioni di chili di merda che si riversano nel mare in cui la mattina dopo lo stesso milione e mezzo si farà il bagno. Mi trovo a cesenatico a lavorare come assitente socio sanitario, anche il mio culo quest’anno sta dando il suo piccolo contributo.”
Le emozioni non si possono contenere, nemmeno un libro penso possa farlo, anzi un libro bello come questo, le amplificano e le rendono meravigliose come un giro su una montagna russa che ancora non si conosce.
“Dal bidone dell’immondizia arriva un odore nauseabondo di pannoloni sporchi. Non che me ne vengano in mente di buoni, ma questo è davvero un posto di merda per morire.“
La morte e la vita ci sfiorano, ci accarezzano, ci sfuggono, come la notizia per me tristissima della scomparsa, proprio in queste ore di un mio vecchio compagno di scuola: carissimo Pasquale, che la terra ti sia lieve.
“Quando per mestiere o per vocazione si è molto riflettuto sull’uomo, accade che si provi nostalgia per i primati. Loro se non altro, non hanno pensieri reconditi.”
Camus scrive questa frase nel suo, breve ma vasto e feroce romanzo La caduta, l’anno prima di ricevere il Nobel per la letteratura, nel 1956, quando la rivoluzione ungherese è soffocata dai carri armati russi, quando scrittori come Italo Calvino e Elio Vittorini seguendo Ignazio Silone, abbandonano il più grande partito comunista dell’Europa occidentale: il PCI di Togliatti, colui che costringe Giuseppe Di Vittorio, sindacalista contadino, non operaio, ad abiurare le posizioni di pubblica condanna dell’invasione sovietica, riportando la CGIL alla linea del partito, spegnendo così la minoranza socialista interna; la maggioranza socialista è già uscita fondando la UIL nel 1950: le cinghie di trasmissione sono ben consolidate, i cattolici della CILS ovviamente tirano la DC… sono passati 70 anni ma un buon avvocato serve sempre!
Che cosa ci azzecca con La caduta di Camus? Una mazza! ovvio! o forse no?
Quattro anni dopo Albert Camus muore a soli 47 anni, il 4 gennaio 1960, in un misterioso incidente d’auto insieme al suo editore, ma queste sono altre storie, fatto sta che Albert non è simpatico nè agli americani perchè comunista, nè ai russi perchè anti comunista, e per la verità anche a casa sua viene trattato una schifezza: dalla pubblicazione de L’uomo in rivolta nel 1951, la sinistra intellettuale francese, capitanata da Jean-Paul Sartre lo emargina, definendo il suo approccio borghese e passivo. Già molti anni prima è bollato come troskista ed espulso dal partito comunista, per riassumere sarà per sempre un anarchico viscerale, del pensiero, delle genti, dell’assurdo.
Perché uso la parola feroce? Ovvio! la grandiosità, l’immortalità e la devastante forza di questo libro sono dovute alla ferocia del monologo del protagonista, ferocia sadica e cinica, scatenata con chirugica fermezza contro chi sta distruggendo il suo sole dell’avvenire. Non contro l’umanità ma contro chi l’avrebbe potuta dominare e sottomettere; in quel tempo si era in piena guerra fredda e il comunismo poteva ancora essere vincente, come invece non sarà che evidente solo nel 1989 con la caduta del muro di Berlino, e come forse lo potrà ancora essere oggi nel nostro XXI secolo, sebbene cinese, sicuramente già economico… ma anche queste sono altre storie.
Non conoscevo Camus, ma dopo aver letto e riletto La caduta non ho resistito, non è sempre così, anzi l’ignoranza è una bestia incatenata che riposa in pace fino a quando, sveglia e affamata non rompe l’argine dell’indifferenza, non ho resistito a conoscere l’uomo che ha descritto con chiarezza allucinante non una caduta ma la potenza dell’uomo di cancellare l’umanità di una intera società di esseri pensanti. Per me il protagonista è lui, la risata che lo perseguita è quella della sua coscienza rimasta insieme agli ex compagni che lo deridono mentre, la donna che si suicida sul ponte gettandosi nella Senna di Parigi è l’idea ideale di una società che non ha salvato e che solo alla fine, scopriremo, non potrà mai più salvare perché ha scelto un’altra strada, un altro modello di determinazione politica delle masse.
Sono categorico e definitivo, al momento, non essere minimamente influencer è una grande fortuna, e lo devo all’ignoranza, all’ingordigia di sapere e comprendere la profondità di chi ha combattuto il nazismo riproverando poi negli anni ai suoi compagni, ai suoi governi, le stesse crudeltà che credeva ormai cancellate da ogni prospettiva futura, invece non gli resta che la fuga e diventare lui il dominatore dell’umanità affinché questa possa specchiarsi con la testa decapitata del suo dominatore. Ci mette tutti al muro ma ci salva con una visione materialista della confessione, non per essere perdonati ma per sopravvivere a se stessi.
Prima però costruisce l’arma che spoglia l’ipocrisia, che riga le certezze, ferisce le ovvietà, scortica le convinzioni più salde, uccide le credenze laiche e religiose. La costruzione letteraria del monologo trascende ogni ricostruzione storica o attesa pedante, è l’avvocato delle cause perse perché con queste sviscera le budella di ogni lettore, mai il peccato e i peccatori, ma il giudizio è la morte vera e allora il giudice penitente diventa il predicatore del suo tempo. Rileggiamo insieme alcuni estratti.
Infine la diverto, il che non per vantarmi ma indica che è dotato di una certa apertura mentale. Sicchè, lei è più o meno… Ma che importanza ha? Le professioni mi interessano meno delle sette. Mi permetta di farle due domande e risponda soltanto se non le reputa indiscrete. Possiede delle ricchezze? Qualcuna? Bene. Le ha divise con i poveri? No. Lei è dunque quello che io chiamo un suddaceo. Se non ha frequentato le Scritture, riconosco che questo non le dirà molto. Le dice qualcosa? Sicchè conosce le Scritture? Decisamente, lei mi interessa.
Ecco da dove si parte, dai suddacei: una minoranza, una élite di intellettuali del primo secolo (oggi ne viviamo il ventunesimo) spazzata via per aver collaborato con i romani, invasori e dominatori di quel mondo antico, una fazione collaborazionista di ebrei cancellata da ebrei. La domanda non è retorica: iniziamo a contare i suddacei?
Ma, per tornare a noi, stavo dalla parte giusta e questo bastava a farmi sentire la coscienza a posto. La consapevolezza del diritto, la soddisfazione di avere ragione, la gioia di provare stima per se stessi, caro signore, sono motori potenti per tenerci in piedi o per farci andare avanti. Se invece queste cose agli uomini le togli, li trasformi in cani rabbiosi.
avvocato dalla parte giusta…
Infine non mi sono mai fatto pagare dai poveri e non l’ho mai gridato ai quattro venti. Non creda, caro signore, che di tutto ciò voglia vantarmi. Non avevo alcun merito: l’avidità, che nella società odierna tiene luogo dell’ambizione, a me ha sempre fatto ridere. Io miravo più in alto; vedrà che per quel che mi riguarda non c’è espressione più appropriata.
l’onestà e la dignità di andare più in alto
Provavo, anzi, un tale piacere nel dare che detestavo esservi costretto. La precisione nelle questioni di denaro mi annoiavo a morte e vi acconsentivo solo di malavoglia. Dovevo essere padrone delle mie liberalità.
... mi creda caro signore, tutto ciò significa ergersi più in alto del volgare arrivista e giungere a quel culmine in cui la virtù si nutre ormai solo di se stessa.
Ad ogni ora del giorno, in me stesso e fra gli altri, mi ergevo in alto, accendevo fuochi ben visibili, e un gioioso saluto si levava verso di me. Così, quando meno, mi godevo la vita e la mia superiorità.
I giudici punivano, gli accusati espiavano e io, libero da qualunque obbligo, sottratto al giudizio come alla sanzione, regnavo, liberamente, in una luce edenica.
… un lavoro paradisiaco, la beatitudine in terra di servire il popolo
Ero di origini oscure (mio padre era ufficiale), ancorché oneste, e tuttavia certe mattine, lo confesso umilmente, mi sentivo figlio di re, o roveto ardente. Si trattava, badi bene, di qualcosa di diverso dalla certezza che avevo di essere il più intelligente di tutti. Questa certezza è peraltro di poco conto, essendo condivisa da tanti imbecilli.
… essere dio
Così correvo, sempre appagato, mai soddisfatto, senza sapere dove fermarmi fino al giorno, o meglio fino alla sera in cui la musica si è fermata, in cui le luci si sono spente. la festa in cui ero stato felice…
il primo presagio della svolta, della morte…
Photo by Renato Danyi
Ma lo sa perché siamo sempre più giusti e più generosi con i morti? Il motivo è semplice! Con loro non ci sono obblighi. Ci lasciano liberi, possiamo prendercela comoda, tovare un posticino per l’omaggio fra il cocktail e una deliziosa amante, e a tempo perso, insomma. Se a qualcosa ci obbligassero, sarebbe alla memoria, e noi abbiamo la memoria corta. No, negli amici vogliamo bene al morto recente, al morto doloroso, alla nostra emozione, a noi stessi per dirla tutta!
la sufficenza per i morti di prima cui non abbiamo rispetto né memoria
Così è l’uomo, duplice: non può amare senza amarsi.
la certezza dell’amore a cominciare da se stessi
In quel periodo ebbi anche qualche piccola magagna di salute. Niente di preciso, diciamo un po’ di esaurimento, come una difficoltà a ritrovare il mio buonumore. Andai da alcuni medici che mi diedero qualcosa per tirarmi su. Tornavo su, e poi ripiombavo giù. La vita mi risultava meno facile: quando il corpo è triste, il cuore langue. Mi sembrava di cominciare a disimparare quello che non avevo mai imparato e che pure sapevo così bene, cioè vivere. Sì, credo proprio che fu allora che tutto cominciò.
la creazione dell’attesa, il continuo annuncio di una svolta
Andavo avanti così, alla superficie della vita, nelle parole in un certo senso, mai nella realtà. Tutti quei libri a malapena letti, quegli amici a malapena amati, quelle città a malapena visitate, quelle donne a malapena possedute! Compivo gesti per noia, o per distrazione. Le persone venivano dietro, volevano agrapparsi, ma non c’era dove farlo, ed era una iattura. Per loro. Quando a me, dimenticavo. Mi sono sempre ricordato solo di me stesso.
nel periodo migliore comunque vive una condizione di precarietà emozionale, ininfluente, dimenticata, senza consapevolezza se non nella condanna di una superficialità cruenta elargita agli intellettuali: “tutti quei libri a malapena letti”
La verità è che qualunque uomo intelligente, lei lo sa meglio di me, sogna di essere un gangster e di dominare la società solo con la violenza.
la verità dell’indole criminale che regna nell’uomo
Scoprivo, quanto meno, che stavo dalla parte dei colpevoli, degli accusati, solo nella misura in cui il loro reato non mi procurava alcun danno. La loro colpevolezza mi rendeva eloquente poichè non ne ero vittima.
la differenza con chi subisce danni, ma lui no, non è mai una vittima
Avevo dei principi, certo, e per esempio che la moglie degli amici era sacra. Semplicemente, qualche giorno prima cessavo, in tutta sincerità, di essere amico dei mariti.
pure stronzo, ovviamente!
Solo con la morte gli uomini si convincono delle tue ragioni, della tua sincerità, e della gravità delle tue pene. Finché sei vivo il tuo caso è dubbio, ti meriti solo il loro scetticismo … Per non essere più un caso dubbio, devi semplicemente cessare di essere.
spiegare una possibile vittoria finale ma solo nella scomparsa materiale dell’essere umano
I martiri, caro amico, devono scegliere se essere dimenticati, scherniti o usati. Capìti mai.
quindi la scelta?
E poi, senza girarci tanto intorno, io amo la vita, è questa la mia vera debolezza. La amo al punto da non riuscire a immaginare altro. Una simile avidità ha qualcosa di plebeo, non trova? La nobiltà è impensabile senza un po’ di distacco rispetto a se stessi e alla propria vita. Uno muore, all’occorrenza, si spezza piuttosto che piegarsi. Io invece mi piego, perché continuo ad amarmi. Dopo tutto quello che le ho raccontato, infatti, cosa crede che abbia provato? Disgusto per me stesso? Ma no, erano soprattutto gli altri a disgustarmi.
Il giorno in cui me ne resi conto, scoprii la lucidità. Ricevetti tutte le ferite in una volta sola e persi di colpo le forze. L’universo intero prese allora a ridere intorno a me.
ma no nessuna scelta, nessun atto di coraggio, disprezzo per gli altri e amore per se stesso e la scoperta della derisione che cresce con la lucidità di divieto alla sincerità
Come potrebbe mai la sincerità essere una condizione dell’amicizia? Il gusto della verità a tutti i costi è una passione che non risparmia niente e a cui nulla resite. È un vizio, a volte una soluzione di comodo, o una forma di egoismo.
Ogni tanto, certo , provavo a prendere la vita sul serio. Ma coglievo ben presto tutta la frivolezza della serietà, e continuavo solo a recitare la mia parte, meglio che potevo. Recitavo la parte dell’uomo attivo, intelligente, virtuoso, civico, indignato, indulgente, solidale, retto… ero assente proprio nel momento in cui occupavo più spazio.
avanti e indietro il racconto è una continua attesa che incolla alle pagine, più la sua fama cresce, più l’intellettuale occupa spazio e più si sente assente
Finché un giorno esplosi. La mia prima reazione fu scomposta. Ero un bugiardo, va bene, e allora l’avrei rivelato gettando in faccia a tutti quegli imbecilli la mia doppiezza prima ancora che la scoprissero. Incalzato alla verità, avrei raccolto la sfida. Per prevenire il riso, immaginai quindi di darmi in pasto alla derisione generale. Si trattava ancora, insomma, di evitare il giudizio.
finalmente ci siamo ecco la verità
Ma la verità, amico caro, è una barba unica.
niente, ancora un rinvio, la cancellazione di un appuntamento per ritornare al punto di partenza, nascondersi nella perdizione
Persa ogni speranza nell’amore e nella castità, alla fine mi resi conto che per rimpiazzare l’amore c’era ancora la vita dissoluta, che mette a tacere le risate, riporta il silenzio e, soprattutto, regala l’immortalità.
Sì, morivo dalla voglia di essere immortale. Mi amavo troppo per non desiderare che il prezioso oggetto del mio amore non scomparisse mai. Visto che da svegli, per poco che ci conosciamo, non scorgiamo motivi validi per cui una scimmia lubrica sia concessa l’immortalità, occorre che qualche succedaneo di questa immortalità ce lo procuriamo noi. Siccome desideravo la vita eterna, andavo a letto con delle puttane e bevevo per notti intere.
L’alcol e le donne, devo ammetterlo, mi hanno fornito l’unico conforto di cui fossi degno. È un segreto che rivelo a lei, caro amico, e ne faccia pure uso. Si accorgerà allora che la vera dissolutezza è liberatoria poichè non crea alcun obbligo. Possiedi solo te stesso, motivo per cui è l’occupazione preferita di coloro che sono innamorati della propria persona.
A volte si vede più chiaro in colui che mente che non in colui che dice il vero. La verità, come la luce, acceca. La menzogna, invece, è un bel crepuscolo, che mette ogni oggetto in risalto.
Così. Secco. In filosofia come in politica, sono quindi favorevole ad ogni teoria che neghi all’uomo l’innocenza e a ogni pratica che lo tratti da colpevole. Lei ha di fronte, mio caro, un sostenitore illuminato della servitù.
Photo by Felix Mittermeier
eccolo il fuoco di difesa e dell’attacco, il vero peccato è la condanna, da condannare è solo la libertà dell’individuo che non può essere un diritto né una conquista, l’essere sociale và comandato
L’essenziale è che tutto diventi semplice, come per il bambino, che ogni gesto sia comandato, che il bene e il male siano designati in maniera arbitraria, cioè inequivocabile.
Ma sui ponti di Parigi ho scoperto di avere anch’io paura della libertà. Quindi viva il padrone, chiunque lui sia, per rimpiazzare la legge del cielo.
Vede, l’essenziale, insomma, è non essere più liberi e obbedire, nel pentimento, a qualcuno più furfante di te. Quando saremo tutti colpevoli, allora ci sarà la democrazia. Senza contare, amico mio, che dobbiamo vendicarci di morire soli.
La morte è solitaria, mentre la servitù è collettiva. Anche gli altri hanno la loro parte, insieme con noi, questa la cosa importante. Tutti riuniti, finalmente, ma in ginocchio, e con la testa china.
sul ponte di Parigi la nobile idea l’hanno suicidata, la scelta è la democrazia non la dittatura del proletariato
Disprezzato, perseguitato, costretto, posso dare il meglio di me, godere di ciò che sono, essere filamente me stesso. Ecco perché, carissimo, dopo aver solennemente accolto la libertà, decisi fra me che bisognava restituirla seduta stante a tutti.
... così diventa predicatore dentro la sua chiesa, il bar Mexico-City, un’anomalia geografica dentro l’operosa Amsterdam, “una capitale di acqua e di nebbie” lontano dalla dissoluta Parigi …
E ogni volta che posso predico nella mia chiesa del Mexico-City, invito il buon popolo a sottomettersi e ad aspirare umilmente agli agi della servitù, che io presento però come la vera libertà. Ma non sono pazzo, mi rendo conro che la schiavitù è di là da venire. Sarà uno dei vantaggi del futuro. Tutto qua.
Allora? Dirà lei. Ebbene, senta qual è il colpo di genio. Ho scoperto che, in attesa dell’avvento dei maestri e delle loro bacchette, per trionfare dovevamo rovesciare il ragionamento, come Copernico. Poiché non potevamo condannare gli altri senza nel contempo giudicare noi stessi, dovevamo infierire su di noi per avere il diritto di giudicare gli altri. Poichè prima o poi ogni giudice finisce penitente, dovevo imboccare il percorso inverso e fare mestiere di penitente per poter finire giudice. Mi segue? bene.
Ho aperto il mio studio in un bar del quartiere dei marinai. La clientela dei porti è molto eterogenea. I poveri non vanno nelle zone eleganti, mentre ha visto che nei luoghi malfamati la gente di rango almeno una volta ci capita. Io tengo d’occhio soprattutto il borghese, e il borghese che si è perso; con lui rendo il massimo. Da lui so trarre, come un vero virtuoso, gli accenti più raffinati.
qui rende evidente la sua platea, il nuovo popolo europeo, uscito dalla guerra e costruttore di un nuovo occidente… la costruzione di un carnevale infinito, una festa danzante e godereccia, servile, comandata! ai suoi detrattori offre lo specchio di ciò che grazie anche alla sua complicità stanno diventando, sordi alle atrocità che si ripetono
la sua “utile professione” è praticare ogni volta che è possibile una confessione pubblica, “Mi accuso in lungo e in largo” dice, tratteggio così un ritratto che è quello di tutti e di nessuno. Una maschera insomma, molto simile a quella di carnevale
Quando il ritratto è finito, come stasera, lo mostro, in preda al più totale sconforto: “Questo, ahimè, è quello che sono.” La requisitoria è conclusa. Intanto, però, il ritratto che porgo ai miei contemporanei diventa uno specchio.
Con il capo coperto di cenere, strappandomi lentamente i capelli, il volto graffiato, ma lo sguardo penetrante, mi ergo difronte all’umanità intera, ricapitolando le mie turpitudini, senza perdere di vista l’effetto che produco, e dicendo: “Ero l’ultimo degli ultimi.” Allor, insensibilmente, passo nel mio discorso dall’“io” al “noi”. Quando arrivo al “ecco che cosa siamo”, il gioco è fatto, posso dir loro la verità in faccia. Io sono come loro, certo, siamo tutti sulla stessa barca. Ma ho un privilegio, io, il fatto di saperlo, che dà il diritto di parlare.
Più mi accusi e più ho il diritto di giudicarla. Meglio ancora, la provoco e giudicarsi da sé, cosa che mi sgrava ulteriormente. Ah! mio caro, siamo strane, misere creature, e se solo guardiamo alle nostre vite, non ci mancheranno le occasioni per stupirci e scandalizzarci.
Ho accettato la duplicità anziché farmene un cruccio. Mi ci sono accomodato, semmai, e in essa ho trovato l’agio che ho cercato per tutta la vita. Sbagliavo, in fondo, a dirle che la cosa fondamentale era evitare il giudizio. La cosa fondamentale è potersi permetere tutto, anche proclamando talora a gran voce la propria indegnità. Mi permetto tutto, di nuovo, e questa volta sul serio. Non ho cambiato vita, continuo ad amare me stesso e a usare gli altri. Ammettendo però le mie colpe, però, posso ricominciare con più leggerezza e godere due volte, prima della mia natura, e poi di un pentimento squisito.
a me sembra chiaro, non ha cambiato un bel niente, la sua vita è la stessa di prima, anzi il pentimento è squisito, è l’annuncio dell’assurdo
Da quando ho trovato la soluzione mi abbandono a tutto, alle donne, all’orgoglio, alla noia, al risentimento, e anche alla febbre che con piacere ora sento salire. Finalmente regno, ma per sempre. Ho trovato un’altra vetta, dove sono l’unico ad arrampicarmi e da cui posso giudicare tutti. A volte, di tanto in tanto, quando la notte è proprio bella, sento una risata lontana e di nuovo sorgono i dubbi. Ma subito anniento tutto, creature e creazioni, sotto il peso della mia infermità, ed eccomi di nuovo in forma.
la sua scelta è compiuta, la risata si è affievolita, lui è in forma e sta scalando una nuova montagna, è predicatore, è chiesa, lavora ad un altro futuro come un dio
Che ebrezza sentirsi il Padreterno e distribuire patenti definitive di vita e costumi reprobi.
Sul volto smarrito, mezzo nascosto da una mano, leggo la tristezza della condizione comune, e la disperazione di non avere scampo, e io compatisco senza assolvere, capisco senza perdonare e soprattutto, ah, sento finalmente di essere adorato.
c’è chi lo ama, chi l’adora, il Nobel l’anno dopo sarà la conferma di quanto già sapeva
Photo by Justin Hamilton
Si, mi agito, come potrei starmene a letto tranquillo? Devo essere più in alto di lei, i pensieri mi sollevano. Quelle notti, o meglio quelle mattine, giacché la caduta avviene all’alba, esco, vado con passo rapido lungo i canali. Nel cielo livido gli strati di piume si diradano un po’, le colombe risalgono appena, un chiarore rosato annuncia, rasente i tetti, un nuovo giorno della mia creazione. Sul Damrak tintinna il campanello del primo tram, che nell’aria umida suona il risveglio della vita ai margini di questa Europa dove nello stesso momento centinaia di milioni di uomini,miei sudditi, si strappano a fatica dal letto, con la bocca amara, per andare verso un lavoro senza gioia. E in quel momento,mentre plano con il pensiero sopra tutto questo continente che senza saperlo mi è sottomesso, mentre bevo la luce d’assenzio che si leva, ubriaco infine di parole malvage sono felice, eccome se sono felice, glielo dico io, le proibisco di non credere ch’io sia felice, felice da morire! Oh! sole, spiagge, e isole battute dagli alisei, giovinezza il cui ricordo è straziante!
non una caduta quindi, ma certe notti all’alba cadute ripetute, sono i dubbi della coscienza, il ricordo straziante di una giovinezza combattuta con le armi in pugno, le armi delle parole che sono esercito
Alla fine, ogni volta arriva la rivelazione, il desiderio di essere arrestato, decapitato con la sua testa in mano al boia, mostrata al popolo riunito affinché tutti vi riconoscano e io di nuovo li domini, esemplare Ogni cosa sarebbe consumata, avrei concluso, come se niente fosse, la mia carriera di falso profeta che grida nel deserto e si rifiuta di uscirne.
Non siamo forse tutti simili, a parlare senza sosta a nessuno, a misurarci sempre con gli stessi interrogativi di cui peraltro conosciamo in anticipo le risposte? Allora mi racconti, la prego, cosa le è successo una sera sul lungo senna e come è riuscito a non mettere mai a repentaglio la sua vita. Pronunci lei stesso le parole che da anni non smettono di riecheggiare nelle mie notti, e che dirò finalmente attraverso la sua bocca: “O ragazza, buttati ancora nell’acqua perchè io abbia una seconda volta la possibilità di salvarci entrambi!”
allora la domanda è a me lettore: tu che non hai mai messo a repentaglio la tua vita, chiamato ad agire, che farai? Seguirai il falso profeta decapitato o allo specchio sceglierai di uscire dal deserto della tua anima e dissetarti alla fonte del raccontarsi?
Una seconda volta eh, che imprudenza! Supponga, caro avvocato, che ci prendano in parola? Ci toccherebbe agire. Brr…! L’acqua è così fredda! Ma possiamo star tranquilli! È troppo tardi, adesso sarà sempre troppo tardi. Per fortuna!
sarà sempre troppo tardi! o meglio, prima che sia troppo tardi, di sicuro! e allora penso che per Parigi quella bella ragazza gira ancora alla ricerca di un nobile cavaliere affamato di armoniosa dissolutezza capace di accompagnarla nella luce di un nuovo giorno.
Ringrazio chi mi ha consigliato questa lettura perché non ha idea del guaio che ha combinato 🙂 liberare una bestia non è mai una buona idea!
…il coraggio lo devo a lui. A Paul Auster devo il coraggio di aver osato pubblicare #ilTerzoLivello. Non credo di riuscire mai più a evadere dalla sua Trilogia di New York, sono imprigionato nei tre racconti che formano un unico romanzo: mi ha stravolto, allucinato, rapito per sempre. Non scherzo, lo confesso e pagherò tutto quello che c’è da pagare. La pistola è carica e pronta a sparare se il mio me stesso dovesse entrare da quella porta: non c’è scampo, non c’è via di fuga, non posso che ritornare indietro all’inizio delle indagini alla ricerca della città di vetro, dei fantasmi e di questa stanza chiusa. L’epilogo è l’inizio.
Certo, posso sbagliarmi. In quel momento non ero in condizione di leggere nulla, e forse il mio giudizio è alterato. Ero lì, scorrevo le parole con gli occhi, e stentavo a credere a quello che vedevo.
– Non puoi sapere cosa è vero o falso. Non lo saprai mai
– Chiamerò la polizia. Sfonderanno la porta e ti porteranno a forza all’ospedale.
– Al primo colpo contro la porta una pallottola mi trapasserà il cranio. Non puoi vincere, è inutile.
Quello che ha abbattuto ogni mia paura di pubblicare cose poco interessanti, o peggio scritte male e insulse, è stato il suo incipit nella Città di vetro:
”La questione è la storia in sé: che abbia significato o meno, non spetta alla storia spiegarlo.”
Cos’è il significato di un racconto, di una vita, di un momento, di un eterno pensiero, della nostra storia dentro la storia di tutti gli altri dentro di noi? Non spetta a chi scrive, spetta a chi legge …
“All’improvviso gliene veniva offerta l’opportunità e adesso, in strada, l’idea di quello che gli si prospettava si ingigantì come un incubo atroce. Pensò alla piccola bara che racchiudeva il corpo del figlio, a come l’aveva vista calare sotto terra il giorno del funerale. Quello era l’isolamento, disse fra sé. Quello era il silenzio. Forse non era un vantaggio che anche suo figlio si fosse chiamato Peter.”
– Veda, signor Quinn… il mondo è in frammenti. E il mio lavoro è ricomporli insieme.
– Be’, è un bell’impegno.
– Me ne rendo conto. Ma io cerco unicamente il principio. Questo è senz’altro alla portata di un uomo solo. Se riesco a porre le fondamenta, altre mani sapranno compiere la riedificazione vera e propria. L’importante è la premessa, il primo gradino teorico.
Perdersi nelle pagine di Paul è fin troppo facile ma non è smarrimento, è anzi un viaggio illuminato:
– Mentire è brutto. Ti fa pentire di essere nato. E non essere nati è una maledizione. Sei condannato a vivere fuori dal tempo. E quando vivi fuori dal tempo, non esistono il giorno e la notte. Non hai nemmeno la possibilità di morire.
– Capisco.
– Una bugia non si cancella mai. Nemmeno con la verità. Io sono un padre, e queste cose le so.
Non servono mappe del tesoro, non è la caccia all’isola che non c’è, è già il coraggio che abbiamo dentro di guardare fuori non per assistere ma per agire:
“Si chiedeva se sarebbe stato capace di scrivere senza penna, o se invece avrebbe imparato a parlare riempendo il buio con la voce, pronunciando le parole nell’aria, nei muri, nella città, anche se la luce non fosse tornata mai più.”
“Su Black, su White, sul lavoro che gli è stato affidato, ora Blue incominciava ad avanzare alcune ipotesi. Scopre che inventare storie, oltre a servirgli a far passare il tempo, può essere un piacere.”
“Pronunciare una condanna a morte era orribile, ma lavorare per un morto non sembrava molto meglio.”
“Amare le parole, investire una parte di sé in quello che è scritto, credere nel potere dei libri: tutto ciò sommerge il resto, e al confronto la propria vita individuale diventa insignificante.”
“Dentro le parole immaginiamo la vera vicenda, e a tal fine ci sostituiamo ai personaggi fingendoci capaci di comprenderli perché comprendiamo noi stessi. È una mistificazione. Noi esistiamo per noi stessi, forse, e talora cogliamo anche un barlume della nostra identità, ma alla fine non siamo mai sicuri, e col passare delle nostre vite diventiamo sempre più opachi al nostro sguardo, più consci della nostra disorganicità. Nessuno può sconfinare in un altro – per il semplice motivo che nessuno può accedere a se stesso.”
“Ora scoprii che quella stanza si trovava nel mio cervello.”
“La conclusione, tuttavia mi è chiara. Non l’ho dimenticata, ed è una fortuna che mi sia rimasta almeno quella. Tutta la storia si restringe al suo epilogo, e se ora quell’epilogo non l’avessi dentro di me, non avrei potuto iniziare questo libro. Lo stesso vale per i due che lo precedono, Città di vetro e Fantasmi. In sostanza, le tre storie sono una storia sola, ma ognuna rappresenta un diverso stadio della mia consapevolezza di essa. Non pretendo di aver risolto nessun problema. Voglio solo segnalare che venne un momento in cui guardare ciò che era successo cessò di spaventarmi. Se le parole seguirono, fu unicamente perché non avevo altra scelta che accettarle, addossarmele e andare dove mi portavano. È tanto tempo ormai che lotto per dire addio a qualcosa, ed è la lotta quello che veramente conta. La storia non è nelle parole: è nella lotta.”
Mancano ancora una ventina di pagine quando Paul firma la sua immortalità nel significato delle cose importanti dell’agire umano.
La storia non è nelle parole: è nella lotta!
ora sai perché #ilterzolivello è diventato un libro che vaga fuori dalla stanza, e per il piacere dei collezionisti, la traccia da seguire è l’incipit non più pubblicato:
Attendevo una telefonata importante che non arrivava mai. Le ossessioni iniziano all’improvviso, inaspettate. Mi tormenta un dolore tutto interiore, un dolore che si ripete e che non so spiegare. Con chiacchiere inutili e conversazioni necessarie, la storia che sto per raccontare potrebbe non avere senso. Paul direbbe che “la questione è la storia in sé: che abbia significato o meno, non spetta alla storia spiegarlo”.
piano piano leggerò anche David Foster Wallace, prima lo scherzo infinito e poi il re pallido … o prima il re pallido e poi Infinite Jest?
La mente funziona così, una gentilissima e colta lettrice mi dice: «Un po’ ti consiglierei di leggere Foster Wallace» e poi mi manda un pdf che divoro voracemente.
L’ultimo discorso di saluto per i nuovi laureati in un college americano di cui ho memoria è quello di Steeve Jobs, si proprio lui, quello di “siate affamati, siate folli!” – pazzia e fame, veramente un grande futuro! 🙂 calmi calmi, lo so’, anche Steeve come David, parlano di pensiero e lo fanno ancora, anzi lo faranno per sempre!
(ma visto che mi trovo, è interessante anche un’altra sua frase storica: “Non è compito dei consumatori sapere quello che vogliono.” quindi dei due chi è l’acqua santa e chi il diavolo?)
Prima di iniziare a leggere il pdf, vedo che è un discorso tradotto da Roberto Natalini e allora mi chiedo: «chi èRoberto Natalini?» Ah, la rete che meraviglia,Roberto Natalini è un accademico, e che accademico!
… condivido i primi 2 link che ho divorato … si fa per dire, gli sforzi degli esami di analisi matematica mi tornano ancora in gola 🙁 … ma la fascinazione no, quella non si controlla …
“Wallace considerava la Matematica come una delle più grandi imprese culturali dell’umanità ed era interessato, a un livello più profondo, alla Matematica come a un linguaggio capace di descrivere e trasmettere idee belle e difficili, una specie di serbatoio capace di fornire dei principi narrativi, a volte nascosti, per le sue narrazioni.”
nello scherzo infinito – “incontriamo delle situazioni narrative che corrispondono ai due infiniti di cui si è parlato sopra. Da una parte abbiamo la ripetizione infinita, a loop, il ripresentarsi continuo di gabbie in cui l’apparente porta di uscita conduce solo ad altre gabbie, il muoversi in modo circolare lungo curve chiuse: la dipendenza dalla droga e dall’alcool (i continui cicli di disintossicazione e di ricaduta), il sesso come esperienza vuota e straniante (uno dei personaggi maschili ha l’abitudine dopo il coito, che a lui non provoca nessun piacere, di tracciare compulsivamente con il dito il simbolo dell’infinito sul fianco nudo della ragazza con cui è appena stato), la ripetizione ossessiva della pratica sportiva nell’accademia di tennis, …” – “Leggendo Wallace sentiamo una voce nella nostra testa che parla, come se fosse un secondo ‘io’ più intelligente e linguisticamente onnisciente, che con noi costruisce un dialogo intenso e pieno di significato.”
ma veniamo all’acqua, potevo annegare ma invece mi sono dissetato …
Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?” I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “ma cosa diavolo è l’acqua?” … È straordinariamente difficile da fare, rimanere coscienti e consapevoli nel mondo adulto, in ogni momento. Questo vuol dire che anche un altro dei grandi luoghi comuni finisce per rivelarsi vero: la vostra educazione è realmente un lavoro che dura tutta la vita. E comincia ora.
Non è più tempo di riassunti, per comprendere il messaggio, il segno e l’augurio di David bisogna leggerlo … per me, prima che sia troppo tardi!
un commento alla nuova pubblicazione 2021 di Einaudi (prima edizione 2001)
Quando ho letto nella prefazione di Domenico Starnone:
‘De Silva forse deve qualcosa soltanto ai piccoli gangster ebrei di C’era una volta in America’
mi sono vergognato di non aver letto questo libro venti anni fa. Ho rimediato con voracità colmando una profonda lacuna che più di ogni altra cosa (è ovviamente un fatto personale di scarsissimo interesse collettivo), mi ha riaperto ferite che pensavo fossero completamente rimarginate. Questo fa la grande letteratura, non scade, non passa di moda, racconta sempre nel presente storie che non finiscono mai. Dall’antichità a oggi, l’uso dei minori nel lavoro che sfrutta gli umani non è affatto un un capitolo chiuso, quando poi è un lavoro sporco e criminale, che ammazza le persone su commissione, i sensi di colpa di appartenere ad una razza animale bastarda come quella umana sono insopportabili. Eppure senza la testimonianza, senza il racconto, senza la conoscenza viva e diretta della realtà ogni vita sarebbe menomata, incapace di scavare nel profondo dell’abisso per riconoscersi diverso e fortunato da chi nasce e cresce già condannato a seguire strade senza ritorno. La produzione e riproduzione della malvagità sono molto meno marginali di quanto si possa immaginare, forse anche solo sperare, ci cammina dentro tanto da rivelarsi in chi invece è chiamato e formato alla tutela della giustizia. È sempre colpa degli adulti e “certi bambini” lo sanno bene e solo per difendersi e sopravvivere devono emularli e prenderne il posto. Dove ci sono regole il più forte le infrange sebbene la sua umanità bollente di tenerezza e amore lo costringa a tormenti indefiniti, anche fisici, senza risposte adeguate.
“Il torpore sparì per qualche secondo e poi tornò peggio di prima, accompagnato da una sensazione di vuoto in mezzo alle cosce, proprio lì, dove teneva la sua ricchezza più importante.”
Rosario non è solo un certo bambino, un rappresentante di una categoria, Rosario è ogni bambino cresciuto in strada in ogni metropoli del mondo e con lui i suoi amici, la sua gente, e l’infamità del suo universo condannato all’inferno sulla terra, l’inferno delle gerarchie, dei deboli sopraffatti dai forti.
“Rosario va a uccidere con la testa piena di ordini e una specie di ignoranza. Sente tutta la responsabilità delle istruzioni ma non del risultato che verrà. Si è addestrato all’ubbidienza fino a sviluppare come un disinteresse per quello che dovrà succedere, fino a pensare all’uomo che ammazzerà come una conseguenza meccanica delle istruzioni, a un fatto, una cosa che lo riguarda solo in quanto prova morente dell’esecuzione.”
Rosario è ogni bambino soldato, arruolato e addomesticato da un esercito, istituzionale o meno non fa differenza, il degrado delle periferie o dei centri storici non fanno differenze, la chiave della svolta è il coraggio e non tutti sono come lui.
“Era così libero dal ricatto della paura, del pericolo, della vita, che il pensiero di morire non gli faceva più niente. Anzi, in un certo senso avvicinare la morte, andare verso di lei in una volta sola, con un atto unico, un sì o un no, la rendeva piccola.”
Che fine ha fatto Rosario? non è la domanda giusta, la domanda interessante è cosa sta facendo il Faraone? che Diego ringraziava allora come ringrazia ancora oggi dopo venti anni, con questa nuova e “miracolosa” ripubblicazione di un libro che bisogna leggere, assolutamente.
“Grazie a Gianfranco Marziano, perché gli devo molte delle cose raccontate in questa storia”
Oh la rete … cercando il Faraone ho trovato questo documentario Rai che non avevo mai visto (spero di essere l’unico) è una puntata di Torre d’Autore su Salerno con Amleto De Silva
In questa puntata di Terre d’autore, lo scrittore e umorista Amleto De Silva ci porta a Salerno, tra i luoghi della sua infanzia e personaggi popolarissimi che hanno contribuito alla sua formazione e alla creazione dei protagonisti del suo romanzo “L’esemplare vicenda di Augusto Germano Poncarè”. Un’occasione per scoprire una Salerno inedita, che sa stare al passo con i tempi pur con le contraddizioni tipiche della città di provincia, che De Silva coglie con senso dell’umorismo, rivelando un grande amore per la sua città.
“più ti vanno male le cose e più sei contento” 🙂 Amleto De Silva
“lì comincia il lungomare dei poveri, quello senza alberi” … si Amleto, proprio dove si cammina con il #ilterzolivello
Il Terzo Livello: ecco la revisione del 4 luglio 2021
così come pubblicato, questo romanzo è una pietra lavorata per incidere sull’evoluzione del presente. Un caso originale di narrazione mutante e divertente nonostante lo spessore a tratti seriosi dei temi trattati. Da leggere e farne discussione con nonni, genitori e figli.
Affrontare i conflitti aiuta a migliorare se stessi e chi vuoi bene.
Un romanzo fatto di legamenti e nodi di contrasto.
SINOSSI – riassunto minimo
A causa di una misteriosa convocazione da parte di un giovane maresciallo dei Carabinieri, Antonio Esposito si sveglia con un incubo da tempo non più ricorrente, è il conflitto padre figlio che ritorna, doloroso. La novità di una giornata diversa dal solito e i dubbi su una convocazione in una caserma militare, portano il protagonista a raccontarsi pensieri scombinati, del presente e del passato, riflessioni, domande e risposte che si accavallano nella sua mente durante il percorso che ha scelto per recarsi all’appuntamento con l’Arma. La passeggiata sul suo lungomare, della sua città, è breve ma percorre tutta la sua esistenza compresa quella dell’oggi come lavoratore e sindacalista, e come anomala spia del terzo livello: costruzione mentale del suo complotto interiore. In caserma, nell’incontro e scontro con il maresciallo Gradone, scoprirà un fatto incredibile che lo coinvolge suo malgrado ad affrontare la risoluzione del racconto che si svolgerà tra colpi di scena e strutture futuribili.
Il Terzo livello è un esperimento creativo di scrittura, essenzialmente un approdo precario, necessario all’autore che affronta in modo originale, un rapporto conflittuale padre figlio, attraverso le confessioni intime di una spia egocentrica, rendendo la storia campo di confronto con il lettore di ogni età. I tre livelli generazionali in cui il protagonista è figlio prima che genitore, si intrecciano con il racconto del suo personalissimo modello sociale a tre livelli, inglobando formazione e maturazione dell’essere con il frastuono incoerente di pensieri che fluiscono su piani paralleli, sospesi tra i rimorsi, necessità e desideri. Il racconto della sua presenza, da bambino, da adolescente, da sportivo, da studente e lavoratore, da spia e sindacalista, è una esplorazione agitata e frenetica, con flashback improvvisi, di relazioni e avvenimenti anche sconnessi tra loro ma che liberano il personaggio da sensi di colpa ingombranti.
Fatti di rilievo come il boom economico degli anni 50/60’, i complotti politici e la “Notte della Repubblica” fanno da collante storico in una esistenza che ha però una bella pretesa: Antonio Esposito è il protagonista della sua vita. Non è un romanzo giallo, ma ci sono le spie, i complotti, c’è il sarcasmo della vita quotidiana e di quella preoccupante di un maresciallo inquisitore. Fatti veri come nei, caratterizzano un racconto di fantasia, ideale ma non troppo. Poi c’è la città, simile alle mille cresciute nei millenni intorno ai porti della gente mediterranea: Salerno è la storia attraverso il luogo che non c’era, quello a sud del fiume Irno, quello che ha sostituito la vecchia zona industriale e commerciale controllata dalla Polveriera dei Borboni. Ci sono le fabbriche abbandonate come simbolo di conflitti dimenticati, il calcio e il tennis, un Macintosh, la radio libera, c’è la droga come in mille quartieri simili nelle mille metropoli del mondo, di ieri e di oggi.
Nell’era di Twitter e di post lampo che scorrono veloci su Facebook, il tempo di leggere storie è limitato, ma il bisogno di consumare e condividere la propria presenza è dominante. Le battute discontinue dei dialoghi, o i monologhi, e la mancanza descrittiva dell’atmosfera dei fatti che accadono intorno ai pochi personaggi che animano la storia, sono scelte che rompono gli schemi essenziali di un romanzo, nel tentativo di crearne una costruzione sceneggiata con strumenti elementari di pseudo poesia per immagini, proprio come avviene sui social, come è però, impossibile da immaginare dentro la reclusione soffocante della pandemia. Il mare come proprietà e come bisogno rende bene l’idea della fuga dalle paure più intime, e così anche il “runner illegale” che corre per la libertà, diventa una scena che non ha bisogno di descrizione.
In piena pandemia 2020, Antonio Esposito brucia i ricordi di una vita che dura il tempo di una passeggiata sul suo lungomare, una andata e un ritorno con sorprese e colpi di scena, con accanto e sullo sfondo la Divina costiera. L’ovvietà di un’impresa paradossale si aggrappa ad una tensione che resta latente fino all’epilogo finale che viene rimandato, pagina dopo pagina per un epilogo che è da scoprire anche se non c’è un cadavere, un delitto: in gioco ci sono le relazioni umane primordiali che prima del sangue chiedono il ragionamento per poi tornare al principio, per poi ripartire. Il bisogno di comunicare è nel DNA di ognuno ma il bisogno di scrivere per lasciare un segno è precedente. Questa genesi ha bisogno di un approdo definitivo, è una sfida lanciata nella rete globale della comunicazione che spetta al lettore raccogliere per navigare sé stessi…
Pornografia dei sentimenti. Quando lo senti in una presentazione dall’autore non ha lo stesso effetto di quanto lo vedi leggendo le sue pagine. Quando poi nelle sue pagine ho trovato l’ardua impresa di fare la rivoluzione con la Poesia per distruggere la “Grande Fabbrica della Merda”, una vertigine fortissima mi ha tramortito. Combattere l’impossibile con la forza e la bellezza della gentilezza, dell’insegnamento, della scoperta, della persuasione, delle visioni dell’arte, è il sogno che diventa realtà. L’eterno mito della lotta del debole che combatte il forte, è messo in scena con la maestria delle parole, in una storia che mi ha acchiappato con frenesia, e mi ha fatto fare il tifo per i cattivi, i delinquenti che rapiscono, sequestrano, poi corrompono l’anima, reclutando la protagonista e il lettore che segue una vicenda appassionante nella sua assurdità, mirabile iperbole della società in cui galleggiamo giorno per giorno.
“Comunicare le proprie ossessioni è bellissimo”
lo dice l’autore in un’intervista e in questo libro si respirano intense le nostre nevrosi quotidiane di consumatori di miserie umane sia quelle nella ricchezza che quelle, nella povertà dell’esistenza.
La rivincita, il progetto, il piano e la sfida al colosso, al paese intero:
“Senza contare che questo prendersi un’ora di diretta in prima serata sa tanto di riappropriazione dei mezzi di produzione”.
Lo dice l’autore, “le differenze di classe sono diventate differenze antropologiche” e quindi si capisce che la scommessa è anche storica:
“… da tutta quella finzione che diventa più vera del vero, iperrealismo, storie addomesticate. Sanno come funziona l’imbroglio televisivo nel più minuscolo dettaglio, ma ne restano comunque stupiti, è un superpotere.”
Per concludere, un’ultima citazione da questo bel libro che vale tutto il tempo che mi ha preso:
“C’è il piccolo sciacallaggio della politica, c’è dispiacere sincero, c’è uno smottamento emotivo. C’è un paese che aspetta. C’è tutto.”
È audace ma con la Poesia si può fare la rivoluzione, anche svegliarsi il giorno dopo è la rivoluzione che non aspetta chi si ferma solo a guardare.
Per festeggiare san Pietro & san Paolo condivido l’ultimo mio esercizio di scrittura del gruppo FB Scrittori e Scrittrici emergenti (SESE).
traccia: scena finale del film “Via col vento” – lunghezza 20 righe
Stiamo chiudendo, finalmente è venerdì, sarei già scappato ma oggi devo fermarmi, gli voglio parlare: «Jenny, hai un minuto per me?»
«Che ci fai ancora qui? siamo a metà mese!» – è sorpresa di vedermi sull’uscio del suo ufficio sempre aperto, nella sua voce la meraviglia diventa curiosità materna: «bellino, tu non me la conti giusta, ti ho osservato tutta la settimana, ancora problemi con la piccola? come sta?» – l’ufficio è quello di una segretaria ma la sua funzione va oltre, Ginevra si preoccupa di tutti ma lo fa con discrezione, mi ha salvato il culo un sacco di volte, sa della malattia di Desy, sa dei casini con la mamma, sa tante cose di me, ci vogliamo bene, è una grande compagna di lavoro, lei sa come mi butterei nel fuoco per lei.
«No Jenny, lei sta bene, te l’avrei detto, sta recuperando alla grande, ha ripreso anche a camminare» Ginevra in questo luogo triste è sprecata, fa tre lavori e a stento quell’amorale di principale gliene paga uno, in una ditta più grande, una seria, una bella, sarebbe la manager del personale, altro che segretaria.
«Ok e allora che ti serve? dai sbrigati devo chiudere i conti, dai si può sapere che vuoi?» – è incredibile come dopo una giornata di lavoro, un venerdì infernale come oggi, lei sia sempre così perfetta, efficiente e sexy da morire: «niente lavoro con lui questo fine settimana?» – prendo tempo perché quello che le devo dire non le piacerà.
«Giovanotto! non sono cazzi tuoi, o entri ti siedi e mi racconti cosa succede o te ne vai di corsa a quel paese, deciditi!» – non funziona, lo sapevo.
«Jenny gli voglio parlare, ne ho bisogno, tu intanto non chiudere ancora la cassa» apriti cielo, Ginevra si incazza di brutto.
«Adesso? a quest’ora? sei un cazzone, va, va, adesso lo sento» – non mi muovo, le sventolo tre bollette scadute che devo pagare con urgenza, lei prende il telefono, lo chiama, confabula agitandosi a gesti verso di me, posa la cornetta, si alza in piedi, mi raggiunge all’orecchio e mi sussurra: «lui ha detto che francamente se ne infischia, io ti dico tra due ore al solito posto poi domani, se ti va penseremo ad un altro giorno».
auguri a tutti/e Pietro, Piera, Pedra, Pierrette, Pétronille, Paolo e Paola del mondo: salute e serenità a festeggianti e festeggiatiper oggi e per tutti gli anni a venire.
Édouard Louis ha vinto il PREMIO SALERNO LIBRO D’EUROPA 2021
Anche con il mio voto ha vinto un piccolo grande libro che merita di essere studiato nelle scuole primarie.
“Non accetto che vengano dimenticati. Voglio che siano conosciuti ora e per sempre, ovunque, in Laos, in Siberia e in Cina, in Congo, in america, ovunque da una sponda all’altra degli oceani, in ogni continente, al di là di tutte le frontiere.”
“Non c’è fierezza senza vergogna: eri fiero di non essere un fannullone perché temevi di essere uno di quelli da designare con questa parola. Il termine fannullone è una minaccia per te, un’umiliazione. Questo tipo di umiliazione venute dai dominanti ti fanno chinare la schiena ancora di più.”
“Sei cambiato da un giorno all’altro, uno dei miei amici dice che sono i figli che trasformeranno i genitori e non il contrario.”
Tempi eccitanti di Naoise Dolan, Atlantide edizioni (Irlanda)
Chi ha ucciso mio padre di Édouard Louis, Bompiani ( Francia)
Il mare è rotondo di Elvis Malaj, Rizzoli (Albania/Italia)
finalisti premio salerno
Tenersi tutto dentro non è mai una buona idea, anche esternare tutto non è proprio salutare: si commettono errori ma solo sbagliando si impara, e prenderne coscienza non sarà mai troppo tardi o forse no? Forse non è mai un luogo comune. Questi tre finalisti del “Premio Salerno Libro d’Europa” ne sono la conferma, abbiamo bisogno di letteratura giovane, fresca, europea per sentirci più europei, per scoprire a fondo le terre e i popoli dell’Europa per desiderarci meglio come cittadini di un mondo senza barriere, frontiere, muri o recinti escludenti. Per scoprirci e desiderarci dobbiamo scavare nelle nostre crepe, fratture sociali, politiche e psicologiche, le storie che eravamo, le storie che siamo e quelle che vivremo. Il personale e la comunità sono temi ampiamente esplorati da questi meravigliosi finalisti e quindi complimenti agli organizzatori, ideatori, progettisti, curatori, accademici, etc … (e finanziatori perché no!) del Salerno Letteratura Festival. Di letteratura, di cultura non ce ne sarà mai abbastanza! È la solita congiunzione astrale, misteriosa convergenza degli eventi, magnifica opportunità della scoperta: tre libri fantastici in cui 2 belle storie, importanti, e un capolavoro, hanno segnato con forza le mie ultime settimane di normale quotidianità illuminata con la luce intensa di scritture brillanti.
“Non c’è fierezza senza vergogna: eri fiero di non essere un fannullone perché temevi di essere uno di quelli da designare con questa parola. Il termine fannullone è una minaccia per te, un’umiliazione. Questo tipo di umiliazione venute dai dominanti ti fanno chinare la schiena ancora di più.”
“Non accetto che vengano dimenticati. Voglio che siano conosciuti ora e per sempre, ovunque, in Laos, in Siberia e in Cina, in Congo, in America, ovunque da una sponda all’altra degli oceani, in ogni continente, al di là di tutte le frontiere.”
Ecco, anche grande letteratura che grida dall’Europa per tutto il mondo, per per tutte le terre abitate da anime umane, per tutti i popoli della Terra, per oggi e per il futuro.
“Sei cambiato da un giorno all’altro, uno dei miei amici dice che sono i figli che trasformeranno i genitori e non il contrario.”
“Non riuscivo mai a capire se anche le altre persone avevano fantasie altrettanto vivide rispetto alle mie, e facevano solo tutti finta di non essere così.”
Ecco, anche grande letteratura che entra con prepotenza nella sfera intima di figli e genitori, maschi e femmine, amanti e amati. Sono tre libri da leggere e far leggere di e per giovani chiamati a vivere un futuro geneticamente e moralmente più lungo di chi ha più anni, capelli bianchi e rughe, ormai già in cassaforte.
“Mi piaceva stare per conto mio, mi dava modo di pensare. E poi c’era il treno dei pendolari all’ora di punta per sentirmi in compagnia. Mi sistemavo sotto l’ascella di un uomo, sentivo la borchia della borsa di una donna che mi affondava nella pelle e pensavo: sono parte di qualcosa.”
Ovviamente non racconterò il mio voto ma chi ha già letto questi tre titoli o li leggerà nel prossimo futuro, comprenderà bene quale sia per me il vincitore. Essere un giurato accettato a valutare letteratura è un privilegio impagabile nonché un onore che da entusiasmo al lavoro di massa più bello del mondo, quello che secondo me dovrebbe essere il più diffuso, il meglio pagato, il più retribuito di tutti: leggere.
“Irena osservava divertita il disordine che si lasciavano alle spalle.”
… lo so, è il disgustoso egocentrismo di un fantasma che tenta di stabilire contatti con la realtà del passato, ma i complimenti e gli incoraggiamenti di chi ha letto il #ilterzolivello mi rendono ancora più incosciente
questo video, troppo lento, troppo grezzo e troppo lungo, contiene i tre salti generazionali di ognuno, i salti della città che non c’era, come in ogni porto del mar Mediterraneo, quartiere di una metropoli diffusa del nostro XXI secolo, come sulle sponde di ogni mare del mondo globalizzato, perché
“Pè mare nun ce stanno taverne” diceva papà!
… le oltre 500 visualizzazioni uniche, ridono ancora con me, come quel moccioso in braccio alla madre fiera del suo monello, genitrice e sguardo severo, di sfida, immortale anima senza tempo …
Hello, goodbye, edito da Baldini+Castoldi nel 2021, è un evento formativo di grande spessore narrativo, almeno per me, giovane lettore con pochi capelli imbiancati che sopravvivono.
Claudio è un insegnante e con questa opera dimostra come essere maestri sia una vocazione fondamentale, una piacevole scoperta per un affamato di racconti, quale sono io in queste ultime settimane.
La storia raccontata è avvincente, coinvolge e tiene incollati alle pagine come un ottimo noir deve fare e come illustri recensioni continueranno a confermare.
La cosa che fa un maestro è affascinare, è aprire domande alimentando nuove curiosità ignorate, far vibrare corde ferme capaci di riempire vuoti inesplorati. Il libro che sta leggendo il protagonista Angelo è una carabina di precisione che nella notte buia alimenta il coraggio di prendere decisioni e di agire:
“Conoscerai un grande dolore e nel dolore sarai felice. Eccoti il mio insegnamento: nel dolore cerca la felicità.”
Un fucile sulle spalle, non per sparare ma portato a tracolla come compagno fedele che dà sicurezza e coraggio.
Quindi leggere e rileggere Fëdor Michajlovič Dostoevskij come un bisogno, come una necessità, arriva al lettore richiamandolo a pulsioni che una volta innescate, non si fermano più.
Questo fa un maestro, innesca desideri oltre le visioni:
“Avrei voluto essere altrove, come mi capitava sempre, qualsiasi cosa stessi facendo e dovunque mi trovassi. A meno che non fossi immerso in un libro. Solo la lettura aveva la capacità di trascinarmi via da tutto, lontano da me stesso. Ma era una parte di me a pensarla così, l’altra era consumata dal fuoco delle mie ossessioni, …”.
Allo stesso tempo, nel tempo della storia le tracce del racconto non permettono distrazioni, perché le tracce dell’autore fanno presa, sono cemento rapido:
“Stamattina, sulla spiaggia, pensavo a come in fondo le storie si assomiglino tutte. Se si gratta la scorza, ecco che compare una bella sofferenza, un male fresco o una tragedia antica che torna sempre a galla, c’è in ognuno qualcosa che gli dilania la vita e che in qualche modo ne dirige i comportamenti.”
I personaggi vivono intensamente nelle pagine di Grattacaso, le poche tracce e appuntamenti che cito sono da scoprire, da divorare con furia:
“Ci si adatta a tutto. Ai soprusi, a un’esistenza piatta, a giornate fatte di incomprensioni, a lavori mortificanti. A tutto, ma non ai tradimenti, glielo assicuro.”
I personaggi di Claudio vibrano con ardore:
“Mi baciò. Sentii la sua lingua fondersi con la mia, e mi sembrò di sciogliermi, ero una candela di cera e Zena il fuoco che mi consumava.”
La scommessa non è mai vinta veramente, vince sempre il rilancio, per scalare le montagne bisogna scavare la terra e allora si capisce meglio l’abisso e la redenzione che c’è in “Hello, goodbye” con altre parole di Dostoevskij che, il giorno dopo, ho desiderato scoprire in altri libri:
“Che cosa è la madre di Dio secondo te?”
“La gran madre – rispondo – è la speranza del genere umano”.
“Sì – dice – la madre di Dio è la gran madre umida terra e in ciò è racchiusa una gran gioia per l’uomo. E ogni angoscia terrena e ogni lacrima terrena è gioia per noi e quando avrai imbevuto con le tue lacrime la terra sotto di te fino a un mezzo arsin di profondità, allora subito ti rallegrerai per tutto. E non avrai più nessuna – mi dice – sventura, tale – mi dice – è la profezia”.
Per quanti riti possiamo immaginare le profezie assolute vorticano nell’aria e quando vicino c’è l’acqua del mare e quello della pioggia insieme, l’atmosfera non è solo scena è essa stessa disperazione che alimenta l’istinto alla sopravvivenza prima che alla felicità.
Un grande scoperta e riscoperta che devo tutto a questo grande autore che mi vergogno a dire non conoscevo, questo fa un maestro, con l’esempio apre le tante porte delle case della conoscenza, detto con le parole di Fëdor è così:
“Non vi auguro troppa felicità, vi verrebbe a noia; non vi auguro nemmeno del male, ma secondo la filosofia popolare vi ripeto semplicemente «Vivete quanto più potete» e cercate in qualche modo di non annoiarvi troppo; questo vano augurio lo aggiungo da parte mia. Be’, addio, addio sul serio. Ma non restate vicino alla mia porta, non aprirò.
”Hello, goodbye inizia così:
“La rossa aveva chiesto di me.”
L’attesa è subito insopportabile: non esiste un maschio o una femmina che non abbia una rossa nel cuore.
Tenersi tutto dentro non è mai una buona idea, anche esternare tutto non è proprio salutare: si commettono errori ma solo sbagliando si impara, e prenderne coscienza non sarà mai troppo tardi o forse no? Forse non è mai un luogo comune. Questi tre finalisti del “Premio Salerno Libro d’Europa” ne sono la conferma, abbiamo bisogno di letteratura giovane, fresca, europea per sentirci più europei, per scoprire a fondo le terre e i popoli dell’Europa per desiderarci meglio come cittadini di un mondo senza barriere, frontiere, muri o recinti escludenti. Per scoprirci e desiderarci dobbiamo scavare nelle nostre crepe, fratture sociali, politiche e psicologiche, le storie che eravamo, le storie che siamo e quelle che vivremo. Il personale e la comunità sono temi ampiamente esplorati da questi meravigliosi finalisti e quindi complimenti agli organizzatori, ideatori, progettisti, curatori, accademici, etc … (e finanziatori perché no!) del Salerno Letteratura Festival. Di letteratura, di cultura non ce ne sarà mai abbastanza! È la solita congiunzione astrale, misteriosa convergenza degli eventi, magnifica opportunità della scoperta: tre libri fantastici in cui 2 belle storie, importanti, e un capolavoro, hanno segnato con forza le mie ultime settimane di normale quotidianità illuminata con la luce intensa di scritture brillanti.
“Non c’è fierezza senza vergogna: eri fiero di non essere un fannullone perché temevi di essere uno di quelli da designare con questa parola. Il termine fannullone è una minaccia per te, un’umiliazione. Questo tipo di umiliazione venute dai dominanti ti fanno chinare la schiena ancora di più.”
“Non accetto che vengano dimenticati. Voglio che siano conosciuti ora e per sempre, ovunque, in Laos, in Siberia e in Cina, in Congo, in america, ovunque da una sponda all’altra degli oceani, in ogni continente, al di là di tutte le frontiere.”
Ecco, anche grande letteratura che grida dall’Europa per tutto il mondo, per per tutte le terre abitate da anime umane, per tutti i popoli della Terra, per oggi e per il futuro.
“Sei cambiato da un giorno all’altro, uno dei miei amici dice che sono i figli che trasformeranno i genitori e non il contrario.”
“Non riuscivo mai a capire se anche le altre persone avevano fantasie altrettanto vivide rispetto alle mie, e facevano solo tutti finta di non essere così.”
Ecco, anche grande letteratura che entra con prepotenza nella sfera intima di figli e genitori, maschi e femmine, amanti e amati. Sono tre libri da leggere e far leggere di e per giovani chiamati a vivere un futuro geneticamente e moralmente più lungo di chi ha più anni, capelli bianchi e rughe, ormai già in cassaforte.
“Mi piaceva stare per conto mio, mi dava modo di pensare. E poi c’era il treno dei pendolari all’ora di punta per sentirmi in compagnia. Mi sistemavo sotto l’ascella di un uomo, sentivo la borchia della borsa di una donna che mi affondava nella pelle e pensavo: sono parte di qualcosa.”
Ovviamente non racconterò il mio voto ma chi ha già letto questi tre titoli o li leggerà nel prossimo futuro, comprenderà bene quale sia per me il vincitore. Essere un giurato accettato a valutare letteratura è un privilegio impagabile nonché un onore che da entusiasmo al lavoro di massa più bello del mondo, quello che secondo me dovrebbe essere il più diffuso, il meglio pagato, il più retribuito di tutti: leggere.
“Irena osservava divertita il disordine che si lasciavano alle spalle.”
Classico? Che abuso se ne fa di questa parola. Classico nel senso di appartenente alla classe? Nel senso di evergreen? Nel senso di raffinato? Nel senso di normale? Per carità la normalità no.
La normalità è una media. Siamo tutti delle divergenze che non si possono mediare.
Veronica Roth ne ha fatto una saga di successo. Mi sono piaciuti anche i film, anche se nei libri avevo vissuto altre storie e i personaggi che ho immaginato erano diversi. Punto, è la solita storia, difficilmente un film rende merito ad un grande romanzo stampato su carta.
Ho rinviato in continuazione il finale, leggevo e rileggevo scene e stati d’animo che segnano d’emozione una giornata qualsiasi.
#nerolucano di Piera Carlomagno non è un semplice giallo noir avvincente, è un capolavoro di romanzo che mi ha scorticato dentro.
“Intraprese il cammino tra stradine e scalinate, strette e ombrose come le crepe dell’animo, per arrivare a via Madonna delle Virtù.” […]
«Che noia» scherzò lui. «Sei su un prato ben pettinato. Immagina invece la foresta.»
Non ho parole adeguate al momento per descrivere quanto mi sia piaciuto, tanto? tantissimo? sono parole riduttive. Adesso devo sapere come è nata Viola, non mi resta che scoprirlo dentro “Una favolosa estate di morte”.
Durante la corsa mattutina, avevo notato al Grand Hotel di Salerno, l’apparato viaggiante di uno staff cinematografico di alto livello, il camper della sartoria, quello degli attori, etc. Come mi ha confermato un brillante giovanotto che, al sole di giugno, ha soddisfatto la domanda di un runner sudato e curioso: “stanno girando Malinconico di Diego De Silva, una fiction per RAIUNO”.
Ho conosciuto Diego molto prima del suo “Non avevo capito niente” che mi era piaciuto tantissimo (…e vedi tu, nel 2007 Premio Napoli e finalista al premio Strega). Quando ci lasciammo, ricordo che era molto incazxxxx con me. Questo non è ovviamente interessante. Ricordo i primi iMac colorati del fantasmagorico ritorno di Steve Jobs alla Apple, archeologia tecnologica oggi ma da sempre scelta distintiva di un artista o di un professionista.
Veniamo a oggi. Stanno girando al tribunale ma non ho chiesto se nel nuovo o nel vecchio tribunale, comunque, l’idea di vedere Malinconico nell’esercizio delle sue funzioni è desiderio puro. Non ho resistito a ritrovare tra le mie cose “Mia suocera beve”, edito da Giulio Einaudi nel 2010, ne avevo un ricordo lucido di ammirazione. Devo ritrovare gli altri ma oggi questo mi basta e avanza:
«Se c’è una cosa che non bisognerebbe assolutamente fare quando una storia d’amore comincia ad annuvolarsi, è chiedere alla propria donna cosa c’è che non va»
ed infatti dall’incipit al racconto “Quando ti svegli e capisci d’essere morto nel sonno” pag.294, racconto comparso sulla rivista Rolling Stone nel febbraio 2008, dall’inizio alla fine dunque, per me è stato più di una conferma nel lontano 2010, Malinconico mi è sempre piaciuto anche se spesso e volentieri fa e dice cose che non avrei mai il coraggio o la crudeltà di fare o dire.
“Io, quando polemizzo via sms, non faccio che pestare merde. E avendone pestate per iscritto, mi rimangono come prova documentale a carico.”
Oggi facebook o whatsApp è lo stesso, Malinconico è avanti a tutto e a tutti, come avvocato semi disoccupato, semi divorziato semi felice e come filosofo autodidatta ed involontario. Non è l’eroe men che meno il super eroe, non è nemmeno lo sfigato che vuole raccontarsi, è un personaggio next già nel futuro e quindi comprendo bene come sia possibile che la letteratura di De Silva possa approdare al cinema ai giorni nostri per riempire un vuoto di modelli e di insegnamenti a “vivere” nella complessità di una società che decennio dopo decennio, non migliora anzi decade nello sfruttamento della precarietà anche culturale.
Avere in carne ed ossa Malinconico come amico nella difesa dei propri problemi, fosse anche come avvocato d’ufficio, è salvarsi il culo dalle sconfitte e dalle cadute, dal dileggio e dalla vergogna, Malinconico è un salvatore concreto e materiale eternamente in fuga ma facilmente consultabile nelle pagine di Diego:
“… com’è curioso che uno che si sente guasto nel profondo possa ancora valere l’amore di qualcuno”.
Non mi sembra vero Malinconico è qui a Salerno, nell’antico o nel nuovo tribunale futurista della città d’Europa, non è importante, sono felice che finalmente sia uscito dalle pagine di vari libri e vaghi, tormentato, ovviamente, per strade della mia città tornata in serie A, un quartiere occidentale della metropoli diffusa che bagna il Mediterraneo come dice un’altra persona che ammiro, un professore dell’università.
Sarà uno spasso, se non lo conoscete, leggetelo, Malinconico è uno spasso che aiuta a campare con un sorriso.
La serie Malinconico di Diego De Silva: Non avevo capito niente (2007), Mia suocera beve (2010), Sono contrario alle emozioni (2011), Divorziare con stile (2017), I valori che contano – avrei preferito non scoprirli – (2020).
Tenersi tutto dentro non è mai una buona idea, anche esternare tutto non è proprio salutare, si commettono errori specie come dice Malinconico di Diego De Silva, per iscritto: sono prove a carico, spesso di aiuto all’accusa, non certo alla difesa ma rileggendo oggi questo post su “Le notti della macumba” di Piera Carlomagno, la sua prima opera dopo averne letto l’ultima, #nerolucano, con un salto temporale di ben dieci anni, avverto la necessità di riflettere ad alta voce: le montagne si scalano e da ogni vetta raggiunta si vede la prossima, una montagna più alta, più luminosa e difficile da raggiungere, si sente il brivido del desiderio di quello che non basta mai.
Non parlo del successo ma della soddisfazione data a se stessi nella realizzazione della propria opera, il sacrificio, la ricerca, lo studio, il lavoro vero, l’arrampicata a mani nude dello scalatore che respira roccia nuda o ghiaccio friabile, sempre in carenza di ossigeno. Benedico il giorno in cui il coraggio di osare mi ha lanciato su una vetta oggi alla portata di tutti, l’auto pubblicazione, pubblicare un libro, non tanto per la rovinosa caduta (ma anche quella, gioiosa come la discesa di una montagna russa) ma per il desiderio nato che si è fatto nascita ed epifania, il desiderio della lettura, senza il quale ogni tentativo di scrittura è solo esercizio estetico, molto social forse, molto distratto senza passione, solo un esercizio di se e non degli altri con le loro storie non raccontate. Questa la ragione di questo mio primo post da “nuovo lettore” di cui avvertivo l’urgenza ma mi sfuggiva l’essenza. Quindi allora, anche se solo di pochi giorni fa si tratta, sulla mia pagina condividevo solo ciò che un amministratore di un gruppo importante come quello di Rai Cultura, aveva autorizzato, rendendolo degno di essere letto. Mi hanno pubblicato è questa la differenza, l’eterno desiderio di essere accettati, l’eterno infantile, forse, eterno per quanto possa durare una vita a sangue caldo.
Ho la mia pietra grezza da curare #ilterzolivello, ma mi dicono che devo passare oltre, si vedrà ma questo non è l’importante, sarà necessario se scocca dentro la scintilla, l’importante è il fuoco dell’anima che va curato e mantenuto, la lettura vera e approfondita, perché la differenza che esiste tra la prima e l’ultima opera di Piera, testimonia la scalata, la crescita, la formazione, l’evoluzione, l’eccellenza di cui oggi sono ammirato, una fortuna, una sorpresa che ad altri è negata perché l’hanno vissuta giorno dopo giorno, anno dopo anno, una sorpresa improvvisa immensa per me perché io (fortunato?) l’ho vista tutta in una volta, una sorpresa improvvisa immensa come quella sui cui ci invita a riflettere Eduardo in “Napoli Milionaria”, che, in una sola volta, ha visto le fortune economiche della borsa nera che hanno fatto ricca una moglie diversa da quella lasciata, andando in guerra.
“A te t’hanno fatto impressione pecché ll’he’ viste a ppoco ‘a vota” […] A me, vedenno tutta sta quantità ‘e carte ‘e mille lire me pare nu scherzo, me pare na pazzia…”
ecco, uno scherzo, una pazzia definire una “scrittura” la mia, un oblio perché non si tratta di me, non si tratta di “‘e ccarte ‘e mille lire… ” si tratta della tanta vita che la lettura ci fa vivere con le parole, le frasi e le pagine che rapiscono. Quindi, per tutto quanto scritto, a futura memoria, confermo:«ne voglio ancora!»
ps. come non ringraziare Marco Peluso che (io leggendo lui) mi ha fatto sentire a mio agio e assolutamente contento e consapevole di stare comodo in fondo al burrone, esso stesso montagna da scalare prima di arrivare alla roccia vera da comprendere, o come adesso mi viene in mente, nell’acqua del mare, dentro, come prima, molto prima degli esseri preistorici che emersero per respirare l’aria abbandonando branchie seccarsi al sole… grazie ragazzi … e ragazze (se no mi gioco il genere preferito) ho voglia di tornare a via Pal, lasciata troppo in fretta troppi decenni fa …
Questa prima opera di Piera Carlomagno è il mio nuovo inizio da lettore ma ogni nuovo inizio è ovviamente una contraddizione di termini se non un reset di sistema. Lo so, in questo nostro mondo moderno (?), dove l’unica forma di difesa è l’etichetta, salvo poi scoprire che non esiste chi certifica il certificatore (sul cibo dovrebbe essere dichiarato delitto all’umanità), la prima etichetta che mi stamperanno in fronte sarà: “sei strumentale”.
Il marketing, la PNL, il commercio, l’economia sono aree scientifiche sempre più subdole e invasive della sfera privata di ogni essere vagante a sangue caldo; la pubblicità è l’anima dell’apprendista diavolo, il diavolo vero non si affida alle “macumbe”, ti ruba l’anima e basta.
La penultima copia disponibile sulla piattaforma della multinazionale, libro ora nelle mie mani, è una stampa del 2012 fatta per conto delle Edizioni Cento Autori dalla Tipografia Stampa Editoriale Srl di Avellino, è un giallo, credo il primo di Piera, è un giallo intrigante e scritto benissimo sebbene “sembra” essere un’opera prima (non ci credo…), strutturalmente coerente, è una storia che mi ha catturato, mi ha trascinato fino alla risoluzione finale che collega tutto il racconto alla scomparsa di una bella, giovane, intelligente prostituta; è una storia liberamente ispirata da un delitto vero, a Salerno, a pochi passi da dove sono cresciuto, dove vivo ancora, ma che non ricordavo o che la mia memoria aveva rimosso.
La verità è che pur vivendo negli stessi luoghi, vivevo altrove ma questa è un’altra storia che in questo contesto non c’entra una mazza. L’incipit è per me strepitoso:
“Mi restano sei mesi di vita. Il dottore me lo ha detto facendo sciogliere un’aspirina in un bicchiere d’acqua: «Tra breve questa non servirà più a niente» mi ha sussurrato sorridendo «Ci vorrà ben altro per i suoi mal di testa» Sembrerà strano, ma il mio primo pensiero non è stato di disperazione. “Ho tempo a sufficienza” mi sono detto.
Salerno, martedì 18 aprile 1995, ore 10:00
«Avvoca‘, è sentenza passata in giudicato. Lo sapete gli atti sono alla torre di via Campo.”
L’avvocato Federico Rizzi, il commissario Baricco e la giornalista Annaluce, i colpevoli e gli innocenti, sono protagonisti veri, vivi, lontani dalla mia conoscenza ma dentro la mia coscienza tanto da soccombere alla necessità di doverli seguire a forza, tanto da aspettare, pagina dopo pagina, le loro conclusioni, le delusioni e ovviamente le sorprese che rendono accattivate il racconto di una storia affascinante sì, ma addirittura “normalmente noir” come mille altre.
L’unicità è nella ragione dei successi di critica e di vendita che Piera ha, la sua scrittura. Ripercorrere il mio “altrove” attraverso l’analisi delle opere pubblicate durante una carriera di uno scrittore è un impegno fuori dalla mia portata materiale, di tempo e di spazio, però è una promessa fatta al desiderio che non sapevo potesse esistere: scorticare parola per parola, frase per frase, pagina per pagina, il racconto di una storia, l’opera narrativa delle azioni e dei pensieri umani, la vita e la morte:
“Le campane suonavano a morto. Il cielo di Napoli era grigio, pesava un’aria di scirocco.Il commissario tirò fuori un fazzoletto e si asciugò il sudore.Diede un’occhiata oltre il vetro del minuscolo bar che avevano scelto per parlare. L’ingresso della chiesa di Santa Maria delle Grazie era perfettamente in vista. In Vico Rotto a carbonella, qualcuno passando si faceva il segno della croce. Curiosi bisbigliavano aspettando l’uscita del feretro.”
Non sono niente e sono tutto, un lettore, classificabile dall’ISTAT, identificabile da sofisticate ricerche di mercato, “strumentalizzabile” dal proprio ego e dall’infinito fuoco sparato dal supremo esercito, quello alle dipendenze del lucro economico, dei controllori sociali del consenso e delle vendite; sono un semplice lettore, un numero primo, solo un numero, un universo tra gli universi, vittima e carnefice, benzina nel motore dei social e del mercato, un invisibile, un codice fiscale, una tessera sanitaria, un consumatore… ho consumato questo libro, non sapevo esistesse, mi sono nutrito e sono soddisfatto, ne voglio ancora: può esistere un giudizio migliore? Gratuito? è vero: in un mondo dove tutto è ormai merce, la verità è giusta? è una bestemmia? o addirittura un’offesa? Dov’è la verità?
Le notti, un sax e le macumbe … la magia è uno stato dell’anima, segreti e misteri gli ingredienti speziati, un buon giallo mi trascina nel groviglio dei riti e delle soluzioni finali, capisco ora il successo dei romanzi noir.
Il meritato successo di oggi ha radici profonde: complimenti Piera, la vera letteratura è per sempre.
comunicato ai miei carissimi lettori: continuate così – veramente grazie di cuore!!! – ogni segnalazione di errori/orrori, in violazione della grammatica e sintassi italiana, anche napoletana ogni commento e ogni domanda sono linfa vitale per questo progetto di editing collettivo in continua evoluzione, intanto … tanto per rimarcare la mia inadeguatezza all’impresa bisogna rifare le fondamenta che si sono sfatte, forza e coraggio … ho ripreso dalla polvere il libro che si vede allegato al post … nel ’77 ero in prima media (e voi?) … vi prego fermatelo questo tempo maledetto che corre veloce, vi prego fermatelo … intanto, bisogna leggere e studiare prima di pubblicare … ormai la frittata è fatta e come dicono quelli bravi, bisogna buttare l’acqua sporca, mai il bambino !!!
essere lettore, essere giudice, valutare ciò che oggettivamente uno scritto trasmette a chi legge, è un lavoro tremendamente difficile, impegnativo, può essere una professione esaltante se costruita sulla passione ma credo che il bagaglio culturale e delle esperienze, necessario per dotarsi di una cassetta degli attrezzi adeguata è paurosamente infinito, magari ci si può specializzare in termini di “aree” di scrittura e in termini di “target” di lettura … facile, rilassante, invece è la dimensione soggettiva, quello che ci piace e che ci cattura, quello che ci fa pensare, che ci forma, che ci fa sognare, quello che … ci aiuta a sentirci vivi dentro e fuori dal nostro essere umani, nonostante la violenza e le ingiustizie che alimentano il male e la cattiveria dell’essere umano.
Facile e rilassante è scegliere cosa leggere. Devo leggere, devo giudicare…
Nel #ilterzolivello c’è un passaggio del protagonista che impone al figlio la figura del genitore come giudice, il giudicare il figlio è un dovere per il protagonista, quando sappiamo bene come da sempre i figli rimproverano con forza questo ruolo: “tu sai solo giudicarmi!” … ancora non ho trovato un lettore che mi abbia segnalato/criticato questo tema, … la verità è che nella mia sfacciataggine ho buttato dentro troppi temi … ma la vera domanda è: perché dovrei leggere questo #ilterzolivello ? Perché dovrei partecipare a questo esperimento di “editing collettivo”? … devo ragionare meglio con il mio ghostwriter … intanto seguo il suo saggio consiglio: LEGGI!!!