L’ISOLA DI TERRACOTTA

Romanzo di Domenico Notari, 2019 MARLIN Editore.

In queste ore la tempesta Ciaran allaga l’Italia ingrossando i fiumi che straripano e il mare che ruggisce sulla costa consumando arenili e i lidi appena chiusi dell’estate 2023. Nelle ultime ore ho appena finito di leggere questo straordinario romanzo pubblicato la prima volta nel secolo scorso, nell’anno 1999, l’anno che a me ricorda le mollette di legno, Aquila uno e Aquila due di SPAZIO 1999. Mentre nelle strade la rivolta giovanile del ’77 urlava, io giocavo con le mollette di mammà. Sono sempre in colpevole ritardo nel mettere toppe alla mia sbrindellata conoscenza, e probabilmente gli strappi del tempo che inesorabile passa, non sono cucibili, e forse nemmeno i ricordi hanno rilevanza, e se non era per Simone della Feltrinelli di Salerno che mi diceva «Devi leggere Mimmo Notari!» nemmeno il materialismo storico degli eventi m’avrebbe emozionato così tanto da impormi la ripresa di queste pagine di diario. Sarà la disperazione che sento nelle urla della tempesta Ciaran, la disperazione che grida dai conflitti d’Oriente, sanguinarie distruzioni di corpi innocenti, saranno le grida mute delle anime affogate nel mare dei migranti che scappando dalla follia diventano vittime di un sogno d’Occidente che sta morendo. Indicibile, insaziabile, pazzia senza umanità, la guerra. Sarà quest’angustiante senso di impotenza allo sgomento che mi avvolge in queste ore, a rimettere in moto il bisogno di fissare su una pagina le sensazioni d’immensità che una grande e bella storia riesce a donare. C’è tutto il mondo nelle vicende di Michele Procida, il protagonista di Notari, le passioni e i dolori, le scoperte, la formazione e la trascendenza della vita che diventa immortale nell’opera d’arte e nella riproduzione dei sentimenti che ci fanno umani ad li là di ogni esistenza la cui singolarità è destinata a perdersi nella folla dei pensieri senza progenie. Dopo questa lettura ogni oggetto di argilla cotta, ogni riggiola calpestata, ogni piatto o boccale sul tavolo di tutte le tavole, diventa musica e canto, ogni ceramica riluce d’anima umana, perché dalla fabbrica dei desideri non possiamo fuggire, la fabbrica è dentro e di noi, tormento e delizia, piccola ma infinita, la fabbrica dell’arte che diventa materia d’ogni emozione che non riusciremo mai a controllare. L’architetto scrittore disegna con le parole la costituzione di una cultura che si tramanda e sopravvive, nutrendosi dei conflitti e della capacità distruttiva del tempo che passa. L’architetto scrittore schizza e rifinisce il divino progetto che rende re il morto di fame, miseri i padroni e desolanti i cammini dell’avidità del potere. La storia da proteggere e riprodurre è una catena millenaria di cui Vietri sul Mare, l’intera Divina costiera, le sirene di Positano e perfino le maioliche del Monastero di Santa Chiara a Napoli, sono anelli materiali di possente forza che brillano con i colori devastanti dell’immaginazione, e così accecanti riflessi prendono vita nell’intreccio delle storie vere come solo l’emozione e il sentimento sanno sentire vive. Non posso sapere quanto lo scrittore sia al servizio dell’architetto o quanto invece sia l’architetto al servizio dello scrittore, quello che so è che L‘ISOLA DI TERRACOTTA appartiene alla nostra terra, è parte essenziale della nostra identità mediterranea, dominante e dominata; è frutto costituente di una memoria senza tempo che unisce la materialità dell’oggetto comune all’essenza stessa dell’emozione rendendola dura e fragile come ceramica. Siamo isole di terracotta in mezzo al mare di servi e padroni, isole di bellezza che s’abbracciano e si respingono in un continuo affanno di desideri irrisolti, in cerca di risposte a domande ancora da inventare come la prossima pennellata che di colore sbiadito su un piatto bianco s’accende di splendore dopo l’ultima cottura nel forno rovente dell’esistenza.

IL FIORE DI MINERVA

Romanzo di Carmine Mari, 2022 Marlin EDITORE

L’insostenibile desiderio alla disconnessione credo sia una delle mie personali risposte immunitarie che mi salveranno dall’affogare nella melma connettiva di questo XXI secolo, epoca tanto malata quanto ricca di bisogni antichi ma eterni.

La cura, o meglio la fuga dal virus nocivo della stressante frenesia moderna, è il romanzo, uno meraviglioso come IL FIORE DI MINERVA, per esempio.

Questa lettura è stata per me una violenta terapia d’urto, benefica e deliziosa, sorprendente nonostante quello che potevo aspettarmi dopo aver goduto dell maestria dell’autore nel romanzo precedente, Hotel d’Angleterre.

La scrittura minuziosa, erudita ma leggera, aulica ma a tratti travolgente nell’azione e, capace di emozionare, ne fanno un toccasana senza tempo, per ogni stagione, per ogni malanno dell’anima.

Romanzo storico? È una categoria forse troppo limitante per questa magnifica storia, che oltre ad essere l’ennesimo tributo ad una città troppo spesso sminuita e cannibale di sé stessa, ha il respiro della magia e della scienza umana che sperimenta e costruisce intrugli miracolosi. Con gli eventi, gli intrecci mirabolanti, e personaggi più vivi di quelli che ci circondano ogni giorno per strada, al lavoro, in TV e sui social, l’autore sembra essere diventato lui stesso la speziale che racconta, alla ricerca di quella verità superiore, distillata ad ogni fremito del pensiero, verità recondita ai desideri più materiali e tormentati dell’animo umano, quella verità madre di bellezza e amore, la verità che trionfa sulle miserie e le violenze dell’uomo, la verità che si fa giustizia umana, terrena.

Questo romanzo è una pozione magica, è un concentrato di ingredienti antichi ma eterni, sostanze che rendono significativa l’esistenza di ognuno. Questo romanzo, come dicevo è un toccasana, ma non è solo un prodotto definito, contiene la ricerca e la spiegazione, le domande e le risposte, più di una ricetta da provare, ha in sé la mirabile capacità di trascinare il lettore con coinvolgimento crescente al desiderio di distruggere il male dentro e fuori di sé. La denuncia della violenza sulle bambine e il conseguente obbligo alla prostituzione, allora come oggi, insieme alla sottomissione della donna all’uomo, sono aberranti e purtroppo fatti che ci fanno pensare a come il male si riproduca senza freni, secolo dopo secolo, a come quest’epoca sia ancora tanto medioevale, altro che moderna.

Devo dire che alle tante brutture raccontate, tanto indispensabili e vere come le ossa del nostro scheletro che ci sorregge, a trionfare sono l’immensità della poesia e la bellezza tutt’altro che esteriore che mi è permeata nel profondo, con tutta l’intensità della carne dei muscoli e dei nervi di cui siamo fatti.

IL FIORE DI MINERVA è viaggio nell’essenza umana tanto vasta quanto terribile, tanto intricata quanto meravigliosa, è una settimana del 1551, un attimo nella storia, un momento di conoscenza approfondita, senza confini di spazio e di tempo, fatto di brividi che scuotono, di carezze che ammaliano, di Héctor e di Costanza, personaggi eterni di passione, riscatto e sogno.

«Certe cose sfuggono, quando non si sa cosa cercare.»

«E ora lo sapete?»

«Sì.»